Il concetto di dignità umana e rispetto per la vita tra etica e cultura. Il
concreto esempio del filantropo Albert Schweitzer
Nel
vorticoso evolversi della vita quotidiana in ogni dove, il genere umano ha
sempre più bisogno di ravvedersi…, ma ciò non avviene per avidità e senso di onnipotenza
per ragioni religiose e politico-culturali… fuori controllo
di Ernesto Bodini
L’espressione “dignità umana” è un termine sempre più
ricorrente ma sempre meno rispettato dalla maggior parte delle persone… La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre
1948, già nel preambolo afferma che «il
riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e
dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento essenziale
della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Nel nostro Paese la
Costituzione all’art. 3 stabilisce: «Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale»; all’art. 13 stabilisce: “La libertà personale è inviolabile”,
all’art. 32 stabilisce: «La legge non può
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Il
principio della dignità della persona umana è stato inoltre ripreso dal Consiglio
d’Europa con la «Convenzione sulla
protezione dei diritti umani e della dignità dell’essere umano con riguardo
alle applicazioni della biologia e della medicina», firmata a Oviedo
(Spagna) il 4 aprile 1997 e ratificata dall’Italia con la legge n. 145 del 28
marzo 2001 che, all’art. 1 definisce come propria finalità «la protezione della dignità e dell’identità
di tutti gli esseri umani e il garantire a ciascun individuo, senza
discriminazione il rispetto della sua integrità e dei suoi diritti e libertà
fondamentali nei confronti della biologia e della medicina; mentre all’art. 2
precisa di considerare il bene dell’essere umano prevalente rispetto
all’esclusivo interesse della società e della scienza». Ma in che cosa consiste e su cosa si fonda la “dignità”
della persona umana? A
tale interrogativo hanno risposto in molti, e in molti possono rispondere.
Poiché non mi pare sia possibile individuare una risposta univoca e
universalmente condivisibile per le differenti culture e correnti di pensiero,
mi permetto di richiamare il concetto “rispetto per la vita tra etica e
cultura”. E perché, insisto, proprio su questo tema? Tra i molti scritti di
Albert Schweitzer (1875-1965), teologo, filosofo e medico filantropo alsaziano,
ho scelto il problema relativo al “rispetto per la vita”, concetto da lui
recepito ed ampiamente praticato nel corso della sua lunga esistenza,
chiedendomi se rapportato ai tempi odierni può ispirare il nostro percorrere
quotidiano. Con questo breve approfondimento penso (e spero) di poter
contribuire a rievocare non solo la nobile figura del nobel per la pace (1952)
Albert Schweitzer, ma soprattutto di trarre utili spunti dal suo modo etico di
intendere e vivere la vita, per sé e per il suo prossimo; e di proporre al
lettore, oltre che a me stesso, qualche riflessione sulla possibilità, o meno,
di mantenere quel rispetto per la vita di cui l’intera umanità ha sempre più
bisogno.
Al di là della affascinante vita avventurosa e ricca di
aneddoti di Albert Schweitzer, che per molti anni ha svolto attività di medico
e di predicatore a Lambaréné nell’ospedale da lui fondato nella foresta
africana del Gabon, ma anche prolifico scrittore di filosofia della religione e
della musica, ciò che più conta è l’esempio della sua azione e il rigoroso
concetto “rispetto per la vita”. Ed è sul principio fondamentale del pensiero
di Albert Schweitzer che vorrei porre l'attenzione soprattutto perché
tale concetto rappresenta il costante richiamo a quello che è sempre stato il
suo credo, ossia il “rispetto per la vita”
applicato in ogni ambito della attività umana che entri in contatto con esseri
viventi. «L’uomo – sosteneva il grand docteur – ha la possibilità di agire in favore della vita o di recarle danno, nei
rapporti con il prossimo e nel suo atteggiamento nei confronti della natura,
fino a toccare i grandi problemi del nostro tempo: la pace, la crescita
sociale, la cultura, la ricerca scientifica, l’ecologia». Nel corso della
sua esistenza Schweitzer ha espresso questo suo principio applicandolo concretamente
con il rispetto del diritto alla vita, la sua libertà e dignità, il suo
sviluppo, il suo valore, intendendo per vita sia quella umana, sia quella della
natura. Ha insegnato a mettere in pratica la propria idea di fondo: con
l’impegno della propria vita di teologo, filosofo e medico ha impresso al
proprio pensiero la rara forza del testimone, ponendo in primo piano e vivendo
in prima persona la solidarietà con ogni forma di vita. Considerazioni,
suggerimenti e moniti sono riportati nella pubblicazione del 1923 “Cultura
ed etica” (parte della stesura la fece nel periodo di prigionia a
Garaison e Saint-Rèmy nei Pirenei, durante la IIa guerra mondiale tra il 1917 e
il 1918: lui e la moglie furono trasferiti in Europa, come tutti i prigionieri
di guerra delle Colonie francesi), ma soprattutto il suo contributo proviene
dai testi relativi al discorso che fece in occasione del “Conferimento del
Premio nobel per la Pace”, ad Oslo nel 1953; e in occasione del discorso “Appello all’umanità”, trasmesso nel 1957
al Oslo, attraverso parecchie reti radio. Ma anche della sua dissertazione
sulla pace fatta dieci anni dopo, toccando i grandi problemi fondamentali della
salvaguardia della vita nella situazione attuale (relativa alla sua epoca,
n.d.a.) del mondo. Il principio “rispetto
per la vita”, come massima morale, mantiene ancora oggi (a mio parere) il
suo valore per il comportamento del singolo e della società. Per Schweitzer la
condivisione e l’applicazione di questo principio, in realtà, risale alla sua
infanzia. Già allora sentiva di avere compassione per gli animali: prima di
addormentarsi nelle sue preghiere non dimenticava di volgere un pensiero a
tutti gli esseri viventi, e quindi anche agli animali.
Il Movimento per la protezione degli animali,
sorto durante la sua giovinezza, ebbe una grande influenza su di lui. Era
convinto che anche l’etica filosofica dovesse prendere in considerazione
l’obbligo di un atteggiamento favorevole nei confronti degli animali. Ciò
sarebbe stato di aiuto agli amici del Movimento
per la protezione degli animali, al fine di giustificare la loro attività
dal punto di vista del pensiero. Nei primi anni del nuovo secolo, e anche in
seguito, si dedicò ad una lunga ricerca: voleva conoscere la posizione dei
filosofi degli ultimi decenni riguardo all’etica, per rilevare il nostro
pensiero sul comportamento nei confronti del creato. Un giorno del
1915, mentre navigava sulle acque del fiume Ogoouè per recarsi al capezzale di
un ammalato, e per quanto stanco dopo tre giorni di navigazione, doveva
costeggiare un isolotto in quel tratto di fiume. Sopra un banco di sabbia
quattro ippopotami si muovevano nella sua direzione. In quel momento gli venne
in mente l’espressione “rispetto per la
vita”. Si rese conto che tale espressione aveva in sé la soluzione del
problema che lo stava assillando. Gli venne in mente che un’etica incompiuta e
parziale che, per quanto lui sapesse, non aveva mai sentito ne letto. Gli venne
in mente che un’etica che prenda in considerazione soltanto il nostro rapporto
con altri esseri umani è un’etica incompiuta e parziale, e perciò non può
possedere una piena energia. Per molto tempo (e forse ancora oggi) davanti al
suo ospedale (che lui chiamava “la mia improvvisazione”) fece
apporre un cartello con questa scritta: «C’est
en face des trois iles situé dans le fleuve Oggouè au village Igendia 80 Km. En
aval de Lambaréné, que me vint la rivelation, un jour de septembre 1915, que
“rispect de la vie” est le principie elementaire de l’ethique et de la vraie
humanité». Schweitzer aveva trovato il modo di arrivare al concetto in cui
sono contenute insieme l’affermazione del mondo e della vita, e dell’etica.

In più occasioni (oltre agli scritti) ebbe modo di far
conoscere il suo pensiero. Durante un soggiorno in Europa, nel 1951, Albert
Schweitzer conobbe Ella Kriser, la direttrice di una grande Scuola di Hannover,
la quale gli riferì che nella sua scuola veniva insegnato il rispetto per la
vita. La direttrice sosteneva che i bambini comprendevano molto bene questo
insegnamento e cercavano di metterlo in pratica con il loro comportamento, cui
derivava un conseguente cambiamento spirituale. Schweitzer mantenne contatti
con la direttrice e in seguito visitò la scuola, e parlando con gli allievi
riscontrò in loro la consapevolezza del dovere di comportarsi con bontà verso
tutto ciò che era vita del creato. Ma con il passare degli anni e con gli avvenimenti
bellici, ed altro, constatò che la mancanza di umanità era aumentata rispetto
alle generazioni precedenti. (È soprattutto in questi ultimi tempi che si
rilevano gli effetti prodotti dalla tecnologia: la televisione e tutti quei
mezzi che “irrompono” prepotentemente nelle case delle persone e soprattutto
nella loro mente). «Noi – affermava –
siamo venuti in possesso di armi
nucleari, e per noi la possibilità e la tentazione di distruggere la vita
supera ogni limite. Oggi, grazie al grandioso progresso della tecnica, il
destino dell’umanità è segnato dalla possibilità di un orribile annientamento
della vita». Questa riflessione faceva parte del suo lungo discorso
pronunciato in occasione del suo conferimento del Premio nobel per la Pace ad
Oslo nel 1953. Partendo da un’analisi dei due conflitti mondiali e delle
relative conseguenze, Schweitzer si domandava come si potesse presentare a
tutti il problema della pace; in modo del tutto particolare dato che la guerra
di epoche precedenti, rispetto a quella attuale, ha a disposizione mezzi di
distruzione e di morte enormemente più sofisticati di quelli del passato. Un
tempo si poteva considerare la guerra un male accettabile come utile, in
qualche modo, se non addirittura necessario, era diffusa l’opinione che mediante
la guerra i popoli più forti si imponessero su quelli più deboli, determinando
il corso della storia. E dai molti esempi che si potrebbero citare è possibile
dedurre che una guerra favorisca il progresso ma è anche possibile che conduca
ad un regresso. Se già ai tempi di Schweitzer si potevano avere meno speranze che la guerra moderna procurasse
un progresso, oggi, tali speranze sono ancora più lontane in quanto la
modernità e le tecnologie più avanzate sono causa di una ben più ampia
distruzione, e quindi di un immane regresso. A questo riguardo credo sia utile e interessante
ricordare quanto suggeriva Albert Schweitzer: «È evidente che una guerra rappresenta una orribile calamità, e non
bisogna lasciar nulla di intentato pur di evitarla; e ciò, soprattutto per una
ragione etica. Nelle due ultime guerre ci siamo macchiati delle colpe di
un’orribile disumanità, e sarebbe ancora peggio in una guerra futura. Questo
non deve avvenire». Purtroppo questo monito da molti non è stato recepito,
poiché in circa mezzo secolo, gli eventi bellici nel mondo si sono susseguiti
e, purtroppo, a mio avviso, sono destinati ad evolversi. Le cause sono
indubbiamente molteplici, ma credo che se si dedicasse più spazio nel ricordare
le riflessioni, i moniti e soprattutto l’esempio di Schweitzer (e di altri
personaggi che hanno dedicato la propria esistenza in difesa dell’umanità),
probabilmente gioverebbe alla mente e ai sentimenti di politici, regnanti e
alla gente comune. «Quello che oggi ci
manca – proseguiva nel suo discorso ad Oslo – è riconoscere che siamo tutti colpevoli gli uni verso gli altri di atti
disumani. L’orrenda esperienza collettiva attraverso la quale siamo passati
deve scuoterci, perché la nostra volontà e la nostra speranza siano impegnate
verso tutto ciò che può portare ad un’epoca in cui non ci siano più guerre.
Questa volontà e questa speranza sono possibili solo se, attraverso uno spirito
nuovo, raggiungiamo un’intelligenza superiore, che sia in grado di trattenerci
da un uso infausto delle energie di cui disponiamo».
È utile ricordare che il primo che ha osato far valere
delle considerazioni puramente etiche contro la guerra e promuovere
un’intelligenza più elevata da una volontà etica, è stato il grande umanista
olandese Erasmo da Rotterdam (1469-1539). Lo ha fatto nel suo scritto “Il
lamento della Pace”, pubblicato in latino (“Querela Pacis”) nel 1517. In questo scritto Erasmo richiama la
pace, invocandone l’ascolto. È noto che Erasmo non ebbe molti seguaci in questo
suo credo, perché era considerato un’utopia l’attendersi qualcosa per la causa
della pace dalla valorizzazione di una necessità etica. Perfino Immanuel Kant
(1724-1804) era di questo parere. In alcune sue opere, soprattutto in quella
pubblicata nel 1795 intitolata “Per la pace perpetua”, il filosofo
tedesco esprime la propria fiducia nella sua realizzazione solo in base alla
crescente autorevolezza che viene accordata ad un diritto internazionale
dovrebbe decidere nelle controversie fra i popoli. Se mi è concesso
approfondire il concetto di pace, che ben comprende il rispetto per la vita,
abbiamo visto che se nelle diverse manifestazioni la pace è più che altro un
fatto o la conseguenza di un conflitto, considerazioni diverse vanno fatte in
riferimento all’ipotesi che essa sia considerata come un bene, e quindi come un
valore da perseguire. E, da questo punto di vista, diverse sono le
internazionalità e intensità. Ma ciò che è importante è l’individuazione di
strade razionali e fattibili che portino alla pace: privando, in via minimale,
gli eventuali contendenti, dei loro strumenti di guerra (disarmo); intendere la
pace come prodotto da intese politiche (più o meno libere), che si traducono
quindi in accordi fondati sulla potenza, ritenere che la pace discenda da una
scelta matura e consapevole (pacifismo), la cui forma più intensa è la non
violenza (l’antesignano della quale fu Indira Gandhi, 1917-1984). Ma torniamo
al discorso del filosofo alsaziano. Schweitzer sosteneva che le varie
Istituzioni internazionali non sono state in grado di creare una situazione di
pace. «Le loro preoccupazioni –
ammoniva – sono state inutili perché
dovevano intraprendere questo lavoro in un mondo nel quale non era presente una
mentalità orientata alla realizzazione della pace. Essendo istituzioni
giuridiche (il riferimento è
alla Società delle Nazioni di Ginevra e all’Organizzazione delle Nazioni Unite,
n.d.a.) non potevano creare tale
mentalità: questo è possibile soltanto allo spirito etico. Kant si sbagliava
quando pensava di poter ottenere la pace senza questo spirito etico: la via che
egli non ha voluto seguire deve invece essere percorsa». Secondo il dottor
Schweitzer la presenza o l’assenza della pace dipendono dal contenuto formativo
che verrà espresso dalla mentalità dei singoli e dei popoli. Erasmo da Rotterdam,
Maxmiliem de Béthune, uomo politico francese (1560-1641), l’abate di Castel
Saint-Pierre, intellettuale francese (1658-1743), autore quest’ultimo di “Memorie
per rendere la pace perpetua in Europa” (1712) attraverso le quali
vagheggiò l’ideale di un europeismo federalistico, che estendesse al continente
il modello svizzero od olandese e fosse in grado di assicurare la pace
perpetua, che in passato si sono occupati del problema della pace, non avevano
a che fare con dei popoli ma con i loro sovrani. Con queste ed altre considerazioni Schweitzer era
consapevole di non aver detto nulla di nuovo; tuttavia, era convinto che si
sarebbe potuto dare una risposta a questo problema soltanto se si rifiuta la
guerra in base a motivi etici, perché essa ci rende colpevoli di disumanità.
Già Erasmo da Rotterdam ed alcuni dopo di lui hanno annunciato questo principio
come una verità da tenere in considerazione. «L’unica cosa che oso rivendicare come originale – precisava il
filosofo alsaziano – è che nella mia
visione, questa verità è accompagnata anche dalla certezza che lo spirito del
nostro tempo vuole creare una mentalità etica. Con tale certezza io annuncio
questa verità, nella speranza di contribuire al fatto che essa non venga messa
da parte come una delle tante verità che vengono espresse bene a parole ma di
cui non si tiene conto in vista della realtà… Soltanto nella misura in cui,
attraverso lo spirito, si risveglia nei popoli una mentalità di pace, le
istituzioni create per mantenere la pace possono realizzare quanto viene loro
richiesto e quanto si spera che esse possono fare». I tempi di Schweitzer e i nostri attuali
rientrano entrambi in un’epoca in cui la pace non c’è: i popoli si sentono
tuttora minacciati da altri popoli. «È
inevitabile – sosteneva il premio nobel – riconoscere ancora ai popoli il diritto di usare, per la propria
difesa, le terribili armi di cui disponiamo». Con il suo autorevole
discorso Schweitzer si augurava di aver espresso il pensiero e la speranza di
milioni di persone, che in molte parti del mondo temono per la pace, e
concludeva: «Quelli che tengono in mano
il destino dei popoli possano riflettere, per evitare tutto ciò che potrebbe
peggiorare la situazione in cui ci troviamo e metterci in ulteriore pericolo, e
possano prendere a cuore quella meravigliosa parola dell’apostolo Paolo: “Per
quanto sta in voi, siate in pace con tutti». Ora, come in una lucida
progressione, l’uomo Schweitzer ci
appare in tutta la sua coerenza. Il piccolo bimbo sensibile ai dolori del
prossimo eleva la sua ricerca dell’uomo nei confronti di Dio, attraverso
altrettante tappe della sua esistenza. Il filosofo affermato e il teologo
predicatore instancabile uniscono le proprie forze per innalzare l’uomo a
difesa dell’uomo, poiché per aiutare meglio la natura umana è necessario essere
“avventurieri del sacrificio”.

Commenti
Posta un commento