RIFLESSIONI E CONSIDERAZIONI DI ALBERT SCHWEITZER


Il concetto di dignità umana e rispetto per la vita tra etica e cultura. Il concreto esempio del filantropo Albert Schweitzer

Nel vorticoso evolversi della vita quotidiana in ogni dove, il genere umano ha sempre più bisogno di ravvedersi…, ma ciò non avviene per avidità e senso di onnipotenza per ragioni religiose e politico-culturali… fuori controllo

di Ernesto Bodini


L’espressione “dignità umana” è un termine sempre più ricorrente ma sempre meno rispettato dalla maggior parte delle persone… La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948, già nel preambolo afferma che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento essenziale della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Nel nostro Paese la Costituzione all’art. 3 stabilisce: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale»; all’art. 13 stabilisce: “La libertà personale è inviolabile”, all’art. 32 stabilisce: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Il principio della dignità della persona umana è stato inoltre ripreso dal Consiglio d’Europa con la «Convenzione sulla protezione dei diritti umani e della dignità dell’essere umano con riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina», firmata a Oviedo (Spagna) il 4 aprile 1997 e ratificata dall’Italia con la legge n. 145 del 28 marzo 2001 che, all’art. 1 definisce come propria finalità «la protezione della dignità e dell’identità di tutti gli esseri umani e il garantire a ciascun individuo, senza discriminazione il rispetto della sua integrità e dei suoi diritti e libertà fondamentali nei confronti della biologia e della medicina; mentre all’art. 2 precisa di considerare il bene dell’essere umano prevalente rispetto all’esclusivo interesse della società e della scienza». Ma in che cosa consiste e su cosa si fonda la “dignità” della persona umana? A tale interrogativo hanno risposto in molti, e in molti possono rispondere. Poiché non mi pare sia possibile individuare una risposta univoca e universalmente condivisibile per le differenti culture e correnti di pensiero, mi permetto di richiamare il concetto “rispetto per la vita tra etica e cultura”. E perché, insisto, proprio su questo tema? Tra i molti scritti di Albert Schweitzer (1875-1965), teologo, filosofo e medico filantropo alsaziano, ho scelto il problema relativo al “rispetto per la vita”, concetto da lui recepito ed ampiamente praticato nel corso della sua lunga esistenza, chiedendomi se rapportato ai tempi odierni può ispirare il nostro percorrere quotidiano. Con questo breve approfondimento penso (e spero) di poter contribuire a rievocare non solo la nobile figura del nobel per la pace (1952) Albert Schweitzer, ma soprattutto di trarre utili spunti dal suo modo etico di intendere e vivere la vita, per sé e per il suo prossimo; e di proporre al lettore, oltre che a me stesso, qualche riflessione sulla possibilità, o meno, di mantenere quel rispetto per la vita di cui l’intera umanità ha sempre più bisogno.


Al di là della affascinante vita avventurosa e ricca di aneddoti di Albert Schweitzer, che per molti anni ha svolto attività di medico e di predicatore a Lambaréné nell’ospedale da lui fondato nella foresta africana del Gabon, ma anche prolifico scrittore di filosofia della religione e della musica, ciò che più conta è l’esempio della sua azione e il rigoroso concetto “rispetto per la vita”. Ed è sul principio fondamentale del pensiero di Albert Schweitzer che vorrei porre l'attenzione soprattutto perché tale concetto rappresenta il costante richiamo a quello che è sempre stato il suo credo, ossia il “rispetto per la vita” applicato in ogni ambito della attività umana che entri in contatto con esseri viventi. «L’uomo – sosteneva il grand docteur – ha la possibilità di agire in favore della vita o di recarle danno, nei rapporti con il prossimo e nel suo atteggiamento nei confronti della natura, fino a toccare i grandi problemi del nostro tempo: la pace, la crescita sociale, la cultura, la ricerca scientifica, l’ecologia». Nel corso della sua esistenza Schweitzer ha espresso questo suo principio applicandolo concretamente con il rispetto del diritto alla vita, la sua libertà e dignità, il suo sviluppo, il suo valore, intendendo per vita sia quella umana, sia quella della natura. Ha insegnato a mettere in pratica la propria idea di fondo: con l’impegno della propria vita di teologo, filosofo e medico ha impresso al proprio pensiero la rara forza del testimone, ponendo in primo piano e vivendo in prima persona la solidarietà con ogni forma di vita. Considerazioni, suggerimenti e moniti sono riportati nella pubblicazione del 1923 “Cultura ed etica” (parte della stesura la fece nel periodo di prigionia a Garaison e Saint-Rèmy nei Pirenei, durante la IIa guerra mondiale tra il 1917 e il 1918: lui e la moglie furono trasferiti in Europa, come tutti i prigionieri di guerra delle Colonie francesi), ma soprattutto il suo contributo proviene dai testi relativi al discorso che fece in occasione del “Conferimento del Premio nobel per la Pace”, ad Oslo nel 1953; e in occasione del discorso “Appello all’umanità”, trasmesso nel 1957 al Oslo, attraverso parecchie reti radio. Ma anche della sua dissertazione sulla pace fatta dieci anni dopo, toccando i grandi problemi fondamentali della salvaguardia della vita nella situazione attuale (relativa alla sua epoca, n.d.a.) del mondo. Il principio “rispetto per la vita”, come massima morale, mantiene ancora oggi (a mio parere) il suo valore per il comportamento del singolo e della società. Per Schweitzer la condivisione e l’applicazione di questo principio, in realtà, risale alla sua infanzia. Già allora sentiva di avere compassione per gli animali: prima di addormentarsi nelle sue preghiere non dimenticava di volgere un pensiero a tutti gli esseri viventi, e quindi anche agli animali.


Il Movimento per la protezione degli animali, sorto durante la sua giovinezza, ebbe una grande influenza su di lui. Era convinto che anche l’etica filosofica dovesse prendere in considerazione l’obbligo di un atteggiamento favorevole nei confronti degli animali. Ciò sarebbe stato di aiuto agli amici del Movimento per la protezione degli animali, al fine di giustificare la loro attività dal punto di vista del pensiero. Nei primi anni del nuovo secolo, e anche in seguito, si dedicò ad una lunga ricerca: voleva conoscere la posizione dei filosofi degli ultimi decenni riguardo all’etica, per rilevare il nostro pensiero sul comportamento nei confronti del creato. Un giorno del 1915, mentre navigava sulle acque del fiume Ogoouè per recarsi al capezzale di un ammalato, e per quanto stanco dopo tre giorni di navigazione, doveva costeggiare un isolotto in quel tratto di fiume. Sopra un banco di sabbia quattro ippopotami si muovevano nella sua direzione. In quel momento gli venne in mente l’espressione “rispetto per la vita”. Si rese conto che tale espressione aveva in sé la soluzione del problema che lo stava assillando. Gli venne in mente che un’etica incompiuta e parziale che, per quanto lui sapesse, non aveva mai sentito ne letto. Gli venne in mente che un’etica che prenda in considerazione soltanto il nostro rapporto con altri esseri umani è un’etica incompiuta e parziale, e perciò non può possedere una piena energia. Per molto tempo (e forse ancora oggi) davanti al suo ospedale (che lui chiamava “la mia improvvisazione”) fece apporre un cartello con questa scritta: «C’est en face des trois iles situé dans le fleuve Oggouè au village Igendia 80 Km. En aval de Lambaréné, que me vint la rivelation, un jour de septembre 1915, que “rispect de la vie” est le principie elementaire de l’ethique et de la vraie humanité». Schweitzer aveva trovato il modo di arrivare al concetto in cui sono contenute insieme l’affermazione del mondo e della vita, e dell’etica.

Ma che cos’è il rispetto per la vita, e come nasce in noi? «Se l’uomo vuol far luce su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo – sosteneva Schweitzer –, deve prescindere dalla congèrie (massa confusa di più cose, n.d.a.) di elementi che costituiscono il suo pensiero e la sua cultura e rifarsi al primo fatto della sua coscienza, il più immediato, quello che è perennemente presente. Solo di qui può giungere a una visione ragionata del mondo… L’affermazione della vita è l’atto spirituale con cui egli cessa di lasciarsi vivere e comincia a dedicarsi alla sua vita con rispetto per levarla al suo vero valore. Affermare la vita è approfondire, interiorizzare ed esaltare la volontà di vivere… Il rispetto per la vita nato nella volontà di vivere divenuta consapevole contiene strettamente congiunte, l’affermazione del mondo e l’esigenza morale. Essa cerca di creare valori e realizzare progressi che giovino all’ascesa materiale, spirituale ed etica dell’uomo e dell’umanità». Durante la permanenza a Lambarènè si dedicò ad estendere un’opera sul rapporto fra cultura ed etica, che divise in due parti: la prima prevedeva le varie concezioni della cultura e dell’etica dei vari filosofi tedeschi del passato e contemporanei; nella seconda avrebbe descritto il carattere specifico dell’etica, il rispetto per la vita e il suo significato per la cultura. Tutta l’etica di Schweitzer deriva da questo semplice e profondo pensiero di cui egli ci indica le possibili applicazioni. L’etica, a suo avviso, non ha a che vedere con un’interpretazione del mondo; essa deve essere cosmica e mistica senza cadere nell’astratto… Schweitzer fonda razionalmente il rispetto per la vita, come Descartes (1596-1650) fondava razionalmente la certezza della propria esistenza. Mentre Descartes dice: «Penso, dunque esisto», e poi si perde nell’astratto, Schweitzer rimane sul concreto e afferma: «Io sono vita che vuole vivere in mezzo a vita che vuole vivere. Bisogna rispettare la vita. L’uomo morale possiede il coraggio di lasciarsi tacciare di sentimentalismo, ma rispetterà la vita universalmente». Ossia, l’essere umano può chiamarsi “essere etico” soltanto se considera sacra la vita in se stessa, sia la vita umana, sia quella di ogni altra creatura. Il “rispetto per la vita” si erge a messaggio da professare con la fede incrollabile delle proprie convinzioni e “non riconosce alcun diritto alla felicità personale”, poiché la «voce della vera etica è pericolosa per le persone felici quanto il coraggio che hanno di ascoltarla... Il rispetto per la vita al quale noi, esseri umani, dobbiamo giungere racchiude in sé tutto ciò che è compreso nei concetti di amore, dedizione, compassione, gioia ed anelito comune. E in quest’ottica, dobbiamo liberarci da uno stile di vita amorfo, privo di riflessione». Il rispetto per la vita (che per Schweitzer non è una semplice, pur nobile affermazione di principio, ma una precisa dignità teoretica, che diventa la chiave di volta per la moderna capacità di giudizio sia di fronte al progresso tecnologico, sia di fronte alle sfide culturali che esso comporta) scaturisce da una volontà di vita che ha imparato a pensare, è dunque un sì alla vita, che diventa etica collettiva. Il suo compito primario è la realizzazione del progresso e la creazione di quei valori che possano favorire la crescita materiale, spirituale ed etica del singolo individuo e di tutta l’umanità. Ma sul concetto di “rispetto per la vita” Schweitzer è ancora più profondo, poiché coinvolge il concetto di “moralità” come principio fondamentale. «Un uomo è veramente morale – sosteneva – soltanto quando osserva l’obbligo impostogli di aiutare ogni vita che può assistere, e quando si fa scrupolo di uscire dalla sua strada per evitare di danneggiare un essere vivente. Non chiede quanta comprensione meriti questa o quella vita a causa del suo intrinseco valore e neppure chiede di quanta sensibilità sia dotata. Per lui la vita, come tale, è sacra».


In più occasioni (oltre agli scritti) ebbe modo di far conoscere il suo pensiero. Durante un soggiorno in Europa, nel 1951, Albert Schweitzer conobbe Ella Kriser, la direttrice di una grande Scuola di Hannover, la quale gli riferì che nella sua scuola veniva insegnato il rispetto per la vita. La direttrice sosteneva che i bambini comprendevano molto bene questo insegnamento e cercavano di metterlo in pratica con il loro comportamento, cui derivava un conseguente cambiamento spirituale. Schweitzer mantenne contatti con la direttrice e in seguito visitò la scuola, e parlando con gli allievi riscontrò in loro la consapevolezza del dovere di comportarsi con bontà verso tutto ciò che era vita del creato. Ma con il passare degli anni e con gli avvenimenti bellici, ed altro, constatò che la mancanza di umanità era aumentata rispetto alle generazioni precedenti. (È soprattutto in questi ultimi tempi che si rilevano gli effetti prodotti dalla tecnologia: la televisione e tutti quei mezzi che “irrompono” prepotentemente nelle case delle persone e soprattutto nella loro mente). «Noi – affermava – siamo venuti in possesso di armi nucleari, e per noi la possibilità e la tentazione di distruggere la vita supera ogni limite. Oggi, grazie al grandioso progresso della tecnica, il destino dell’umanità è segnato dalla possibilità di un orribile annientamento della vita». Questa riflessione faceva parte del suo lungo discorso pronunciato in occasione del suo conferimento del Premio nobel per la Pace ad Oslo nel 1953. Partendo da un’analisi dei due conflitti mondiali e delle relative conseguenze, Schweitzer si domandava come si potesse presentare a tutti il problema della pace; in modo del tutto particolare dato che la guerra di epoche precedenti, rispetto a quella attuale, ha a disposizione mezzi di distruzione e di morte enormemente più sofisticati di quelli del passato. Un tempo si poteva considerare la guerra un male accettabile come utile, in qualche modo, se non addirittura necessario, era diffusa l’opinione che mediante la guerra i popoli più forti si imponessero su quelli più deboli, determinando il corso della storia. E dai molti esempi che si potrebbero citare è possibile dedurre che una guerra favorisca il progresso ma è anche possibile che conduca ad un regresso. Se già ai tempi di Schweitzer si potevano avere meno speranze che la guerra moderna procurasse un progresso, oggi, tali speranze sono ancora più lontane in quanto la modernità e le tecnologie più avanzate sono causa di una ben più ampia distruzione, e quindi di un immane regresso. A questo riguardo credo sia utile e interessante ricordare quanto suggeriva Albert Schweitzer: «È evidente che una guerra rappresenta una orribile calamità, e non bisogna lasciar nulla di intentato pur di evitarla; e ciò, soprattutto per una ragione etica. Nelle due ultime guerre ci siamo macchiati delle colpe di un’orribile disumanità, e sarebbe ancora peggio in una guerra futura. Questo non deve avvenire». Purtroppo questo monito da molti non è stato recepito, poiché in circa mezzo secolo, gli eventi bellici nel mondo si sono susseguiti e, purtroppo, a mio avviso, sono destinati ad evolversi. Le cause sono indubbiamente molteplici, ma credo che se si dedicasse più spazio nel ricordare le riflessioni, i moniti e soprattutto l’esempio di Schweitzer (e di altri personaggi che hanno dedicato la propria esistenza in difesa dell’umanità), probabilmente gioverebbe alla mente e ai sentimenti di politici, regnanti e alla gente comune. «Quello che oggi ci manca – proseguiva nel suo discorso ad Oslo – è riconoscere che siamo tutti colpevoli gli uni verso gli altri di atti disumani. L’orrenda esperienza collettiva attraverso la quale siamo passati deve scuoterci, perché la nostra volontà e la nostra speranza siano impegnate verso tutto ciò che può portare ad un’epoca in cui non ci siano più guerre. Questa volontà e questa speranza sono possibili solo se, attraverso uno spirito nuovo, raggiungiamo un’intelligenza superiore, che sia in grado di trattenerci da un uso infausto delle energie di cui disponiamo».


È utile ricordare che il primo che ha osato far valere delle considerazioni puramente etiche contro la guerra e promuovere un’intelligenza più elevata da una volontà etica, è stato il grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam (1469-1539). Lo ha fatto nel suo scritto “Il lamento della Pace”, pubblicato in latino (“Querela Pacis”) nel 1517. In questo scritto Erasmo richiama la pace, invocandone l’ascolto. È noto che Erasmo non ebbe molti seguaci in questo suo credo, perché era considerato un’utopia l’attendersi qualcosa per la causa della pace dalla valorizzazione di una necessità etica. Perfino Immanuel Kant (1724-1804) era di questo parere. In alcune sue opere, soprattutto in quella pubblicata nel 1795 intitolata “Per la pace perpetua”, il filosofo tedesco esprime la propria fiducia nella sua realizzazione solo in base alla crescente autorevolezza che viene accordata ad un diritto internazionale dovrebbe decidere nelle controversie fra i popoli. Se mi è concesso approfondire il concetto di pace, che ben comprende il rispetto per la vita, abbiamo visto che se nelle diverse manifestazioni la pace è più che altro un fatto o la conseguenza di un conflitto, considerazioni diverse vanno fatte in riferimento all’ipotesi che essa sia considerata come un bene, e quindi come un valore da perseguire. E, da questo punto di vista, diverse sono le internazionalità e intensità. Ma ciò che è importante è l’individuazione di strade razionali e fattibili che portino alla pace: privando, in via minimale, gli eventuali contendenti, dei loro strumenti di guerra (disarmo); intendere la pace come prodotto da intese politiche (più o meno libere), che si traducono quindi in accordi fondati sulla potenza, ritenere che la pace discenda da una scelta matura e consapevole (pacifismo), la cui forma più intensa è la non violenza (l’antesignano della quale fu Indira Gandhi, 1917-1984). Ma torniamo al discorso del filosofo alsaziano. Schweitzer sosteneva che le varie Istituzioni internazionali non sono state in grado di creare una situazione di pace. «Le loro preoccupazioni – ammoniva – sono state inutili perché dovevano intraprendere questo lavoro in un mondo nel quale non era presente una mentalità orientata alla realizzazione della pace. Essendo istituzioni giuridiche (il riferimento è alla Società delle Nazioni di Ginevra e all’Organizzazione delle Nazioni Unite, n.d.a.) non potevano creare tale mentalità: questo è possibile soltanto allo spirito etico. Kant si sbagliava quando pensava di poter ottenere la pace senza questo spirito etico: la via che egli non ha voluto seguire deve invece essere percorsa». Secondo il dottor Schweitzer la presenza o l’assenza della pace dipendono dal contenuto formativo che verrà espresso dalla mentalità dei singoli e dei popoli. Erasmo da Rotterdam, Maxmiliem de Béthune, uomo politico francese (1560-1641), l’abate di Castel Saint-Pierre, intellettuale francese (1658-1743), autore quest’ultimo di “Memorie per rendere la pace perpetua in Europa” (1712) attraverso le quali vagheggiò l’ideale di un europeismo federalistico, che estendesse al continente il modello svizzero od olandese e fosse in grado di assicurare la pace perpetua, che in passato si sono occupati del problema della pace, non avevano a che fare con dei popoli ma con i loro sovrani. Con queste ed altre considerazioni Schweitzer era consapevole di non aver detto nulla di nuovo; tuttavia, era convinto che si sarebbe potuto dare una risposta a questo problema soltanto se si rifiuta la guerra in base a motivi etici, perché essa ci rende colpevoli di disumanità. Già Erasmo da Rotterdam ed alcuni dopo di lui hanno annunciato questo principio come una verità da tenere in considerazione. «L’unica cosa che oso rivendicare come originale – precisava il filosofo alsaziano – è che nella mia visione, questa verità è accompagnata anche dalla certezza che lo spirito del nostro tempo vuole creare una mentalità etica. Con tale certezza io annuncio questa verità, nella speranza di contribuire al fatto che essa non venga messa da parte come una delle tante verità che vengono espresse bene a parole ma di cui non si tiene conto in vista della realtà… Soltanto nella misura in cui, attraverso lo spirito, si risveglia nei popoli una mentalità di pace, le istituzioni create per mantenere la pace possono realizzare quanto viene loro richiesto e quanto si spera che esse possono fare».  I tempi di Schweitzer e i nostri attuali rientrano entrambi in un’epoca in cui la pace non c’è: i popoli si sentono tuttora minacciati da altri popoli. «È inevitabile – sosteneva il premio nobel – riconoscere ancora ai popoli il diritto di usare, per la propria difesa, le terribili armi di cui disponiamo». Con il suo autorevole discorso Schweitzer si augurava di aver espresso il pensiero e la speranza di milioni di persone, che in molte parti del mondo temono per la pace, e concludeva: «Quelli che tengono in mano il destino dei popoli possano riflettere, per evitare tutto ciò che potrebbe peggiorare la situazione in cui ci troviamo e metterci in ulteriore pericolo, e possano prendere a cuore quella meravigliosa parola dell’apostolo Paolo: “Per quanto sta in voi, siate in pace con tutti». Ora, come in una lucida progressione, l’uomo Schweitzer ci appare in tutta la sua coerenza. Il piccolo bimbo sensibile ai dolori del prossimo eleva la sua ricerca dell’uomo nei confronti di Dio, attraverso altrettante tappe della sua esistenza. Il filosofo affermato e il teologo predicatore instancabile uniscono le proprie forze per innalzare l’uomo a difesa dell’uomo, poiché per aiutare meglio la natura umana è necessario essere “avventurieri del sacrificio”.

Se i tempi suggeriscono un recupero della figura di Albert Schweitzer, a maggior ragione, quindi, devono indurre a considerare il concetto di rispetto per la vita, la cui mentalità da esso creata è d’aiuto a chi lotta duramente per conservare la propria umanità, anche per il fatto che rimane viva dentro di lui l’immagine della natura umana come un bene da tutelare ad ogni costo. «Gli impedisce di condurre in modo unilaterale – è la spiegazione sottile ma concreta del gran docteur – la lotta per ridurre la mancanza di libertà materiale e lo chiama a riflettere sul fatto che molta umanità e molta libertà interiore possono conciliarsi con la realtà della sua vita, ben più di quanto, di fatto, si realizzi. Lo spinge a conservare, se vi avesse rinunciato, la meditazione ed il raccoglimento interiore. Bisogna arrivare ad una spiritualizzazione delle masse. Ogni singolo deve giungere a riflettere sulla sua vita, su ciò che vuole ottenere per la propria vita mediante l’esistenza, sulle difficoltà legate alle circostanze esterne e su ciò cui è disposto spontaneamente a rinunciare». In decenni caratterizzati dalla grande incidenza del dibattito sui problemi della vita e sul rispetto della stessa, con il contributo di Schweitzer si è venuta a formare una concezione etica che richiama la nostra responsabilità per la vita dai rapporti interpersonali all’atteggiamento nei confronti del mondo e della natura. Il principio etico del filosofo alsaziano si può correlare allo sviluppo storico e spirituale del nostro tempo in quanto ne rispecchia le tendenze, le speranze, le angosce. Se l’etica vuole essere vera dovrà definirsi dal concetto basilare che è proprio il “rispetto per la vita”; un’affermazione che obbliga tutti, qualunque sia la loro situazione, a occuparsi e farsi carico del destino degli esseri umani. In questa ricerca interiore del “rispetto per la vita”, intesa in ogni sua più intima manifestazione, l’uomo deve avere la capacità di “mettersi in discussione” continuamente. La libertà interiore assurge così a parametro insostituibile per guardare nella propria coscienza e, dunque, per “mettersi in gioco”, provando a cambiare se stessi per aiutare gli altri a crescere e a vivere meglio. Schweitzer è pienamente cosciente della difficoltà di tale ricerca, ne conosce le privazioni e i sacrifici; pur tuttavia sapendo che è l’unica strada da percorrere perché «la verità – sosteneva Schweitzer – non ha un suo tempo particolare: la sua ora è adesso, sempre e più che mai quando sembra maggiormente inopportuna alle circostanze del momento». Certo, non tutti possono o devono necessariamente recarsi in Africa ma sicuramente possono prodigarsi in qualunque modo per quel “rispetto per la vita” che possiamo intendere pacifismo, neutralità, difesa dei deboli, giustizia, etc. Ma per Schweitzer l’Africa non ha significato una fuga dalla vita o lo scopo della sua vita. Andare in quel Continente per lui non c’era nulla di eroico: si trattava semplicemente di adempiere un dovere. L’Africa è stato il simbolo della sua esistenza; il significato ne è il rispetto per la vita. Per rispondere, dunque, ai bisogni dell’umanità e all’affermarsi del rispetto per la vita tra le popolazioni del nostro tempo, occorre una forza interiore e una dose di spiritualità, ma anche una maturità che consiste nel poter lavorare per diventare sempre più giusti, più veritieri, più sereni, più amanti della pace, più mansueti, più buoni, più consapevoli. E vorrei concludere con l’augurio di Goethe (1749-1832): «Sia nobile l’uomo, pronto ad aiutare e buono». Come inteso da Albert Schweitzer, può ispirare ancora oggi il nostro cammino? Un quesito che rivolgo prima a me stesso (ma non ho ancora trovato una risposta appagante), e poi ai lettori di questo testo (e del blog), attendendo da loro un minimo di "conforto" al quesito stesso.


























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