IN VISITA AGLI
HOSPICE DELLA FONDAZIONE FARO PER LE CURE PALLIATIVE
A Carignano una nuova sede per rispondere alle esigenze della provincia torinese
di Ernesto Bodini
Dott.ssa Gallo, oltre alla routine quotidiana, quali altre incombenze sono previste?
“Dopo
il briefing, se ci sono stati dei decessi il giorno prima o durante la notte,
si procede ad attivare le procedure di circostanza; si prosegue con le visite e
a relazionare ai familiari e/o caregiver. Sono anche attivati quelli che si
definiscono i momenti comunitari come ad esempio la pet therapy e
intrattenimenti musicali. Il tutto è facilitato da un’ottima sinergia tra gli
operatori”
Cosa chiede il paziente agli operatori che lo assistono?
“Chiedono
poco per timore… ma anche perché chi li assiste è in grado di “anticipare” le
loro richieste. I pazienti che afferiscono a questa struttura in gran parte
sono soli, ansiosi e per questo fanno richieste semplici con qualche attimo di
“vicinanza” che viene soddisfatta dai nostri sanitari e dai volontari”
Quali sono le patologie più ricorrenti che richiedono il ricovero in hospice e quale la degenza media ?
“Molti
i casi di malattie oncologiche, neurodegenerative (in particolare la SLA),
alcuni casi di cardiomiopatia grave, come pure casi di insufficienza
respiratoria grave; altri affetti da cirrosi epatica scompensata in fase
terminale… La degenza media è di circa 21 giorni con 202 ricoveri dall’inizio
della attività”
Qual è la provenienza dei pazienti che ricoverate presso di voi?
“In
buona parte ci vengono inviati dagli ospedali in condizioni di fase avanzata di
terminalità, altri dalla sede di residenza in quanto non hanno nessuno che li
possa assistere”
Ma quali sono i
requisiti per poter accedere all’hospice?
“Devono
anzitutto essere pazienti che necessitano di cure palliative (quindi non più
cure attive), e che hanno una aspettativa di vita dai 4 ai 6 mesi, oltre a
rientrare nella cosiddetta scala di Karnosky, ossia una scala di valutazione di
autonomia del paziente (il cui valore deve essere pari o inferiore a 50),
inoltre non avere un caregiver”
E a proposito di questa figura, come si presenta il caregiver?
“Spesso
sono esausti soprattutto se hanno seguito il loro malato a casa finché hanno
potuto… A volte alcuni manifestano sensi di colpa ritenendo di non aver saputo
o potuto assistere il familiare nel migliore dei modi. Tuttavia, la nostra
équipe su questo aspetto cerca di essere loro vicini il più possibile”
Gli psicologi intervengono anche sul caregiver?
“Sempre,
in quanto le cure palliative implicano il prendersi cura, appunto, del malato e
della sua famiglia; inoltre, è attivato il servizio definito “Caro dopo”, una
forma di assistenza per la fase del lutto, mentre per le pratiche burocratiche
interviene l’assistente sociale”
In cosa consiste la “ Stanza del Silenzio”?
“È
una stanza dedicata ai pazienti e loro famigliari per momenti di raccoglimento
dove non ci sono immagini religiose, e questo per rispetto di qualunque Fede,
in cui si possono fare meditazioni, letture spirituali, o per dare corso ai
propri riti secondo la propria Religione. In questa circostanza regna il
silenzio dove ci si trova con sé stessi”
Nel vostro ambito, per quanto motivato e particolarmente sinergico, in che misura si manifesta il burnout?
“In questo anno e mezzo di attività non si è mai manifestato alcun caso e, anche se non sembra, è molto raro pur in presenza di cure palliative e “dell’evento morte”, in quanto ci prendiamo “cura di noi stessi”. Siamo molto attenti ai nostri operatori, organizziamo momenti di incontro tra noi unitamente alle psicologhe e agli infermieri, e il briefing è proprio anche un momento per mettere in “discussione” le nostre stesse problematiche o momenti di “scoramento”, sia pur occasionali. Insomma, una sorta di autosostegno”
Dott.ssa Gallo, 25 anni di esperienza a contatto
con pazienti critici, maturata agli hospice di Torino, in uno dei quali è stata
responsabile, cosa le ha dato questa professione e soprattutto il costante
rapporto con i pazienti?
“Questa professione mi ha dato molto, anzi
moltissimo; e ai colleghi che si stupiscono di questa mia costante dedizione,
dico loro che non sanno cosa stanno perdendo… Da questi malati ogni giorno
imparo qualcosa, ossia cosa vuol dire la sofferenza, la dignità di queste
persone nel portare avanti una malattia che non si risolverà…; inoltre, mi ha
insegnato (e mi insegna) a convivere con la sofferenza, a parlare di morte
imparando a riconoscerla attraverso le loro espressioni come una fase della
vita di ognuno di noi”
Ed è così che il valore della dignità viene trasmesso da un malato grave?
“Assolutamente. Noi, tutti i giorni impariamo da
questi pazienti non solo per la malattia che li ha colpiti, ma anche per i
diversi problemi intimi che si portano dentro. Infine, il contatto con questi
pazienti mi ha insegnato e mi insegna ad apprezzare anche le piccole cose”
“È notevole proprio per l’apporto delle cure
palliative, la cui necessità di somministrazione risale alle convinzioni dei
torinesi prof. Alessandro Calciati (oggi scomparso) e dott. Oscar Bertetto, nel
dar vita ad una realtà per colmare un “vuoto” nel campo dell’assistenza
oncologica e delle cure palliative, veri protagonisti di quell’assistenzialismo
non fine a se stesso, ma volto alla cura e al sostegno possibilmente a casa del
malato, o comunque in un hospice totalmente dedicato”
INTERVISTA ALLA PSICOLOGA E PSICOTERAPEUTA CARLA GAI
Collaboratrice della FARO
Dr.ssa Gai, quali le ragioni per lavorare in un hospice?
“Ho iniziato nel 1989 e, in seguito alla
frequentazione della Facoltà di Psicologia, mi sono avvicinata al volontariato
con l’ANAPACA (onlus). Dopo la Tesi di Laurea ho fatto Ricerca e iniziato a
lavorare alla FARO di Lanzo (To), dove sono presente da 27 anni come
collaboratrice. Per quanto riguarda le motivazioni è in seguito alla perdita di
una mia compagna di scuola (ero 17enne), e non avevo concepito che si potesse
morire, da qui in poi il cammino accademico e professionale”
In quali ambiti esercita in particolare?
“Quello relativo alle cure palliative per 30 ore
settimanali, e 20 ore di attività terapeutica di altro genere, oltre come
consulente in un Nido d’infanzia”
Quali sono i suoi rapporti con questi pazienti?
“Si manifestano con la profonda intimità, con il
dialogo, l’ascolto, il contatto intimo in una dimensione più spirituale… anche
se non sempre. Da quando esercito in hospice vengono proposti i cosiddetti
“piani esistenziali”, e talvolta l’approccio è in forma più attenuata. Il mio
contributo verte proprio sul piano esistenziale e di preparazione alla morte”
Si dice che a volte lo psicologo è la “carta assorbente” del malato. È così?
“A mio parere no. In effetti non siamo ciò che
assorbiamo, ma piuttosto siamo all’interno di una relazione sufficientemente
forte che consente di ampliare in quel momento la sopportabilità mentale;
ossia, con la propria mente in senso cognitivo offrire a chi si ha di fronte in
quel momento la forza di reggere il
pensiero dell’imminenza di morte. Quindi, un accompagnamento alla ricerca di un
senso attraverso una forza condivisa”
“Esattamente, dal momento dell’ingresso del
paziente in hospice sino alla fine, e anche oltre… dopo il lutto senza limiti
temporali”
Quando finisce la giornata la psicologa Gai lascia
tutto in hospice, o porta a casa?
“Porto tutto a casa e con gioia: in famiglia si
parla anche di morte ma in senso culturale e costruttivo interagendo
reciprocamente, e da qui la conoscenza della “speranzologia”, scienza
imperfetta che ti fa sentire sempre al sicuro, anche quando le cose non
dovessero andar bene e per questo si tratta di avere fiducia in se stessi e negli altri”
Cosa insegna questa professione allo psicologo?
“A vivere! Molti sarebbero gli aneddoti a
riguardo dalle più significative esperienze”
AL SEGUITO DELLA PET THERAPY NEGLI
HOSPICE DELL’EX OSPEDALE SAN VITO DI TORINO
La mattinata precedente, negli hospice torinesi “Sergio Sugliano” e “Ida Bocca” ho seguito il breve percorso terapeutico (due ore) con gli operatori per la Pet Therapy, propriamente definiti operatori per gli Interventi Assistiti con gli Animali (IAA), coordinati dalla psicologa Vanessa Simili. Le operatrici, Anna Lami e Paola D’agnese rispettivamente proprietarie dei cani: Cesare (un pastore australiano) e Sally (un Lagotto romagnolo), hanno introdotto i loro “beniamini” in ogni stanza dei pazienti, preventivamente informati dalla dr.ssa Simili chiedendo loro se avevano piacere ricevere gli animali in stanza e poterli accarezzare per alcuni minuti. Sia uomini che donne, in parte anziani e particolarmente debilitati, hanno accolto questi amici fedeli dell’uomo, mostrando loro tenerezza ma anche ricevendo quel piacevole contatto gioioso, taluni facendosi anche leccare mani e piedi. «La scelta dei pazienti più “predisposti” al contatto con l’animale – spiega la dr.ssa Simili – è una fase delicata, in quanto si tratta di capire lo stato fisico ed emotivo del paziente in quel momento, e l’esperienza mi aiuta ad “individuare” i casi più “difficili” dal punto di vista della relazione, comprendere i loro bisogni e se gradiscono essere avvicinati dai cani con i loro proprietari». Questo progetto, dalle particolari caratteristiche psicologiche e terapeutiche è stato fortemente voluto dalla psicologa e creato cinque anni fa con la dott.ssa Gallo, su “stimolo” di una paziente che amava i cani, che nel tempo ha dimostrato avere l’effetto di una vera e propria terapia complementare, ormai consolidata in Piemonte e in tutta Italia. «Mediare la relazione tra il paziente e l’animale – conclude la dr.ssa Simili – è il risultato di un benessere per entrambi, e perché no, anche per noi operatori».
BREVE STORIA DELLA
PET THERAPY
L’impiego degli animali a contatto con pazienti affetti da particolari patologie fisiche e/o psico-neurologiche risale a tempi molto antichi. Ma venendo a quelli più recenti il primo approccio risale al IX secolo quando in Belgio vennero introdotti alcuni animali per curare i disabili. Il primo studio accertato dal punto di vista scientifico a scopo terapeutico risale al 1792, quando in Inghilterra il quacchero William Tuke (1732-1882) cominciò a curare pazienti con disturbi mentali, incoraggiandoli a prendersi cura di animali domestici. Nel 1867 in Germania al Betheld Hospital vennero introdotti cani, gatti e altri piccoli animali come parte integrante dei trattamenti di recupero. Negli anni successivi furono coinvolti oltre 5.000 pazienti, prevalentemente affetti da epilessia. Successivamente, nel 1875 il dottor Chessigne, medico e neurologo francese, cominciò a prescrivere l’ippoterapia a pazienti con problemi neurologici, in aggiunta all’uso di farmaci, in quanto secondo lui era ottima per favorire il recupero dell’autocontrollo e dell’attività muscolare. Nel 1919 negli Stati Uniti, presso il St. Elisabeth Hospital di Washington è stato realizzato il primo impiego di animali a scopo terapeutico, in particolare i cani per curare i pazienti che, durante la seconda Guerra Mondiale, avevano riportato gravi forme di depressione e schizofrenia. Un secondo impiego di animali negli ospedali americani fu realizzato nel 1942 a New York in ospedale per feriti di guerra con traumi emozionali e, il concetto di “Per Therapy” pare sia stato enunciato ufficialmente per la prima volta dal neuropsichiatra infantile Boris Levinson nel 1953. Questo medico considera il cane come co-terapeuta tanto che, nl 1969, ha elaborato la teoria della “Pet Oriented Child Psychotherapy”, proprio perché si basa su alcuni elementi tipici della psicologia infantile e del rapporto bambino-animale. Ma questa esperienza è proseguita con i due psichiatri americani Samuel ed Elisabeth Corson coniando il tipo di intervento con il nome di “Pet Facilitated Therapy. Dagli anni ’70 in poi questa terapia, definita “dolce”, ha trovato applicazione in svariati campi soprattutto negli USA, dove nel 1981 è stata fondata la Delta Society, associazione che si prefigge di studiare l’interazione uomo-animale e gli effetti terapeutici legati alla compagnia degli animali. In Italia la Pet Therapy si inserisce nel 1987, e la vera svolta avviene nel 2009 con l’istituzione del Centro di Referenza Nazionale per gli Interventi Assistiti con gli Animali. Prima di congedarmi dall’hospice Cornaglia di Carignano, ho letto una delle testimonianze lasciata dai familiari di un paziente ed esposta pubblicamente a ricordo: «Perché alla fine di un “viaggio”, la cosa importante non è la destinazione raggiunta, ma le persone con cui l’hai fatto. Grazie per “l’accompagnamento” a Francesco». Dopo questa esperienza vorrei concludere con questa personale riflessione: «Il prossimo che prematuramente ci lascia, incupisce il nostro cuore ma nello stesso tempo ci induce alla ricerca di quei valori esistenziali che, a volte, non gli abbiamo sufficientemente considerato».
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