IN VISITA ALLA S.C. DI TERAPIA DEL DOLORE E CURE
PALLIATIVE
Struttura di eccellenza dell’ospedale Molinette di Torino
di Ernesto Bodini
Al 3° piano dove vi sono gli ambulatori della Terapia del
Dolore mi intrattengo
con la referente dott.ssa Veronica Perlo, per una breve intervista
Dott.ssa Perlo, qual è il suo ruolo in questo reparto?
“È di coordinamento della sala operatoria e degli ambulatori per la gestione e l’accesso dei pazienti, e quindi del loro percorso terapeutico che entra a far parte di diversi algoritmi seguendo determinate linee guida, protocolli, etc. la gestione riguarda anche quella de personale medico, che peraltro è un gruppo molto giovane che ha bisogno di “confrontarsi” con altre realtà, apprendere nuove modalità di approccio alla terapia del dolore, e questo credo sia parte del mio ruolo ed essere per loro riferimento e una guida”
Quali sono i tipi di dolore seguiti e come vengono
trattati?
“Il dolore cronico “benigno”, non legato ad un tumore, ha un trattamento di prima fase farmacologico, in seconda fase con procedure peridurali o blocchi articolari, e una terza fase, detta di neuromodulazione, con l’utilizzo di tecniche come la radiofrequenza, l’impianto di neurostimolatori, in funzione di farmaci, etc.”
Sono tutti casi risolvibili o ci sono delle
eccezioni?
“Ci sono anche delle eccezioni in quanto si tratta di casi non risolvibili, nemmeno con la neurostimolazione… E ciò dipende dal tipo di patologia che, per la verità, sono spesso “banali”, ma il problema piuttosto è dove ha origine il dolore, ed è la persona che fa la patologia, oltre alla concomitanza di comorbilità e loro caratteristiche. In tutto ciò il dolore coinvolge molto l’aspetto bio-psico-sociale”
E per quanto riguarda le malattie neuropatiche?
“Queste patologie, come ad esempio il diabete, l’ernia discale, etc., rispondono alla neurostimolazione ma in modo soggettivo. Ciò vale anche per il trattamento della patologia oncologica: somministrazione di farmaci, infiltrazioni e neurostimolazione ma con indicazioni diverse”
Quale l’età media di questi pazienti?
“È sempre più avanzata, e la tendenza riguarda per
lo più pazienti geriatrici, in prevalenza di sesso femminile nella misura del
60 per cento”
La mia presenza in questa S.C. mi ha dato
l’opportunità di seguire alcune fasi del dialogo tra medici, infermiere e
alcuni pazienti, ricoverati nel reparto
di degenza, e i loro famigliari. Ciò in un clima di apparente serenità, dove il
contatto umano fra le parti ha trovato la massima espressione della professionalità,
della reciproca comprensione e/o accettazione degli aggiornamenti sia del decorso della patologia che della
terapia. Un approccio non solo professionale ma per certi versi anche di tenera
“complicità”, caratterizzata da un tono di voce lento, cadenzato e sommesso da
ambo le parti. Anche per tutte queste ragioni, prima di congedarmi ho
intervistato il direttore della Struttura.
PARTICOLARI COMPETENZE E ATTENZIONE PER
CHI HA BISOGNO DI CURE PALLIATIVE IN OSPEDALE
Intervista al dott. Paolo Cotogni, direttore della S.C.
Terapia del Dolore e Cure Palliative dell’A.O.U. Città della Salute e della
Scienza (Molinette di Torino)
Dott. Cotogni, quale è la situazione attuale in merito all’accesso e alle cure palliative in ospedale?
“A distanza di anni dall’emanazione nel 2020 della
Legge 38, in realtà c’é ancora molto da fare, perché al cittadino che si trova
ricoverato in ospedale possa essere garantito il diritto di accesso alle cure
palliative (C.P.), come previsto dalla Legge. I primi che vanno resi
consapevoli di questa necessità di garantire l’offerta di C.P. anche in
ospedale sono gli operatori sanitari, ma anche coloro che si occupano di
programmazione sanitaria a tutti i livelli. Ma non dobbiamo sentirci in ritardo
perché anche nel Regno Unito, dove sono nate le C.P. moderne, sono arrivati
tardivamente a comprendere che gli ospedali sono il luogo dove più
frequentemente erogare le C.P.”
Quali altri aspetti vanno sottolineati?
“Prima di tutto che le C.P. sono indicate
esclusivamente per il malato oncologico. Nulla di più errato tant’é che anche
nella Legge 38, è scritto che le C.P. sono rivolte alla cura attiva e totale
dei malati che siano affetti da una malattia caratterizzata da un’inarrestabile
evoluzione e da prognosi infausta. Questi malati ed i loro familiari hanno
bisogno di una presa in carico nella maniera più competente, e più attenta, a
quella fase della traiettoria della malattia nella quale i loro bisogni di
controllo dei sintomi diventano più acuti e le loro esigenze più pressanti in
termini di qualità della vita, come pure le loro aspettative relativamente
all’assistenza”
“Sono attivabili per malati di tutte le età, tant’é
che esiste una Rete di C.P. pediatriche che è distinta da quella per adulti. Le
C.P. sono accessibili per le persone con patologie neoplastiche, con tutte le
malattie croniche (cardiache, respiratorie, epatiche e renali) che hanno
un’insufficienza d’organo nella fase avanzata della loro storia clinica; ma
anche le malattie neurologiche in stadio avanzato, incidenti cerebrovascolari
acuti, malattia di Parkinson sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e la demenza”
“Le distrofie muscolari sono malattie che impattano
molto sull’aspetto dell’autonomia della persona malata per il progressivo
indebolimento dei muscoli, ma questi malati, se seguiti presso Centri esperti,
possono avere un’aspettativa di vita di molti anni”
“Sì, c’é ancora un cambiamento culturale importante
che va implementato tra i professionisti sanitari, ma anche tra le persone
affette da patologie caratterizzate da un’inarrestabile evoluzione, che è
costituito dal momento della presa in carico da parte dei Servizi di C.P.
Esisteva un modello (oggi superato) in cui si identificava questa presa in
carico con l”end of life” (fine vita), inteso come le ultime ore o giorni di
vita della persona malata. Già dal 2009 l’Associazione Europea per le C.P.
(EAPC) aveva esteso l’”end of life care”, ossia le cure di fine vita a mesi
(fino a un anno) prima del decesso”
Ma allora quando deve avvenire la presa in carico?
“Questo è il punto più critico. Una volta compreso
che le cure di fine vita non sono quelle erogate negli ultimi istanti di vita
del malato, la presa in carico da parte dei Servizi di C.P. può essere offerta
a tutte le persone che abbiano un’aspettativa di vita inferiore”
“In questo Presidio, in accordo con la Direzione
Sanitaria, nel 2015 è stato attivato dalla nostra Struttura Complessa il Team
per le C.P. ospedaliere, costituito da medici ed infermieri… Come Team
identifichiamo tra i malati che afferiscono al P.S. quelli che hanno le
caratteristiche per avere un percorso di C.P. e li ricoveriamo nel nostro
reparto di degenza”
“Esattamente. Ed è il Progetto che è stato attuato
qui nel Presidio Molinette dal 2018, attivando un reparto di degenza ordinaria
(Acute Palliative Care), unico in Italia, dedicato al ricovero di malati con
sintom non controllati con la necessità di presa in carico di C.P., ed in
questi sei anni abbiamo ricoverato oltre 2.000 malati, la maggioranza dei quali
in attesa di ricovero nel P.S. di questo Presidio ospedaliero. Questi malati
hanno bisogno di avere un luogo di cura di riferimento, di non essere ricoverati
“a pioggia” nei vari reparti ospedalieri, ma presi in carico da più figure
professionali esperte in C.P. quali medici, infermieri e psicologi-psicoterapeuti.
Se per un malato durante il ricovero in questo ospedale viene decisa una
transizione dalle cure attiva alla fase C.P., viene richiesta la consulenza
palliativa del Team per la presa in carico e, se possibile, il trasferimento
nel nostro reparto di degenza. In alcuni casi ricoveriamo malati in trattamento
oncologico attivo ma che hanno dei sintomi molto scompensati, come per esempio
il dolore. Il ruolo di questo reparto è anche quello di garantire il diritto di
questi malati di essere curati da esperti di terapia del dolore, che risolvano
il sintomo e li rinviino, in migliori condizioni cliniche, ad un percorso
oncologico per la prosecuzione delle cure”
“Obiettivamente non è sempre facile definire
l’aspettativa di vita di un malato che inizi un percorso di C.P., ed è una
grande sfida che ha implicazioni cliniche ed etiche. Ma più che definire
l’aspettativa di vita, è centrale identificare con un approccio
bio-psico-sociale i bisogni fisici, psicologici e sociali di quella persona,
elaborare un piano assistenziale integrato e “ritagliato” sulle sue esigenze e
quelle dei suoi familiari o caregiver. Se il malato ha ancora bisogno di
controlli ravvicinati viene invitato a visite ambulatoriali in ospedale;
quando non sarà più in grado di venire
in ospedale allora sarà preso in carico a domicilio da un’Unità di C.P. domiciliari. Quando il
malato non sarà più in grado di essere gestito a domicilio per l’aggravarsi
dell’intensità dei sintomi, o perché non ha una famiglia in grado di sostenere
il carico, l’hospice sarà il luogo di cura. Per proporre il percorso di
dimissione ai malati ricoverati nel nostro reparto utilizziamo dei criteri che
sono stati definiti da una deliberazione della Regione Piemonte nel 2002. Il
percorso di dimissione protetta del malato prevede due livelli assistenziali:
la presa in carico a domicilio da parte dell’Unità di C.P. domiciliari, oppure
il trasferimento in hospice. Le condizioni necessarie perché possano essere
erogate le C.P. a domicilio sono un livello di complessità ed intensività delle
cure compatibili con l’ambiente domestico e la disponibilità della famiglia a
collaborare”
“Bisogna preparare bene il primo approccio e
sapersi presentare per il momento più critico sono i primi secondi. Bisogna
spiegare cosa sono le C.P. e come si
intende aiutare la persona per vivere questa fase della malattia. Se ci si
presenta con empatia e capacità di ascolto questo approccio permette di non
incontrare “opposizione” da parte della persona ed i suoi familiari. Un altro
aspetto di cui il malato deve essere informato è il percorso di dimissione.
Infatti, molti desiderano tornare al proprio domicilio ed uno degli aspetti più
difficili da accettare ed elaborare dai malati che vanno in hospice, è proprio
quello del non poterlo fare”
Qual è l’aspetto più complesso nella comunicazione
con il paziente?
“L’aspetto più complesso nella comunicazione con il
malato è l’accertarsi di cosa ha capito della sua malattia. Se il malato è
all’oscuro della diagnosi, oppure se non
ha compreso o ha rimosso le informazioni ricevute dai curanti sulla propria
condizione di malato in fase avanzata, di una malattia che non risponde più a
trattamenti specifici, allora è necessario capire come e quanto debba essere
aumentato il suo livello di consapevolezza della malattia. La situazione
ottimale è quando la persona malata è consapevole sia della diagnosi e sia
della prognosi, ma la più frequente è quella di una consapevolezza di diagnosi
ma non di prognosi, generalmente una sovrastima della prognosi”
“L’uomo è un po’ più fragile perché affida la
propria gestione alla donna che gli sta accanto. La donna ha delle “chiavi di
lettura” della vita che noi uomini non abbiamo… L’uomo di fronte alla
sofferenza va incontro più facilmente alla confusione e quindi alla
disperazione, mentre la donna è più preparata ad affrontare la malattia, la
sofferenza e la morte; nel contempo è più fragile se ha figli, specie se minori
di età perché soffre di più per l’idea del distacco. Anche nell’assistenza dei
propri cari, nel ruolo di caregiver, la donna ha maggiori capacità nell’ascolto
e nell’accudimento”
“Il medico di famiglia è generalmente “assente”
durante il ricovero della persona malata nella nostra Struttura, perché non è
più come molti anni fa quando veniva in ospedale a chiedere del suo malato. Il
medico di famiglia resta uno dei professionisti da coinvolgere nel caso di
attivazione delle C.P. domiciliari dopo la dimissione dall’ospedale”
“Oggi è presente un marcato cambiamento della
composizione dei nuclei familiari, spesso costituiti da un solo genitore o da
persone singole. In Italia ci sono circa 22 milioni di malati fragili con
patologie croniche, di cui quasi 9 milioni con una forma patologica grave, che
vivono in questa condizione di fragilità per diversi anni i quali vengono
assistiti da oltre 8 milioni di caregiver che sono per oltre due terzi donne.
In questo contesto sociale, non è facile individuare un familiare che si faccia
carico del malato nella fase finale della vita consentendo così di attivare le C.P. domiciliari”
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