UNA BREVE STORIA PER UN ACCORATO APPELLO
Quando il dolore domina il corpo
l’anima lo accompagna ma a
volte si resta soli senza il
“conforto” di ulteriori approfondimenti
da parte di medici “disarmati” ma soprattutto arrendevoli...
di Ernesto Bodini
Quante espressioni in nome del “dolore”
pronunciamo a voce alta o in silenzio, e quante volte ci lamentiamo non
sopportandolo specie se fisico, senza nulla togliere a quello psicologico e/o
psichiatrico come la cosiddetta depressione
maggiore. Eppure del dolore si è scritto di tutto e di più ma vi sono casi
che il lamento va ben oltre il dolore in sé, in quanto maggiore è la sofferenza
specie se fisica, soprattutto quando non si conosce cos’è che l’ha originata.
Quest’ultimo aspetto credo che per taluni casi sia ancora un segreto da svelare
da parte della Medicina, come ancora è un “segreto” il fatto che di fronte ad
una persona che soffre senza conoscerne la causa, i medici solitamente sono
arrendevoli esprimendo la laconica frase: «Ci
spiace, abbiamo fatto tutte le indagini possibili ma non siamo riusciti a
capire la causa (o le cause) della sua sofferenza». A questo punto io mi
chiedo: termina qui il compito di un medico? Quando il dolore è invisibile è
logico gettare la spugna? Come persona comune non ho vissuto l’esperienza del dolore cronico in presenza
costante, ma ciò non toglie che mi si possa immedesimare sia in qualità di
divulgatore scientifico, e sia perché sono umanamente vicino ad una cara
persona amica che da quasi quattro anni accusa dolori che coinvolgono varie
parti dell’organismo per effetto di diverse patologie concomitanti, ma nessunna
di esse pare essere “responsabile” della sua sofferenza fisica. Un calvario
“aggravato” dal fatto di essersi sottoposta svariate volte ad esami clinici
routinari, ma anche indagini diagnostico-strumentali… invasive. Tutto ciò sia
avvalendosi del SSN che della Sanità privata. Pur avendo interpellato più
clinici di diverse specialità ed essendo stata anche ricoverata per approfondimenti,
il suo quadro clinico non è mai mutato, anzi il grado di sofferenza fisica (e
anche psicologica) si acuisce tuttora; ma ciò che sottolinea negativamente
questo quadro clinico è la sensazione-convinzione di essere abbandonata dal
SSN, e nella fattispecie dalla classe medica ossia quella che, come si suol
dire, esaurite le proprie potenzialità non va oltre… Il dolore ai livelli di
questa paziente-amica, che per convenzione cito soltanto con le iniziali L.C.,
appare quasi quotidianamente in modo caratteristico, addirittura privo di
linguaggio, l’unica sua espressione più autentica è il lamento che trattiene
non per stoicismo ma per dignità. Ne consegue, a parer mio, quella che
definirei invisibiltà del dolore sociale, perché di questo si tratta in quanto
in seno solo alla paziente stessa, ma con ripercussioni nell’ambiente che la
circonda. Ed ancora. Il dolore sveste la persona, la rende trasparente, e per
quanto la filosofia batta da millenni il capo contro la parete impenetrabile
della sofferenza, resta il fatto che nessuna cosa può associare gli uomini come
il dolore. E altresì risaputo che la sola scienza medica non basta a guarire il
malato, o a dedurre le cause della sua sofferenza. Ricordo di aver letto che un
illustre medico, ad una conferenza che si tenne anni fa a Parigi, riferendosi
ai pazienti in genere riportò la seguente espressione: «Voi medici ci impedite di morire, ma non ci aiutate a vivere». È
palese che ogni malattia di una certa gravità, sia pur soggettiva, coinvolge il
malato in una esperienza che non si esaurisce nel male, e nemmeno nel dolore,
ancor più se quest’ultimo è refrattario ad ogni terapia… proprio perché di
orgine sconosciuta. Viene quindi da dedurre che in questi “casi limite” il
medico si trova di fronte a un campo illimitato, poiché l’uomo è sempre molto
di più di quanto anche i manuali più perfetti e completi riescano a descrivere.
L’attaccamento alla vita, così come al non voler soffrire è naturale in tutte
le persone, e le eccezioni non disturbano minimamente il principio universale
del desiderio e della volontà di vivere e al desiderio, appunto, di star bene.
Un saggio letterario rammenta il seguente concetto: «Un medico che sia cosciente delle possibilità ma anche dei limiti della
scienza medica e della sua personale perizia, può e deve avvertire quest’ultima
e più vera istanza dell’uomo sofferente, non solo perché dall’esperienza di
dolore con la quale viene a contatto ha appreso, quanto illusorie siano le
gioie di questo mondo e quanto fragili, ma soprattutto perché ha potuto
verificare che nessun uomo è veramente guarito e neppure curato, se non ha imparato
a scoprire il significato della propria malattia e cagionevolezza». La
lunga consuetudine con l’ambiente sanitario per motivi socio-divulgativi (ma
anche come paziente) mi ha più volte offerto l’occasione di osservare
potenzialità e limiti della professione medica, ma nello stesso tempo di
entrare in contatto con persone agli estremi della sofferenza, come nel caso
qui citato, fruendo di qualche loro confidenza come quella della
“arrendevolezza” di taluni clinici di fronte a pazienti la cui misteriosità del
male e della sofferenza mi porta a rammentare, per quanto scontato, che chi sta
veramente a contatto della sofferenza umana sa che il dolore fisico non è mai
esclusivamente fisico, così come il dolore che chiamiamo morale non è mai senza
conseguenze sul fisico. Ora, se è vero che il medico è un uomo per tutti e che
tutti devono meglio conoscere, è altrettanto vero che una persona che soffre
senza causa apparente ha il diritto di essere meglio conosciuta dal medico sino
al “reale” esaurimento delle proprie potenzialità diagnostiche.
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