LARGO CENSO ALLA
DIPARTITA DEI “NOTABILI” ISTITUZIONALI
Ma non si perda di
vista che la differenza
di ruoli e ceti
impoverisce l’Essere umano
di Ernesto Bodini
Ogni volta che un “personaggio” esponente delle
Istituzioni lascia questo mondo, i superstiti testimoni (veri o presunti) del
suo operato sono tutti coesi nel manifestare attestazioni per rinnovare quanto
di più sia da rispettare, in vita non sono stati dei “Re” come vengono
menzionati a volte dai mass media, in quanto il loro operato ha rappresentato
semplicemente il proprio dovere e per questo, il “grazie” ripetuto da tutti
all’ennesima potenza è fuori luogo. Ciò non toglie, comunque, rispetto della
memoria ma da qui a farne un protagonista “salva Patria” ne corre (attributo
che riguarda tutt’altra epoca!). Ma come tutte le persone autorevoli, a
cominciare proprio dai Presidenti della Repubblica e Ministri al seguito (che
alla loro dipartita se ne parla sempre bene, anzi benissimo), si tende ad enfatizzare
competenze ed operato, e ciò a mio avviso non dovrebbe avvenire perché scegliere
di candidarsi per condurre e gestire la vita pubblica, non rientra in una
questione di merito ma in un contesto per certi versi di normalità, e anche se
il loro compito istituzionale comporta determinate responsabilità (per le quali
sono previsti ragguardevoli compensi ed attenzioni di varia entità), umanamente
non si possono considerare meno altre professioni, alcune delle quali di non
minore responsabilità. Quindi, il nostro Paese continua a pavoneggiarsi valorizzando
dei “falsi miti” (per la verità non tutti), e anche se bene o male hanno fatto
il loro dovere, restano sempre quelle differenze che non sono troppo
giustificate specie se particolarmente estreme. Ora, se la logica e la
consuetudine prevedono che le più alte cariche istituzionali debbano avere un
cert0 censo soprattutto alla loro dipartita, nulla vieta darne corso ma dal
punto di vista umano a parer mio è disdicevole non dare la stessa importanza,
in caso di decesso, all’uomo morto su una panchina in completo abbandono e con
ai piedi i suoi poveri averi… Ma ciò avviene ancor prima, ossia in tutti quei
casi di anziani (e magari con disabilità), spesso soli e non più autonomi che
vengono indirizzati in una più o meno anonima struttura sanitaria per lungo
degenti, la cui modesta retta assistenziale non garantisce loro determinati e
normalissimi comfort… Queste strutture una volta erano etichettate come cronicari,
termine che faceva riferimento (sia pur indirettamente) all’exitus a
medio-breve termine. Ho sempre sostenuto, senza alcuna inclinazione
politico-ideologica, che qualunque Persona rappresenta il genere Umano, ma sia
nel passato che in tempi moderni la distinzione tra Esseri umani (non a caso le iniziali sono maiuscole)
si è sempre più accentuata, e non solo in rapporto al proprio potere economico,
ma anche al ceto socio-culturale di appartenenza, e prendendo a prestito quanto
sosteneva il medico e psicoterapeuta tedesco Fritz Pearls (1893-1970), ritengo
che si possa adottare il seguente aforisma: «Io sono io. Tu sei tu. Io non sono al mondo per soddisfare le
tue aspettative. Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative. Io
faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa. Se ci incontreremo sarà bellissimo;
altrimenti non ci sarà stato niente da fare». In buona sostanza, si facciano pure gli onori con
tanto di pompa magna a Tizio, Caio o Sempronio che magari per anni hanno
occupato gli scranni del potere, ma ciò non muta il valore della considerazione
umana che deve essere univoca… non fosse altro per il fatto che tutti in egual
modo, prima o poi, dobbiamo inginocchiarci di fronte a Colui il quale ci
ricorderà che siamo nati uguali ma che abbiamo vissuto distinguendoci l’un
l’altro, inutilmente. E qui, a mio avviso, ben si inserisce la famosa poesia-sentenza
scritta nel 1964 da Antonio De Curtis (alias Totò): “A LIVELLA”, testo drammatico dal profondo significato filosofico,
ironizzando sulla morte, e che in qualunque contesto è bene rievocarla e farne
tesoro…, anche perché altre Persone umanamente non meno autorevoli se ne sono
andate in silenzio!
Traduzione in
italiano della poesia: “A livella”
Ogni
anno, il due novembre, c’è l’usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno
deve fare questa gentilezza; ognuno deve avere questo pensiero.
Ogni anno, puntualmente, in questo giorno, di questa triste e mesta ricorrenza,
anch’io ci vado, e con dei fiori adorno il loculo marmoreo di zia Vincenza.
Quest’anno m’è capitata un’avventura … dopo aver compiuto il triste omaggio
(Madonna!) se ci penso, che paura! ma poi mi diedi anima e coraggio.
Il fatto è questo, statemi a sentire: si avvicinava l’ora di chiusura: io,
piano piano, stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.
“Qui dorme in pace il nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese morto l’11 maggio del ’31”.
Lo stemma con la corona sopra a tutto … …sotto una croce fatta di lampadine;
tre mazzi di rose con una lista di lutto: candele, candelotte e sei lumini.
Proprio accanto alla tomba di questo signore c’era un’altra tomba piccolina,
abbandonata, senza nemmeno un fiore; per segno, solamente una piccola croce.
E sopra la croce appena si leggeva: “Esposito Gennaro – netturbino”: guardandola,
che pena mi faceva questo morto senza neanche un lumino!
Questa è la vita! tra me e me pensavo… chi ha avuto tanto e chi non ha niente!
Questo pover’uomo s’aspettava che anche all’altro mondo era pezzente?
Mentre rimuginavo questo pensiero, s’era già fatta quasi mezzanotte, e rimasi
chiuso prigioniero,
morto di paura… davanti alle candele.
Tutto a un tratto, che vedo da lontano? Due ombre avvicinarsi dalla mia parte…
Pensai: questo fatto a me mi pare strano… Sono sveglio…dormo, o è fantasia?
Altro che fantasia! Era il Marchese: con la tuba, la caramella e il pastrano;
quell’altro dietro a lui un brutto arnese; tutto fetente e con una scopa in
mano.
E quello certamente è don Gennaro… il morto poverello… il netturbino. In questo
fatto non ci vedo chiaro: sono morti e si ritirano a quest’ora?
Potevano starmi quasi a un palmo, quando il Marchese si fermò di botto, si gira
e piano piano… calmo calmo, disse a don Gennaro: “Giovanotto!
Da Voi vorrei saper, vile carogna, con quale ardire e come avete osato di farvi
seppellir, per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato!
La casta è casta e va, sì, rispettata, ma Voi perdeste il senso e la
misura; la Vostra salma andava, sì,
inumata; ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso la
Vostra vicinanza puzzolente, fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso tra i
vostri pari, tra la vostra gente”.
“Signor Marchese, non è colpa mia, io non vi avrei fatto questo torto; mia
moglie è stata a fare questa fesseria, io che potevo fare se ero morto?
Se fossi vivo vi farei contento, prenderei la cassa con dentro le quattr’ossa e
proprio adesso, in questo stesso istante entrerei dentro a un’altra fossa”.
“E cosa aspetti, oh turpe malcreato, che l’ira mia raggiunga l’eccedenza? Se io
non fossi stato un titolato avrei già dato piglio alla violenza!”
“Fammi vedere! prendi ‘sta violenza… La verità, Marchese, mi sono stufato di
ascoltarti; e se perdo la pazienza, mi dimentico che son morto e son mazzate!”
“Ma chi ti credi d’essere…un dio? Qua dentro,
vuoi capirlo che siamo uguali?… …Morto sei tu , e morto son pure io; ognuno
come a un altro è tale e quale”.
Lurido porco!… Come ti permetti paragonarti a me ch’ebbi natali illustri,
nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?”.
“Ma quale Natale, Pasqua e Epifania!!! Te lo vuoi ficcare in testa… nel
cervello che sei ancora malato di fantasia?… La morte sai cos’è?… è una
livella.
“Un re, un magistrato, un grand’uomo, passando questo cancello, ha fatto il
punto che ha perso tutto, la vita e pure il nome: non ti sei fatto ancora
questo conto?”
“Perciò, stammi a sentire… non fare il restio, sopportami vicino – che
t’importa? Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri…
apparteniamo alla morte!”
Commenti
Posta un commento