RICORDANDO ALBERT SCHWEITZER A
150 ANNI DALLA NASCITA E 60 DALLA MORTE
Uno dei protagonisti della filantropia del XX secolo che seppe dimostrare con le sue opere il vero significato del concetto “rispetto per la vita”. Il suo esempio dovrebbe essere ricordato a tutti i despoti della Terra. Anche la Chiesa potrebbe dare il suo contributo diffondendone il pensiero e l’azione.
di Ernesto Bodini
Nel processo evolutivo di ogni essere umano c’è un tempo in cui la sua triplice natura: fisica, emozionale e mentale raggiunge inevitabilmente un tale sviluppo da consentirne una sintesi perfetta. Ed è da questo momento che l’uomo diventa personalità in quanto pensa, deci9de e dispone; assume il controllo della sua vita, tanto da costituire un fattore di rilevante influenza nel mondo. Se un esempio si può fare, io credo di poter individuare in Albert Schweitzer la figura che più si colloca in questo contesto: per aver dedicato la sua esistenza (estremamente creativa) rispondendo alla sua più ardita vocazione interiore. Il celebre medic alsaziano, esempio fulgido di amore per il Creato, è stato definito da alcuni un visionario, emissario sospetto da altri, in odore di sanità da altri ancora. Iniziò brillantemente la sua vita intellettuale come teologo, come virtuoso d’organo, come autore di un’opera classica su Bach e come filosofo; ma dal 1913 ha votato la sua vita ai nativi di Lambarènè, nell’Africa equatoriale francese, adoperandosi come medico e missionario. Oggi, nella solidarietà con il sud del mondo, appare come un antesignano. Con pregi e difetti. Nato il 14 gennaio 1875 a Kaysesberg nell’Alta Alsazia, Albert frequenta il Ginnasio di Mulhouse e poi l’Università di Strasburgo, dove si laurea in Filosofia nel 1899 e prende nel 1902 la libera docenza in Teologia. Nel 1911 si laurea in Medicina e, a Parigi, si specializza in malattie tropicali. Due anni dopo sbarca a Lambarènè (un villaggio del Gabon, sulle rive dell’Ogoouè) con la moglie Hèléne Bresslau (1879-1957), che gli fu sempre vicina in quella straordinaria avventura in un mondo dove imperavano la lebbra, la mosca tse tse, la malaria, la superstizione e la fame, in un clima equatoriale pesante di umidità. Nel suo lavoro di medico Schweitzer non fu un genio e non ha mai inventato nulla; quello che invece è rilevante nella sua personalità non è tanto la sua capacità geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta da una straordinaria forza di volontà e favorita, come egli stesso affermava, da una buona dose di fortuna. Nel 1924, sino all’arrivo dell’alsaziano dott. Victor Nessmann (1900-1944), primo assistente e collaboratore di Schwitzer: dal 1925 fu coadiuvato dal dott. Marc Lauterburg (1896-1985), e in seguito dal dott. Frederic Trensz (1901-1990), il più vecchio collaboratore di Schweitzer e suo successore a Lambarènè (il primo dopo la morte di Schweitzer fu il dott. Walter Munz). L’ospedale di Lambarènè fu secondo in tutta l’Africa solo a quello di Nairobi in Kenja. Si operavano soprattutto ernie giganti, gozzi e ferite varie causate da incidenti. Nel 1939 gli interventi furono 700 e circa 40 pazienti erano ricoverati in attesa di essere operati. Mentre per la dissenteria si usavano il Cloridrato di emetina, il Yatrene, l’Allistatina e la Iodalguina contro la filariosi, la malaria, la malattia del sonno, i tumori, la lebbra (curata con il Promine e il Diasone), due prodotti che Schweitzer per primo introdusse nell’Africa Equatoriale dagli USA), l’ulcera fagedemica e contro le affezioni intestinali come la dissenteria, bilharziosi (patologia che risultò sensibile al Tartaro stibiato, ed Anchilostomiasi, la Tbc polmonare o ossea, la rosolia e le avitaminosi, sia allora, come oggi, venivano usate sostanze biochimiche prodotte dall’industria farmaceutica. In quel periodo Schweitzer scriveva. «Le médicine tropicale a fait de gran de grand progrès dans le traitement des splénomégalies qui se produismet dans e paludisme chronique. C’est tout à la science italienne que la médicine est redevable de ce traitment». Fu anche il primo a sostituire l’Atoxyl e l’Arseno benzolo (farmasci dagli effetti collaterali pericolosi e inadatti a distruggere i microrganismi che avevsno già invaso le cellule del sistema nervoso centrale) con il Germanyl, il Moranyl ed il Tryparsamide, molecole che, grazie alla scoperta della statunitense Pearce, avevano rivoluzionato la cura della malattia del sonno. Gli ammalati arrivavano da villaggi distanti centinaia di chilometri dall’ospedale, in condizioni pietose, affamati, denutriti, e spesso accompagnati dai familiari. Evidenti le difficoltà di organizzazione di un ospedale coloniale, ma Schweitzer nel suo discusso villaggio sanitario accolse gli ammalati assieme alle loro famiglie, agli animali e consentì ai vari gruppi etnici di vivere secondo i loro costumi: tollerò le abitudini tribali, la poligamia, le loro interminabili discussioni… Il villaggio sanitario come concepito da Schweitzer è un’idea dell’avvenire e se comparato alle cliniche delle capitali, il villaggio con le sue costruzioni basse e di modeste dimensioni ha un aspetto umile, quasi povero.
Tuttavia, nel 1950 furono installati l’energia elettrica e il primo apparecchio radiologico; nel 1954 fu modernizzato il laboratorio analisi, ampliata la rete elettrica e il villaggio dei lebbrosi prese la sua forma definitiva grazie al Premio Nobel per la Pace. Molte persone, oltre ai medici ed infermieri, seguirono il suo esempio e si dedicarono al servizio di operw umanitarie o missionarie in Africa. Fu così che il “grand docteur” (come era chiamato dagli indigeni) usò la sua fama per ispirare altri in un impegno come il suo, per il rispetto della vita in ogni sua forma, sulla comprensione dei popoli africani, e sulla pace nel mondo. Ritenne sempre che la migliore medicina per qualunque malattia egli potesse avere, era la consapevolezza di avere un lavoro da svolgere, più un sano senso dell’umorismo, del quale si serviva in modo così artistico tanto da considerarlo come uno strumento musicale. Come il suo amico Pablo Casals (1876-1973), famoso violoncellista, Albert Schweitzer non lasciava passare giorno senza suonare l’organo (in Africa un pianoforte modificato per necessità ambientale): il suo brano preferito era “Toccata e fuga in Do minore” di Bach. La sua straordinaria abilità gli valse molti riconoscimenti in tutta Europa e lauti compensi che gli permisero di finanziare la sua attività ospedaliera.
Per entrare in merito a questo suo orientamento
bisogna chiedersi: “Qual è il senso della vita? Cosa significa fare il bene?
Qual è il giusto rapporto dell’uomo con il mondo? Schweitzer con l’opera Filosofia
della civiltà (Ed. Campo dei Fiori, 2014) ci aiuta a comprendere in quanto per primo affronta di petto gli
interrogativi fondamentali della disciplina filosofica, approfondendo nel testo
la sua nota teoria “Rispetto per la vita”.
Solo il principio di tale concetto può illuminare il cammino dell’umanità e
condurla al vero progresso. Quest’opera è stata scritta e rielaborata tra il
1913 e il 1917, la cui filosofia offre un’impietosa critica della realtà e
della cultura dominanti, individuando un’importante via di ricostruzione: solo
il principio del “rispetto per la vita” può illuminare il cammino dell’umanità
e condurla al vero progresso. «Il nostro
pensiero filosofico – è quanto lamenta Schweitzer – ha smarrito la sua dimensione elementare e anche l’etica sembra
brancolare nel buio. La vera filosofia deve muovere dalla constatazione più
immediata della coscienza: sono vita che vuole vivere, in mezzo a vita che
vuole vivere». Da questo sano principio che poggia le basi su di una
incontestabile etica, si può intessere una relazione spirituale con il mondo,
prima ancora di dedicarci alla sua conoscenza. L’invito di Schweitzer è
sentirci partecipi alla vita di ogni essere vivente che ci circonda, e solo
così cuore e ragione si incontrano si compenetrano. Attraverso la storia del
pensiero filosofico da Platone a Kant sino ai suoi contemporanei, scandaglia
con arguzia e senso critico le argomentazioni in merito al problema etico, alla
relazione tra etica d civiltà. La sua visione è di grande attualità: molto
prima della globalizzazione sviluppa l’idea dell’intraprendenza di tutti gli
esseri viventi sulla terra, anticipando la diffusione dei tempi ecologici.
Procedendo, sia pur per sintesi, il dottor Schweitzer sosteneva: «Solo chi sa trovare un valore in ogni
attività consacrandosi ad essa, invece di quella che gli tocca naturalmente
dalla sorte. Solo chi concepisce il suo proposito come qualcosa di ovvio, non
di straordinario, e non conosce l’atteggiamento eroico, ma esclusivamente il
dovere assunto con pacato, entusiasmo, ha la capacità di essere un avventuriero
spirituale. Non ci sono eroi dell’azione, ma soltanto eroi della rinuncia e del
sacrificio. Pochi di essi sono conosciuti, non dalla folla ma da una piccola
cerchia di persone… Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi
chiamato a contribuire a lenire il dolore
degli altri. Tutti, infatti, dobbiamo portare il fardello di sofferenze
che pesa sul mondo: chi dà la propria vita per gli altri la conserva per
l’eternità. Chi si propone di agire per il bene, non deve aspettarsi che la
gente per questo gli tolga gli ostacoli dal cammino, ma rassegnarsi che, quasi
inevitabilmente, gliene metta qualcun altro in mezzo». Questo è il profondo
insegnamento etico che scaturisce dall’analisi filosofica di Schweitzer nella
sua opera su citata.
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