ESEMPI DI SOFFERENZA A
CAUSA DELLA POLIOMIELITE
Nonostante la precarietà
per la “sopravvivenza”, cinque pazienti colpiti dal virus, ci rammentano
come si può essere attaccati alla vita grazie al polmone d’acciaio. È morto a
Dallas il “più longevo” di tale esperienza.
di Ernesto Bodini
Si sa che quando il corpo umano è affetto da
una malattia acuta e/o cronica molto grave (specie se per molti anni), in molti
casi prima o poi viene “sopraffatto” dal decesso. Ma anche se l’evento è così
scontato, lo è meno quando il paziente ha “resistito” per moltissimo tempo non
solo alla malattia ma anche alle particolari condizioni di sopravvivenza con
l’aiuto della tecnologia, empirica o moderna. È il caso, ad esempio,
dell’americano Paul Richard Alexander
(Dallas 10/1/1946 - 11/3/2024, nella foto ad inizio malattia e durante),
avvocato e scrittore, noto per essere sopravvissuto a un’epidemia di
poliomielite avendo contratto il virus nel 1952 e che lo rese paralitico a
vita, tanto che trascorse il resto dei suoi giorni prevalentemente collegato al
polmone d’acciaio a causa, appunto, di insufficienza respiratoria. Ed è proprio
di questi giorni la notizia della sua scomparsa e passato alla storia essendo
stato il paziente più longevo “inglobato” nel polmone d’acciaio per 70 anni. L’americano
Alexander poteva lasciare il suo polmone d’acciaio solo per alcune ore dopo
aver imparato a respirare, e usava un bastoncino di plastica con una penna
attacata per battere su una tastiera e riuscire a comunicare. La sua storia
fece il giro del mondo, influenzando positivamente chiunque, e io credo che
abbia commosso anche i due scienziati statunitensi del rispettivo vaccino
antipolio: i proff. Albert B. Sabin (1906-1993) e E. Jonas Salk (1915-1995), la
cui realizzazione sarebbe avvenuta qualche anno dopo. Una vita intensa quella
di Alexander: il fatto di non poter più respirare autonomamente non gli aveva
impedito di diplomarsi e laurearsi, coneseguendo nel 1978 e nel 1984 due lauree
all’Università di Austin nel Texas, prestando poi giuramento come avvocato, e
nel 2020 pubblicò un libro di memorie intitolato Tre minuti per un cane – La mia vita in un polmone d’acciaio”, la
cui stesura aveva richiesto ben otto anni, avendolo potuto scrivere tramite un
bastoncino di plastica attaccato a una penna, o dettando le parole ad amici e
parenti. Inoltre, in quegli anni conobbe anche l’amore: una ragazza di nome
Claire che aveva accettato di sposarlo, ma le nozze andarono a monte a causa
della contrarietà della madre di lei. Nel corso degli anni, grazie al progresso
scientifico Paul avrebbe potuto utilizzare ventilatori artificiali più moderni,
permettendogli una maggior condizione di movimento, ma non ne fruì essendosi
ormai “abituato” alla sua condizione e non volendosi quindi separare dal
polmone d’acciaio. Era questa la comfort
zone, ovvero il luogo in cui tornare dopo brevi periodi che riusciva a
trascorrere respirando attraverso la gola grazie alla tecnica detta del “frog
breathing” (respiro da rana, o “respiro glossofaringeo”). Una scelta che gli fu
rispettata fino all’ultimo. Dalle cronache, che riportano interviste da lui
rilasciate alla giornalista Linda Rodriguez McRobbie del Guardian, Paul amava
parlare della poliomielite, del polmone d’acciaio e della sua vita, e questo
nel timore che il mondo dimenticasse quello che la poliomielite aveva
rappresentato prima del vaccino, ciò che
lui era riuscito a conseguire nonostante la malattia e in condizioni di grande
disagio…. Ma anche altre pazienti hanno
vissuto nel polmone d’acciaio per 61 anni: l’americana Martha Mason (1937-2009), colpita dal virus nel 1948, e
l’australiana June Margaret Middleton
(1926-2009), colpita dal virus all’età di 22 anni. La vita di questi pazienti
d’oltre oceano, che nulla ha a che vedere con lo stoicismo, ci fa ricordare casi analoghi che hanno colpito anche due
nostre connazionali: l’alessandrina Rosanna
Benzi (1948-1991) e la genovese Giovanna
Romanato (1946-2019), e ambedue hanno vissuto nel polmone d’acciaio, la
prima per oltre 60 e la seconda per 29 anni.
Le
origini del polmone d’acciaio
Il polmone d’acciaio (in inglese iron lung), inizialmente noto anche come
polmone di ferro, è stato uno dei più moderni ritrovati tecnici della Medicina,
le cui origini sono dell’America dove è stato applicato con successo in
numerosi casi di paralisi infantile (poliomielite). Sia pur in sintesi è
interessante ripercorrere alcune tappe di questo apparecchio, ingombrante ma
utile, la cui caratteristica era quella di riuscire a mantenere in vita pazienti con gravi problemi
respiratori, come quelli colpiti dal virus della poliomielite, particolarmente
endemica soprattutto nella prima metà del secolo scorso. Il primo prototipo fu
quello del medico parigino Eugéne Joseph Woillez (1811-1882), e risale al 1876;
mentre il primo ventilatore usato su larga scala fu quello creato nel 1928 dall’ingegnere
Philip Drinker (1894-1972) e dal fisiologo Louis Agassiz Shaw junior
(1886-1940), ed entrò in funzione per la prima volta nello stesso anno al
Children’s Hospital di Boston (in seguito fu introdotto anche in Francia, in
Italia e in alcuni altri Stati). La paziente fu una bambina di otto anni che
soffriva di paralisi respiratoria, nota allora come “poliomielite paralitica”;
e fu lo stesso Drinker ad azionare il polmone d’acciaio, un esperimento che
sembrò funzionare sin da subito, dal momento che la piccola paziente in fin di
vita, si svegliò, ma ciò nonostante morì tre giorni dopo di polmonite.
Tuttavia, l’entusiasmo per questa invenzione non venne meno, tanto da dover
migliorare la dinamica del suo utilizzo. Per il corretto funzionamento era
necessario porre il paziente in posizione supina in una camera ermetica,
posizione che permetteva la fuoriuscita dal cilindro stagno solo del collo e
della testa. La pompa collegata alla macchina permetteva variazioni di
pressione all’interno della camera, favorendo l’aria forzata dentro e fuori i
polmoni del paziente. Tale impostazione rendeva possibile monitorare la
respirazione del paziente e sollecitando i muscoli respiratori colpiti dalla
paralisi. Nel 1932 la concorrenza non si fece attendere tant’é che nacque un
polmone d’acciaio più funzionale: un modello denominato “The Alligator” (l’alligatore) ad opera dell’inventore americano
John Haven Emerson (1906-1997); ma nella seconda metà del ‘900, l’uso del
polmone d’acciaio diminuì a causa dello sviluppo del vaccino antipolio. Da
questo momento in poi il progresso tecnologico produsse alternative più
pratiche rispetto al polmone d’acciaio originale, in quanto lo scopo dei medici
e ricercatori fu quello di trovare un macchinario in grado di garantire la
variazione di pressione per la respirazione, ma allo stesso tempo di consentire
più mobilità e agilità nei movimenti del paziente, in modo da offrire una
prospettiva di vita migliore…
Ma in
concreto come funzionava il polmone d’acciaio?
Il suo funzionamento era legato all’energia
elettrica e, una volta acceso, consisteva in due fasi. A pressione negativa in cui
l’aria veniva aspirata lentamente fuori creando all’interno del polmone
artificiale un vuoto parziale, che non è totale in quanto il sistema non era
completamente isolato dal momento che il collo e la testa del paziente restavano
fuori dal respiratore, bloccati da un collare di gomma che impediva il
passaggio dell’aria; in questo modo l’aria rientrava nel polmone del paziente
attraverso le uniche due fessure: la bocca e il naso, ottenendo così una
espansione indotta della gabbia toracica che permetteva l’inspirazione. A pressione
positiva in cui l’aria rientrava grazie alla pompa che aumentava la
pressione intrapolmonare a tal punto da mimare quella fisiologicamente,
prendendo il nome di espirazione forzata caratterizzata dalla contrazione dei muscoli
respiratori. Ma affinché i pazienti fossero costantemente controllati e
adeguatamente assistiti dal personale infermieristico per le cure quotidiane,
sui lati del polmone d’acciaio vi erano delle aperture plastificate per vedere
il corpo del paziente, e delle fenditure di gomma in cui gli operatori
inserivano le braccia e che si chiudevano ermeticamente quando non usate. A
qualche centimetro dal viso del paziente era posto uno specchio con una
particolare inclinazione che gli permetteva di osservare quanto lo circondava.
E
com’era la vita nel polmone d’acciaio?
Un medico e un’infermiera si occupavano del
paziente. La vita dentro questa sorta di “testuggine”, come la definiva Rosanna
Benzi, era difficile e terrificante in quanto poteva accadere che la chiusura
ermetica del polmone si rompesse e che i pazienti quindi dovessero essere
ventilati tramite maschera; quelli meno gravi potevano respirare autonomamente
per intervalli limitati o usare il respiratore soltanto di notte. Bloccati nel
polmone d’acciaio si potevano vedere solamente la fine del respiratore, il
soffitto e uno specchio che rifletteva il proprio viso o una mensola di vetro
su cui i libri venivano disposti a faccia in giù per far leggere il paziente.
Il ronzio del motore di questa apparecchiatura e il sospiro regolare delle
pompe fornivano il sottofondo all’interno. Alcuni trovavano i rumori
rassicuranti e confortanti, ma per altri erano il costante ricordo della loro
fragilità e della loro condizione precaria di vita. In sostanza, si viveva con
la costante paura che il macchinario potesse rompersi da un momento all’altro,
e non c’era da stupirsi se per questa ragione alcuni pazienti diventavano
psicotici nel periodo della cura. Mi sono espresso non al presente in quanto
questa apparecchiatura è praticamente quasi abbandonata, soprattutto con
l’invenzione del pallone Ambu (Air Mask
Bag Unit) per merito del danese Henning Ruben (1914-2004), e con
l’introduzione della complessa strumentazione di cui sono dotate le moderne e
sofisticate terapie intensive gestite dagli anestesisti-rianimatori, a partire
dal 1953, adottate per diversi casi di patologie particolarmente gravi inerenti
agli apparati neurologico, cardiaco, respiratorio. Molto utili si sono rivelate
anche nel periodo della pandemia Sars-CoV-2, salvando molte vite umane.
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