INVOCARE LA PACE NEL MONDO
È DOVEROSO E SEMPRE PIÙ URGENTE
I protagonisti di tale nobile
fine umanitario fanno parte di un passato
lontano, ma perché non ricordarli? Alcune
considerazioni di tre filosofi
tra i quali il
medico-filantropo Albert Schweitzer
di
Ernesto Bodini
Da tempo, se non
da sempre, andiamo rincorrendo la necessità di pace, quella più vera e
concreta, sollecitata dai capi di Stato e dalla gente comune e, paradossalmente,
anche dai fautori di conflitti (attualmente nel mondo ne sono in corso 52-54),
con la differenza che questi antepongono alla pace il potere dominante sui
propri simili… sino a sopprimerli. Secoli di storia pare non essere serviti
all’uomo per migliorarsi e avvicinarsi al bene e quindi alla pace comune, e
questo nonostante i molteplici mezzi di comunicazione: incontri ai vertici,
proposte, scambi e interscambi d’ogni ordine e grado; se poi includiamo le
appartenenze religiose e le diverse culture in molti casi radicalmente opposte
a quella che potremmo definire razionalità per il bene comune, allora le
possibilità di una ipotesi di pace tendono ad essere sempre più lontane se non
impossibili. Un richiamo alla pace è stato espresso anche dal presidente Sergio
Mattarella in questi giorni ospite in Giappone, e durante il suo intervento
alla televisione pubblica, riferendosi a quanto hanno subìto le popolazioni di
Hiroshima e Nagasaki (e probabilmente anche all’attuale conflitto europeo), ha
affermato: «Una pace basata sulla
prepotenza non durerebbe»; una affermazione concisa e, a mio modesto
avviso, non priva di retorica in quanto è inevitabile parlare in positivo in
tali occasioni, ma intanto la gente continua a soffrire e a morire un po’
ovunque. Richiamando alla memoria uno dei capostipiti del concetto di pace, non
si può che menzionare Alfred Nobel (1833-1896) che, con la sua omonima
Fondazione, volle dedicare anche un Nobel per la Pace che, sino ad oggi, è
stato assegnato a 92 umini, 19 donne e 30 Organizzazioni. Citarli tutti ci
vorrebbe molto spazio, e tutti meriterebbero di ricordare la motivazione e un
breve commento. Senza togliere nulla ad essi a mio avviso basterebbe citare (anche
perché chi scrive è in veste di biografo) il filosofo e medico-filantropo
alsaziano Albert Schweitzer (1875-1965), che ebbe tale riconoscimento nel 1952.
In merito ai cencetti guerra e disumanità, analizzando i due conflitti mondiali
e relative conseguenze, e constatando la mancanza di umanità rispetto alle
generazioni precedenti, Schweitzer affermava: «Siamo venuti in possesso di armi nucleari: la possibilità e la
tentazione di distruggere la vita superano ogni limite. Oggi, grazie al
grandioso progresso della tecnica, il destino dell’umanità è segnato dalla
possibilità di un orribile annientamento della vita». E si domandava come
presentare a tutti e in modo nuovo, il problema della pace. Se un tempo si
considerava la guerra un male accettabile, se non addirittura utile per il
progresso umano, almeno dei popoli più forti, dopo i due conflitti mondiali
tale ipotesi era fortemente messa in dubbio. Il dottor Schweitzer non aveva
esitazioni: «È evidente che una guerra
rappresenta una orribile calamità e non bisogna lasciar nulla di intentato pur
di evitarla; e ciò, soprattutto per una ragione etica. Nelle ultime due guerre
ci siamo macchiati delle colpe di un’orribile disumanità, e sarebbe ancora
peggio in una guerra futura. Questo non deve avvenire». Un mondo caduto nel
nulla: nell’ultimo mezzo secolo (il riferimento è sino agli anni ’50) le guerre
si sono susseguite e intensificate in tutto il mondo. «Quello che oggi ci manca – proseguiva il grande pensatore – è riconoscere che siamo tutti colpevoli gli
uni verso gli altri di atti disumani. L’orrenda esperienza collettiva, attraverso la quale siamo
passati, deve scuoterci, perché la nostra volontà e la nostra speranza siano
impegnate verso tutto ciò che può portare a un’epoca in cui non ci siano più
guerre. Questa volontà e questa speranza sono possibili solo se, attraverso uno
spirito nuovo, raggiungiamo un’intelligenza superiore, che sia in grado di
trattenerci da uso infausto delle energie di cui disponiamo». Il suo
pensiero non è nuovo. Quattro secoli prima, nel 1517, Erasmo da Rotterdam
(1469-1539) aveva pubblicato un volume intitolato Querela Pacis ((Lamento della Pace), in cui la Pace (retoricamente
personificata) espone al tribunale dell’umanità il suo desolato lamento e
chiede di essere ascolatato. Il grande umanista olandese, per primo, ha osato
opporsi alla guerra con motivazioni puramente etiche, definendola contraria
alla natura umana; ma non ebbe seguaci. Il suo appello alla pace, come
imperativo etico, fu considerato un’utopia. Nel 1795, Immanuel Kant (1724-1804)
pubblicò un’opera dal titolo significativo: Per
la pace perpetuta; per realizzarla, suggeriva il filosofo tedesco, c’è
bisogno di un’autorità arbitrale internazionale, che abbia l’autorevolezza di
dirimere le controversie tra i popoli. In effetti Schweitzer constatava allora
(come oggi) che le Istituzioni internazionali non sono state in grado di
promuovere una situazione di pace,
perché hanno dovuto operare in un mondo in cui manca una mentalità orientata
alla realizzazione della pace. «Essendo
istituzioni giuridiche – precisava –, non
potevano creare tale mentalità: questo è possibile soltanto allo spirito etico.
Kant si sbagliava quando pensava di poter ottenere la pace senza questo spirito
etico». Secondo Schweitzer la pace dipende dalla formazione di tale
mentalità nei singoli e nei popoli, la quale consiste nel rifiutare la guerra
in base a motivi etici, cioè, perché essa ci rende colpevoli di disumantà. I
tempi di Schweitzer e i nostri attuali si equivalgono: i popoli si sentono
tuttora minacciati da altri popoli. «È
inevitabile – precisava il filosofo alsaziano nel ricevere il premio, e nel
suo intervento magistrale ad Oslo nel 1953, proprio sul tema della pace – riconoscere ancora ai popoli il diritto di
usare, per legittima difesa, le terribili armi di cui disponiamo». Convinto
di esprimere la speranza di milioni di persone, che in molte parti del mondo
temono per la pace, concludeva: «Quelli
che tengono in mano il destino dei popoli possano riflettere, per evitare tutto
ciò che potrebbe peggiorare la situazione in cui ci troviamo e metterci in
ulteriore pericolo, e possano prendere a cuore quella meravigliosa parola
dell’Apostolo Paolo: «Per quanto sta in voi, siate in pace con
tutti».
Il concetto “Rispetto per la vita” coniato da
Schweitzer (nella foto) e messo in pratica nella vita quotidiana, è da
ritenersi più che mai attuale, fonte di ispirazione per chi lotta per
conservare la propria umanità: un bene da tutelare a ogni costo. Ma è una lotta
che non si combatte unilateralmente. «Essa
chiama – sottolineava – a riflettere
sul fatto che molta umanità e molta libertà interiore possono conciliarsi con
la realtà della propria vita. Ben più di quanto di fatto si realizzi. E una
lotta che spinge a conservare, se qualcuno vi avesse rinunciato, la meditazione
e il raccoglimento interiore. Bisogna arrivare a una spiritualizzazione delle
masse. Ogni singolo deve giungere a riflettere sulla sua vita, su ciò che vuole
ottenere per la propria vita mediante la lotta per l’esistenza, sulle
difficoltà legate alle circostanze esterne e su ciò a cui è disposti
spontaneamente a rinunciare». Non c’è dubbio che, nei decenni passati, il
filosofo alsaziano ha contribuito allo sviluppo storico e spiritule del nostro
tempo, che ne rispecchia tuttora le tendenze, le speranze, le angosce. Il principio del
“rispetto per la vita” è ancora un’affermazione che obbliga tutti, in qualunque
situazione si trovino, a occuparsi e farsi carico del destino degli esseri umani.
Responsabilità che si traduce in vari modi e vari nomi: non violenza,
pacifismo, neutralità, difesa dei popoli, impegno per la giustizia,
salvaguardia del creato. Concetti che valgono tutt’oggi, a mio avviso
“aggravati” dal fatto che nessuno ha il coraggio di affermare che chi imbraccia un’arma
tutti giorni per andare al fronte, deliberatamente o meno va per uccidere: per
offesa o per difesa.
coraggio di affermare che chi imbraccia
un’arma tutti giorni per andare al fronte, deliberatamente o meno va per
uccidere: per offesa o per difesa.
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