IL
DOVERE CLINICO E UMANO DI INDAGARE OLTRE…
Ci
sono pazienti che soffrono di disturbi particolari e costanti ma che non si riesce
a
comprenderne
le cause, e ciò richiede una maggiore determinazione nell’approfondire
di Ernesto Bodini
Sembra essere ridondante mettere sul
pianto delle discussioni il tema della Sanità pubblica italiana, ma non se ne
può fare a meno. E ciò, sia perché determinate problematiche sono da risolvere
e sia perché ci sono aspetti che non vengono mai trattati. Tra questi quello
relativo al rapporto medico-paziente soprattutto quando quest’ultimo è affetto
da una patologia di cui non si conosce la causa, e proprio per questa ragione
tra la classe medica coinvolta nel caso ci dovrebbe essere la tendenza ad attivare
quello che si può definire confronto
collegiale allargato, coinvolgendo da parte dei primi medici i propri
colleghi appartenenti ad ogni ulteriore Disciplina, e di altre Strutture
sanitarie sia pubbliche che private. Mi è dato a sapere che vi sono casi (per
la verità assai rari) che accusando una serie di sintomi da svariato tempo,
sono stati visitati e sottoposti (in ricovero e non) a diversi esami
strumentali anche invasivi, i cui esiti sono risultati essere negativi, e
proprio per questa ragione l’indagine clinica a riguardo non è andata oltre. Retrocedendo
nel tempo, ricordo che alcuni decenni fa, quando vigeva il cosiddetto “medico
paternalista”, da parte di quest’ultimo se non riusciva venire a capo di una
situazione clinica, si attivava ulteriormente coinvolgendo colleghi a destra e
a manca; e da notare che a quei tempi la strumentazione tecnologica era ancora
in divenire. Detto questo c’é da chiedersi perché oggi di fronte a situazioni
cliniche particolarmente enigmatiche, e ad una ampia disponibilità di mezzi
diagnostico-strumentali, i medici interessati del caso enigmatico specifico non
si attivino oltre allargando la loro indagine coinvolgendo colleghi di provata
esperienza. È una questione di tempi e di costi? È una questione di volontà?
Oppure una sorta di perdita di tempo perché sfiduciati di fronte
all’imponderabile per cui non vale pena in ogni caso dedicarsi ad oltranza? Se
interpellassi “a caso” alcuni medici probabilmente avrei risposte più o meno
univoche, e nessuno di loro (sono certo) affermerebbe di non avere la volontà
per indagare oltre su casi clinici di cui non si riesce a comprendere la o le
cause dei costanti disturbi sofferti dal paziente. Quale divulgatore attento dell’attività
medica ho sempre avuto fiducia della professionalità di chi ne fa parte,
soprattutto se medici, per contro devo dire che personalmente non ho mai
conosciuto un medico determinato nell’affrontare soprattutto casi clinici
particolarmente problematici in quanto di difficile (se non impossibile)
comprensione. Ora, è pur vero che in questi ultimi anni il nostro SSN è affetto
da lacune di vario tipo, ivi compresa la scarsità di operatori sanitari, ma è
altrettanto vero che in situazioni particolarmente impegnative non sempre si
riscontra la più totale dedizione… e questo non deve avvenire sia per non
“abbandonare” il paziente al suo destino e sia per questioni etiche. A questo
riguardo vorrei richiamare l’attenzione del lettore sulla nobiltà dell’essere
medico, in quanto di fronte al dolore che prende forma fisica e psicologica
egli non può sottrarsi in nessun caso, avvalendosi quindi di una esperienza e
di una tecnica tangibile per tentare di porvi rimedio, a mio avviso a
qualunque costo. Ogni medico, anche delle più recenti generazioni, di fronte
alla storia del dolore di cui è spettatore attivo, deve porsi i perché di così
tanta misteriosità che affligge il corpo umano, e cercare ogni possibile
risposta al punto che non solo il dolore lo tocchi da vicino, anche nei suoi
affetti più cari, ma anche il dover considerare i limiti della scienza e delle
sue applicazioni. A questo punto va precisato che riconoscere i limiti della
scienza medica significa intensificare la ricerca per superare tali limiti per
la quale si impone ogni considerazione filosofica, etica e religiosa, ma che
non sia un “alibi” per una sorta di fuga per darsi pace. E come ebbe a dire Pio
XII (1876-1958): «Una medicina che voglia
essere veramente umana, deve rivolgersi alla persona intera, corpo e anima… la
coscienza medica non è puramente soggettiva ma si forma piuttosto a contatto
del reale e si orienta su di esso e sulle leggi ontologiche che governano ogni
pensiero e ogni giudizio».
Alla luce di queste considerazioni,
tenendo sempre ben presente ogni paziente che soffre e che invoca maggior
attenzione, la visione integrale dell’essere umano costringe il medico a
riconoscere sì i limiti della medicina, ma al tempo stesso di ancorarla
all’insieme delle conoscenze acquisite dall’uomo ed alla ricerca generale che
anima tutte le discipline. Ciò gli permette di avvertire ancor meglio il
drammatico squilibrio tra intelligenza e potenza, tra consapevolezza del reale
e insufficienza dei mezzi per dominarlo. Quindi, ancora ci si chiede: qual è il
significato del dolore e del male che malgrado ogni progresso continuano a
sussistere? E cosa valgono le conquiste sinora raggiunte? Per rispondere a
queste domande si prenda in considerazione che chi si rivolge al medico per
essere curato o per prevenire una malattia, chiede ovviamente di stare meglio,
di poter godere di qualcosa che non ha
più o che teme di perdere; di conseguenza il medico diviene (o dovrebbe diventare)
per questi l’artefice principale del suo godimento. Ma di fronte ai suoi limiti
e a quelli della scienza medica chi soffre o chi teme di vedere accresciuta la
propria sofferenza ha bisogno di imparare a soffrire, ma per questo
“insegnamento” va aiutato a superare questa condizione con il massimo conforto
che si sta facendo tutto il possibile. A tal proposito Ippocrate affermava: «È necessario trattare non solo la malattia
ma anche contrastare le cause che la provocano». E mi sovviene anche
quanto sosteneva il cardinale e arcivescovo Fiorenzo Angelini (1916-2014): «… un medico che sia cosciente delle
possibilità ma anche dei limiti della scienza medica e della sua personale
perizia, può e deve avvertire in quest’ultima la più vera istanza dell’uomo
sofferente; non solo perché dall’esperienza del dolore con la quale viene a
contatto ha appreso quanto illusorie e fragili siano le gioie di questo mondo,
ma soprattutto perché ha potuto verificare che nessun uomo è veramente guarito
e neppure curato, se non ha imparato a scoprire il significato della propria
malattia e cagionevolezza». Profonde considerazioni che non mi fanno eludere quanto si sta
facendo da anni, ai fini della ricerca, per le malattie rare e i tumori rari; e
proprio per tutte queste ragioni ogni medico è insostituibile e se sostenuto
dalla fede non può e non deve arrendersi, nemmeno di fronte a ciò che non
riesce a comprendere attivandosi in ogni modo per lenire la sofferenza di chi a
lui ricorre.
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