Articolo
dedicato alle future generazioni di medici
SE AVESSI POTUTO DIVENTARE MEDICO…
Un ideale mancato nella concretezza ma
compensato dalla attività
di giornalista medico-scientifico e
biografo. Ruoli per certi versi non meno
impegnativi e responsabili…
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico e biografo)
Idealmente comincerei a considerare l’ipotetico ma programmatico e concreto periodo di formazione, ossia i necessari 6 anni di frequentazione universitaria, durante i quali avviene la conoscenza e studio delle varie materie, teoria seguita da alternate presenze pratiche in corsia di ospedale specie negli ultimi due-tre anni. Un percorso magari non privo di sacrifici tra notti insonni e le prime difficoltà nel comprendere alcuni aspetti di questa o quella materia. Poi il rapporto con i docenti, che auspico tutti all’altezza del loro ruolo, per confluire nelle lodevoli votazioni talvolta super-meritate tal’altra più discutibili. Durante gli ultimi anni penserei al tema da dedicare alla Tesi di Laurea, un impegno non da poco avendo interesse per più argomenti. Pur volendomi consigliare con i docenti la scelta rimarrebbe sempre mia e, poiché durante questi anni accademici nulla mi sarebbe impartito dal punto di vista della Storia della Medicina che ritengo ulteriormente utile, sceglierei il tema: “Albert B. Sabin: il medico e microbiologo che debellò la poliomielite”; scelta da onorare nel tempo per accompagnare il mio futuro percorso professionale, con l’auspicio di sensibilizzare costantemente colleghi e popolazione sulla importanza delle vaccinazioni. Subito dopo o quasi, questa fatica, l’inevitabile tappa della Specializzazione, un ulteriore periodo di studi di quattro-cinque anni cui dedicare particolare interesse per un settore specifico della Medicina più consono alla mia indole umanistica, e quindi ad una maggiore predisposizione per il rapporto medico-paziente e paziente-medico, quindi mi orienterei per la Medicina Legale con dedizioni agli aspetti sociali in senso lato, e con particolare interesse per le Malattie Rare. Data la buona volontà di tali propositi, seppur solo ideali ma sinceri, immaginerei di aver superato i dieci anni di corso con esiti se non “brillanti” quanto meno accettabili e comunque soddisfacenti tali da onorare al meglio il percorso professionale. Fin qui il sogno nel cassetto.
SANI PROPOSITI
L'autore dell’articolo a colloquio con il prof. A. Sabin)
Tralasciando questa parte inziale, che per la verità era un sogno rimasto nel cassetto senza possibilità di rivedere la luce, a tutt’oggi se fossi veramente diventato un medico e in considerazione delle attuali incongruenze e poco gestibili situazioni del SSN, affronterei tale impegno “imponendomi” per competenza maturata e serietà, seguite da costante aggiornamento volto a migliorare la qualità delle mie prestazioni non solo tecnico-pratiche, ma anche intensificando la relazione con i pazienti aiutandoli a superare eventuali ostacoli burocratici, peraltro sempre più imponenti. Quest’ultima azione nella realtà attuale avviene di rado e solo da parte di pochissimi medici, ma che tutti dovrebbero considerare il paziente come Persona (non utente-cliente), prevaricando quella condizione-capestro imposta dagli amministratori (ministri e assessori) individuabile in spending review e raggiungimento degli obiettivi. Ma nel continuare in questi ipotetici propositi (che per certi versi non sono solo fantasiosi, l’essere medico nella realtà d’oggi richiederebbe un impegno ulteriore che, a mio avviso, consiste nell’essere punto di passaggio lungo l’itinerario attraverso il quale la malattia si inscrive nell’ordine sociale e lo rivela, giacché la malattia socializzata va intesa in un duplice riferimento al lavoro e alla Medicina. Quindi, sarei ben cosciente che per chiunque ricorrere a tale professione è il corollario dello stato di malattia in quanto curare è un imperativo in qualunque caso: anche quando il disturbo, secondario, può con ogni probabilità guarire spontaneamente, o al contrario, l’affezione è (nei confronti della Medicina) impotente. A questo riguardo ricordo di aver letto un significativo passo del volume “L’uomo e il medico”: «Nell’opera del medico e di chi assiste l’ammalato vi è qualcosa di sacro, frutto della consapevolezza dei propri limiti e dell’esercizio dell’amore, della coscienza di una presenza immancabile che si serve di noi. Il dovere naturale ci comanda infatti di considerare l’uomo ammalato non solo come problema diagnostico e terapeutico, ma come essere nobilitato e reso sacro dalla sofferenza». Inoltre, in qualunque contesto io credo che il medico debba (o dovrebbe) ascoltare con pazienza i motivi e le richieste del paziente e dibatterle con lui, mostrandogli i pro e i contro di ogni passo che vorrà compiere, i vantaggi personali e quelli per l’intera comunità. Non cerca di imporre, paternalisticamente o autorevolmente i propri princìpi, ma di far capire all’interlocutore il valore di questi. E proprio per queste ragioni, è una figura che molto si avvicina a quella di amico e maestro. Sono questi, a mio parere, gli obiettivi della professione medica, che sempre conserva intatto il suo fascino (anche se “osteggiato” da un SSN in declino), e le necessità dei pazienti. Ovviamente ciò richiede più impegno da parte del medico che necessita di più tempo, poiché il confronto è interpersonale, e non una fredda e sterile relazione professionale. Per tutte queste ragioni sarebbe bene che il sistema sanitario incoraggi e non penalizzi in qualunque modo (come accade ormai da troppo tempo), i medici che vogliono dedicare più tempo ad ascoltare, discutere e comprendere le ragioni di ogni paziente. In questo contesto mi opporrei alla cosiddetta “Telemedicina” e/o visita virtuale, poiché verrebbe meno il necessario e più esplicito rapporto medico-paziente e paziente-medico, avendo constatato più volte gli effetti estremamente positivi del rapporto diretto “de visu”.
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