UN MODO DIVERSO DI CONCEPIRE LE FERIE ESTIVE
In Gabon all’ospedale di Lambarènè
Quest’anno
idealmente mi sono “catapultato” in Africa nel mese di luglio 1963, due anni
prima della morte
del dott. Albert Schweitzer, che mi ha rilasciato la seguente intervista
di Ernesto Bodini
“Mi domandavo se la nostra cultura
possiede realmente le energie etiche necessarie. Dalla lettura delle opere dei
maggiori filosofi, dal 1850 sino alla fine del secolo scorso, appresi che, per
i più importanti filosofi europei di quel periodo, la cultura e l’etica non
costituivano più un problema: erano considerate ed accettate come acquisizioni
spirituali date. Inoltre, non potevo sottrarmi al pensiero che proprio
quest’etica, considerata “definitiva”, non esigeva grande impegno dai singoli e
dalla società”.
In seguito cosa fece?
“Decisi di compiere una esame approfondito e di raccogliere i miei pensieri in un’opera critica, che doveva essere intitolata “Cultura ed etica”. Però, dal momento che il nostro mi sembrava piuttosto un periodo di decadenza spirituale, fui tentato di trasformare il titolo in “Noi epigoni”. In seguito compresi che non ero il solo ad avere la consapevolezza che vivevamo in un ‘epoca di epigoni! Durante uno dei primi anni del nuovo secolo mi dedicai ad una lunga ricerca: la maggior parte dei filosofi considerava secondario questo argomento; pochi soltanto gli davano spazio… Tuttavia, ero convinto che anche l’etica filosofica dovesse prendere in considerazione l’obbligo di un atteggiamento favorevole nei confronti degli animali”
Qual è il primo ricordo della sua vita che in qualche modo è stato motivo, per così dire, di turbamento?
“Il primo ricordo è il diavolo.
Tutte le domeniche, andando in chiesa, mi capitava una strana avventura: da un
quadro scintillante, in alto, vicino all’organo, un volto coperto di peluria
guardava giù nella navata, voltandosi da una parte e dell’altra, Era visibile
finchè suonava l’organo, poi spariva, quando mio padre pregava all’altare per
ricomparire quando ricominciavano i canti e la musica; all’inizio della predica
svaniva un’altra volta, riapparendo più tardi al canto e al suono dell’organo. «É il diavolo che osserva in chiesa»,
pensavo, appena papà comincerà a spiegare la parola di Dio, dovrà scappare.
Questa teologia, vissuta ogni domenica, dava il tono determinante alla mia
religiosità infantile. Soltanto molto più tardi, quando già frequentavo la
scuola da parecchio tempo, capii che il volto peloso, che appariva e scompariva
tanto misteriosamente, apparteneva al papà Iltis, l’organista: all’organo era
fissato uno specchio che permetteva al suonatore di vedere quando mio padre
saliva all’altare o sul pulpito”
C’è un altro episodio che ricorda in modo particolare?
“Non si può dire che l’idea di
andare a scuola mi riempisse di gioia. Mi ricordo di aver pianto per tutta la
strada, quella mattina di ottobre, quando mio padre mi ficcò per la prima volta
la lavagnetta sotto il braccio e mi portò dalla maestra. Presagivo che stava
per finire il tempo felice dei sogni e della libertà. Non mi sono mai lasciato
abbagliare dallo splendore, da cui sembrano circonfuse tutte le novità, ma ho
affrontato l’ignoto, respingendo ogni illusione. La prima visita dell’ispettore
mi impressionò enormemente e non tanto per l’eccitazione della maestra cui le
mani tremavano visibilmente, quando gli consegnò il registro di classe, o per i
continui sorrisi e inchini di papà Iltis, che di solito aveva un aspetto
terribilmente austero. Ciò che veramente mi colpì, fu di avere per la prima
volta davanti ai miei occhi un uomo che aveva scritto un libro di lettura verde
per il corso medio e su quello giallo per il corso superiore, e in
quell’occasione ho potuto conoscere l’autore di questi due volumi, che per me
venivano subito dopo la Bibbia”
Qual era il suo temperamento, o carattere, in quegli
anni?
“Non ero molto litigioso, ma
piaceva talvolta misurare le forze lottando amichevolmente con gli altri.
Ricordo che un giorno, tornando da scuola, riuscii a scorgere Georg Nitschelm
(ormai morto da molti anni), che era più grande e veniva considerato più forte
di me. Mentre lo inchiodavo con le spalle a terra, lo sentii esclamare: “Se mangiassi anch’io due volte alla
settimana la minestra di carne, sarei forte come te!”. Spaventato, me ne
tornai a casa vacillando. Georg Nitschelm aveva detto con brutale chiarezza ciò
che io avevo sentito già in altre occasioni: i ragazzi del villaggio non mi
consideravano uno di loro. Le mie condizioni materiali erano migliori; essi
vedevano in me il figlio del parroco, il signorino. Ne soffrivo molto, perché
non volevo essere diverso. Volevo vivere come loro, senza alcun privilegio. Da
quel giorno cercai di essere come tutti gli altri”.
Dottor Schweitzer, ha conosciuto la gioia giovanile di vivere?
“Ho sempre sofferto per le miserie
che ho visto nel mondo e posso affermare di non aver mai conosciuto quella che
lei definisce gioia giovanile di vivere. Penso che sia lo stesso per molti
bambini, anche se esteriormente sembrano allegri e spensierati. Particolarmente
soffrivo per tutte le pene inflitte ai poveri animali. Per molte settimane non
mi liberai dell’immagine di un vecchio cavallo zoppicante, che un uomo dietro
di me tirava per una fune, mentre un altro lo colpiva con un bastone. Veniva
portato al macello di Colmar. Neppure riuscivo a comprendere, già prima di
andare a scuola, perché nelle mie preghiere serali dovessi ricordarmi soltanto
degli uomini. Dopo aver perciò pregato con mia mamma e dopo il bacio della
buona notte, recitavo ancora, segretamente, un’orazione supplementare per tutti
gli esseri viventi. Dicevo: “Padre
nostro, proteggi e benedici tutto ciò che ha vita, guardalo da ogni male e
fallo riposare in pace!”
Ritiene di aver ereditato il suo carattere da un suo famigliare, o di essersi formato in seguito a queste vicissitudini?
“Nelle medie i miei compagni,
durante le lezioni, ne approfittavano crudelmente, e il registro di classe portava spesso l’annotazione: “Schweitzer ride”. In verità non avevo un
carattere allego, ero piuttosto timido e chiuso. Avevo ereditato questo
carattere dalla mamma. Basti pensare che non riuscivamo a esprimere a parole
l’amore che provavamo l’uno per l’altra. Potrei contare sulle punte delle dita
le ore in cui ci siamo veramente parlati, ma ci comprendevamo senza bisogno di
aprire bocca. Anche la mia impetuosità veniva da lei, che a sua volta l’aveva
presa dal padre, uomo facile all’ira (pur essendo molto buono). Di questa
focosità innata avevo coscienza durante le ore di gioco, che prendevo estremamente
sul serio, scaldandomi quando vedevo altri che non si dedicavano con anima e
corpo. Per il resto ero una ragazzo tranquillo e con la testa nelle nuvole;
faticai non poco per imparare a leggere e a scrivere”
C’è stato un episodio, invece, che ha avuto a che fare con la sua iniziale passione per la musica?
“Prima ancora che andassi a
scuola, mio padre aveva incominciato a darmi lezioni di musica su un vecchio
pianoforte. Non mi piaceva seguire le note e preferivo improvvisare e
riprodurre canzoni e corali con un accompagnamento di mia invenzione. Durante
le lezioni di canto la maestra intonava il corale senza accompagnamento, ciò
che mi dava fastidio. Un giorno, durante la ricreazione, le chiesi perché non
lo suonasse. Preso dalla mia idea, mi misi all’armonium e glielo suonai a
orecchio a più voci, improvvisandolo. La maestra divenne molto gentile e mi
guardò con stupore senza tuttavia smettere di battere con un solo dito. Sapevo
fare qualcosa più di lei e mi vergognai di averle sciorinato la mia scienza,
che in fondo avevo ritenuto del tutto normale, quasi con l’aria di volerglielo
insegnare. Zia Sofia, soleva dirmi: “Tu
non sai quanto la musica ti potrà essere utile nella vita”. Certamente non
immaginava che mi avrebbe un giorno aiutato a raccogliere fondi necessari per
costruire un ospedale nella foresta vergine”
Ma come si intensificò questa predisposizione, tanto da dover diventare uno dei più importanti concertisti, ma anche musicologo e appassionato della storia degli organi sino ad imparare a costruirli e ripararli?
“Dopo alcuni episodi di
incomprensione e insoddisfazione con il mio insegnate di musica Eugen Munch,
organista della chiesa calvinista, venuto dal Conservatorio di Berlino, che mi
diede le prime lezioni, a causa del mio voler “improvvisare” e della difficoltà
a suonare con immedesimazione davanti all’insegnante, mi esercitai su un brano
(“Roma senza parole” in MI maggiore
di Mendelsshon), provando anche le digitazioni più razionali e le misi su
carta. Quando ebbi finito il lavoro preparatorio, mi sforzai nella lezione
successiva di suonare la canzone così come la sentivo in me. Dopo alcune
lezioni l’insegnante mi trovò degno di avvicinarmi a Bach. Così si realizzò un
sogno che avevo coltivato di nascosto; avevo nel sangue la passione per
l’organo”
La lettura è sempre stata di suo particolare interesse?
“Questo amore non conosceva limiti e lo provo tuttora. Non riesco a deporre un libro incominciato, senza finirlo, e piuttosto rinuncio a dormire. Devo almeno averlo scorso tutto e se mi piace lo rileggo anche due o tre volte di seguito. Preoccupata per la mia istruzione la zia (della quale sono stato ospite in casa sua per tutto il periodo degli studi liceali) veniva a controllare la mia velocità, quando finivo troppo presto un libro voleva vietarmi di leggere i giornali, affermando che mi interessavo solo dei romanzi d’appendice e della cronaca nera, mentre io assicuravo di appassionarmi particolarmente di politica, cioè alla storia contemporanea. Avrò avuto allora circa undici anni”
Durante il periodo degli studi liceali ha avuto un insegnante, o un istitutore che le è servito prendere a modello nel suo ruolo di docente di filosofia e teologia?
“La mia carriera scolastica non ebbe un inizio felice: le brutte pagelle
diedero molte preoccupazioni ai miei genitori. A scuola volevano perfino
togliermi la borsa di studio della quale fruivo come figlio di parroco… Allora
mi apparve il salvatore: il nuovo insegnante, il dott. Wehmann. Per quanto
fossi distratto, mi accorsi fin dai primi giorni che egli preparava con cura
ogni lezione. Sapeva perfettamente quanta materia doveva svolgere e ci riusciva
sempre. Nel giorno e all’ora esatta ridava i quaderni di bella copia. Questa
autodisciplina che vedevo messa in atto ogni giorno davanti a me ebbe effetto
sulla mia indole: mi sarei vergognato, se non fossi piaciuto a un simile
maestro, ed egli diventò il modello. Dopo tre mesi, in quarta liceo, la mia
pagella del secondo trimestre mi poneva già fra i migliori… Wehmann mi insegnò
che la capacità educativa è data da un profondo e minuziosissimo senso del
dovere e che con questo si giunge anche là, dove falliscono le parole e i
castighi. Ho sempre cercato di applicare nella mia attività di educatore questo
insegnamento”
Dott. Schweitzer, come ha concepito il fatto che il dolore e la sofferenza hanno regnato e regnano nel mondo?
“Il pensiero di aver potuto godere
di una gioventù tanto particolarmente felice mi occupava continuamente. Anzi,
mi opprimeva addirittura. E sempre più chiaro mi si presentava il problema se
io, avevo il diritto di possedere questa fortuna come qualche cosa di naturale.
In tal modo il problema del diritto alla felicità è diventato per me il secondo
grande “avvenimento” della mia vita”
Dopo anni dedicati all’insegnamento e alla predica, ha deciso di passare ai fatti, rinunciando alla sua posizione di direttore del Seminario. Perché?
“Volevo diventare dottore per
trovarmi nella possibilità di lavorare senza dover parlare… Con la conoscenza
della Medicina potevo realizzare il mio progetto nel migliore e nel più
completo dei modi. In vista del progetto per l’Africa equatoriale,
l’acquisizione di tale scienza era specialmente indicata perché nel distretto
in cui pensavo di andare, un dottore era, secondo le relazioni dei missionari,
ciò di cui avevano soprattutto bisogno. Si lamentavano sempre nel loro giornale
di non poter dare l’aiuto desiderato agli indigeni sofferenti che si recavano
da loro. Per divenire un giorno il dottore di queste povere creature, che
avevano tanto bisogno, valeva la pena, a parer mio, di mettermi a studiare
Medicina”
Prima di intraprendere la sua missione, tempo e modalità saranno stati necessari ai fini della (immagino) minuziosa preparazione per affrontare in modo adeguato un’attività medica e spirituale. Come affrontò questa indispensabile esperienza?
“Se all’inizio dello studio della
Medicina avevo fatto conoscenza scientificamente con la materia, dovetti occuparmene
praticamente; fu per me anche questa una nuova esperienza. Fino allora avevo
svolto un lavoro esclusivamente intellettuale; ma ora si trattava di compilare
ordinazioni sulla base di cataloghi, fare acquisti per giornate intere, girare
per i negozi e scegliere merci, esaminare forniture e conti, preparare casse e
imballaggi, redigere minuziosi elenchi per la dogana e altro ancora. Quanto
tempo e fatica dovetti impiegare prima di mettere insieme gli strumenti, le
medicine, il materiale da bendaggio e tutto l’occorrente di un ospedale, per
non parlare delle spese necessarie all’impianto di una casa nella foresta,
eseguite in compagnia di mia moglie. Dapprincipio trovai tutte queste faccende
piuttosto seccanti. Ma a poco a poco scoprii che anche il rapporto pratico con
la materia meritava di essere trattato con impegno. Oggi sono giunto al punto
di ricavare una soddisfazione artistica da un’ordinazione ben fatta…”
Come immaginava l’esperienza di medico e di predicatore accanto a quei poveri infelici e sofferenti in Gabon?
“La nuova attività non potevo
immaginarla come un continuo discorrere sulla religione dell’amore, ma soltanto
come un’effettiva attuazione di essa. Con la conoscenza della Medicina potevo
realizzare il mio progetto nel migliore di modi, qualunque fosse il luogo verso
cui il sentiero della professione mi avrebbe condotto”
É per questa ragione che si è sentito e si sente libero?
“Mi rendo conto di poter lavorare da uomo libero in un periodo in cui
molti hanno avuto in sorte un’opprimente mancanza di libertà; e mi rendo anche
conto che sebbene il mio lavoro immediato sia materiale, ho nello stesso tempo
l’opportunità di occuparmi di questioni che appartengono alla sfera spirituale
e intellettuale. Che le circostanze della mia vita creino in tanti svariati
modi condizioni favorevoli al mio lavoro, lo accetto come qualche cosa di cui
desidererei mostrarmi degno”
Ma qual è il vero concetto di libertà? E quale la differenza tra libertà materiale e spirituale?
“La libertà materiale e quella spirituale sono intimamente congiunte. La
civiltà presuppone uomini liberi perché non può essere concepita e realizzata
che da uomini liberi. Ma oggi, purtroppo, sia la libertà sia la capacità di
pensiero sono diminuite. Alla mancanza di libertà dobbiamo aggiungere i danni
dovuti all’eccessiva fatica. Da due o tre generazioni molti vivono non già come
esseri umani ma come strumenti di lavoro…”
In tutti questi anni, in gran parte dedicati al servizio degli umili e più diseredati, quali fardelli ha dovuto sostenere?
“Alla mia vita sono stati destinati ansietà, fastidi e dolori talvolta
in misura così abbondante che se non avessi avuto i nervi ben saldi avrei
dovuto cedere. Ma ho ricevuto anche delle benedizioni: mi è stato concesso di
lavorare al servizio della misericordia; il mio lavoro ha avuto successo,
ricevo dalla gente grandi dimostrazioni di affetto e di gentilezza, ho dei
fedeli sostenitori che si immedesimano nella mia attività, godo di una salute
che mi permette di intraprendere dei lavori faticosissimi, ho un carattere
equilibrato che non è soggetto a mutamenti d’umore e un’energia che s’impone
con calma e ponderazione, infine sono in grado di riconoscere ogni felicità che
mi viene concessa dalla sorte, e l’accolgo come qualcosa per cui devo rendere
grazie”
Sicuramente ha dovuto affrontare e curare patologie di vario tipo ed entità, che immagino essere la lebbra, la malaria, polmonite, dissenteria, etilismo, malattia del sonno e forse altre ancora. Per non parlare dei casi “incurabili” e drammatici. Come è intervenuto sinora in tali situazioni?
“Presso i primitivi è imprudente cercare di dare speranza all’ammalato e ai suoi familiari quando in verità non ce n'è più. Se sopraggiunge la morte senza che sia stata debitamente predetta, la gente conclude che il medico non sapeva che la malattia avrebbe avuto esito e quindi non l’aveva individuata. Agli ammalati indigeni bisogna dire la verità senza riguardo. Essi vogliono conoscerla e sanno sopportarla. La morte è per loro qualcosa di naturale. Non la temono, l’attendono con calma. Se poi contro ogni attesa l’ammalato se la cava, tanto meglio per la fama del medico, il quale viene considerato uno capace di guarire persino le malattie che conducono alla morte”
Dott. Schweitzer, più volte le è stato contestato il fatto di non essersi voluto adeguare “ai tempi”, rifiutando, ad esempio, la possibilità di fruire di un ospedale più moderno, riducendo così disagi e difficoltà soprattutto ai malati; e che per questa ragione non sono mancate antipatie e qualche accusa… Quanto c’è di vero in tutto questo?
“Se io costringessi i miei malati a vivere in linde corsie con letti in
ferro, tra lenzuola sterilizzate, con pigiama bianchi e così via, nessuno
verrebbe qua. Si lasciano portare volentieri da me perché io concedo a tutti la
libertà: vivono nel mio ospedale come a casa loro, con le loro abitudini e le
loro piccole o grandi infrazioni dell’igiene. Ma io sono convinto che ci sia
qualche cosa che val di più dell’igiene: la distensione dell’animo e l’azione
favorevole dell’ambiente. Quanto ai rimedi, io uso quelli più moderni, dagli
antibiotici ai cortisoni, dai sulfamidici alle vitamine. Qui abbiamo i raggi X,
il microscopio, l’elettrocardiografo come nei Paesi civili. Per il resto la
benignità della natura ci soccorre e i malati guariscono”
C’è un episodio che “valorizza” il concetto di intellettualità?
“A metà settembre incominciano le piogge,
e la parola d’ordine è mettere tutto il legname da costruzione al coperto. Dato
che in ospedale non disponiamo di uomini, incomincio, assistito da due fedeli, a
trasportare travi ed assi.
Improvvisamente il mio sguardo cade su di un negro vestito di bianco che siede presso un paziente al quale è
venuto a far visita.” Amico – chiamo –
non mi daresti una mano?” – “Sono un intellettuale e non faccio lavori
manuali”, mi dice il negro. “Sei
fortunato – rispondo – Anch’io volevo
fare l’intellettuale ma non ci sono riuscit0”
Qual è la forza che le ha permesso di conquistare notevoli risultati, rispondndo alla sua vocazione?
“Ho sempre sostenuto che chiunque
si proponga di fare del bene non deve attendersi che gli altri tolgano le
pietre dal suo cammino, ma deve accettare tranquillamente il suo destino anche
se gliene fanno rotolare al suo passaggio. Una forza che divenga più sicura e
più possente attraverso l’esperienza di tali ostacoli è l’unica forza che può
superarli. La resistenza è soltanto uno spreco di energia”
Ma il concetto di altruismo va ben oltre… Come può approfondirlo?
“Se l’uomo vuol far luce su sé
stesso e sul suo rapporto con il mondo, deve prescindere dalla congèrie di
elementi che costituiscono il suo pensiero e la sua cultura e rifarsi al primo
fatto della sua coscienza, il più immediato, quello che è perennemente presente.
Solo di qui può giungere a una visione ragionata del mondo… L’affermazione
della vita è l’atto spirituale con cui egli cessa di lasciarsi vivere comincia
a dedicarsi alla sua vita con rispetto per elevarla al suo vero valore.
Affermare la vita è approfondire, interiorizzare ed esaltare la volontà di
vivere… L’etica del rispetto per la vita comprende dunque in sé tutto ciò che
può esser definito come amore, dedizione, partecipazione nel dolore, nella
gioia e nella fatica… Il rispetto per la vita nato nella volontà di vivere
divenuta consapevole contiene, strettamente congiunte, l’affermazione del mondo
e l’esigenza morale. Essa cerca di creare valori e realizzare progressi che
giovino all’ascesa materiale, spirituale ed etica dell’uomo e dell’umanità”
Perché la visione moderna del mondo basata sull’affermazione della vita, da etica che era all’origine, si è trasformata in non etica?
“Ciò si può spiegare soltanto con
il fatto che essa non era realmente fondata nel pensiero. Il pensiero che
l’aveva generata era nobile ed entusiastico, ma non profondo. Esso avvertiva lo
stretto legame esistente fra esigenza etica e affermazione della vita, più che
dimostrarlo. Si professava fedele all’una e all’altra senza esser realmente
penetrato nella loro natura e intima connessione…”
Qual è dunque il principio fondamentale della moralità?
“Un uomo è veramente morale
soltanto quando osserva l’obbligo impostogli di aiutare ogni volta che può
assistere, e quando si fa scrupolo di uscire dalla sua strada per evitare di
danneggiare un essere vivente. Non chiede quanta comprensione meriti questa o
quella vita causa del suo intrinseco valore, e neppure chiede di quanta
sensibilità sia dotata. Per lui la vita come tale è sacra”
“Abbiamo noi bianchi il diritto di
imporre la nostra legge ai popoli primitivi e semi-primitivi? No, se vogliamo
esclusivamente dominarli e ricavare vantaggi materiali dal loro Paese. Si, se
intendiamo sul serio educarli e aiutarli a raggiungere una condizione di
benessere. Se vi fosse per questi popoli qualche possibilità di vivere realmente
per conto proprio, si potrebbe abbandonarli a se stessi… ma a causa del
commercio mondiale essi hanno già perso la loro libertà… i capi, con il denaro
e le armi posti a loro disposizione, hanno ridotto la massa degli indigeni in
uno stato di assoluta soggezione trasformandoli in schiavi, costretti a
lavorare per l’esportazione nell’interesse dell’arricchimento di pochi…”
In più occasioni, soprattutto ricordando le sue esperienze missionarie, lei fa riferimento alla colpa che pesa su di noi e sulla nostra civiltà. A cosa si riferisce?
“Non ci è lecito chiederci se
vogliamo fare del bene ai popoli di laggiù o meno; per noi è un dovere
sacrosanto. E ciò che intraprendiamo per loro non è una buona azione, ma una
espiazione. Per ognuno che ha fatto del male bisogna che sorga un altro che
operi del bene. E quando noi avremo fatto tutto ciò che sta in nostro potere
non avremo espiato che una millesima parte. E questo è il fondamento sul quale
si devono costruire, laggiù, tutti i progetti di ogni opera filantropica”
Sin da giovane ha affrontato il problema della violenza sia agli uomini che agli animali. Qual è la sua riflessione, oggi, dopo aver lottato in favore del bene e del rispetto per la vita? E soprattutto, a chi si sente di appartenere?
“Appartengo alla schiera di coloro
che desiderano conservare giovani i pensieri e i sentimenti, e ho lottato in
nome della fede, della bontà e della verità. Ora che la violenza, sotto la
maschera della menzogna, domina il mondo più crudelmente di quanto abbia fatto
finora, sono ancora convinto che la verità, l’amore, lo spirito di pace, la
bontà e la gentilezza costituiscono la forza che può dominare ogni altra forza
e trionferanno non appena un numero sufficiente di uomini puri di cuore, forti
e perseveranti, penseranno e vivranno effettivamente i pensieri di carità, di
verità, di pace e gentilezza”
Lei considera Goethe la seconda grande personalità, dopo Bach, che maggiormente ha influito sulla sua formazione. Per quali ragioni?
“Mi riconosco, con gratitudine,
discepolo di Goethe. Gli incontri con l’autore del Faust hanno dato alla mia
esistenza un’impronta particolare. Fu lui a sospingermi verso la filosofia
della natura, e la sua profonda umanità mi è stata di impulso alla attività
filantropica”
In tutti questi anni si è occupato, con appropriati studi, di musica e in particolare della vita e delle opere di Bach. Tuttavia, ancora oggi la musica è, nella sua essenza, un mistero. Qual è il suo pensiero in proposito?
“Nella musica l’espressione è
completamente simbolica. La trasformazione in toni di sentimenti e di idee,
anche se molto comuni, rimane un mistero. Le ultime ricerche nella fisiologia
della sensazione musicale non ci aiutano per nulla; con esse si conquista solo
un meraviglioso territorio coloniale per l’estetica della musica, che tuttavia
alla fine non le frutterà nulla. La cosa più importante, il processo nervoso
col quale la sensazione acustica si converte in sentimento, in una disposizione
è e rimarrà inesplicabile”
Da direttore di Seminario e predicatore a medico filantropo, ma anche musicista e scrittore. Una vita spesa per il prossimo sofferente e per la cultura. Può riassumere la sua filosofia in tutto questo?
“La cultura, se è questo che lei
intende sottolineare con la sua domanda, comporta lavorare alla nostra
perfezione e, nello stesso tempo, a quella del mondo; e lo scopo ultimo della
civiltà è la “perfezione” spirituale e morale dei singoli. La cultura è la
somma di tutti i progressi dell’uomo e dell’umanità in ogni settore e sotto
ogni riguardo in quanto servono al completamento spirituale dell’individuo. Ma
voglio aggiungere: cultura vuol indicare ciò che è intellettuale, spirituale,
estetico, morale; e la civiltà racchiude in sé qualche cosa di materiale”
Dott. Schweitzer, un’ultima domanda. Che ne sarà, dopo la sua morte, del suo ospedale privo di igiene, brulicante di capre, dove ha salvato migliaia di vite umane?
“Noi alsaziani siamo longevi. Mio
padre e mio nonno morirono a novant’anni. Io ne ho solo ottantotto. Spero
proprio di farcela. Ma voglio morire ad Adolinanogongo. In Europa non tornerò
più. Chiedo solo di essere sepolto all’ombra di un vecchio dattero, là dove
riposa mia moglie. E che i Galoa e i Pahuin cantino un salmo, quel giorno, per
il loro “fratello maggiore” andato a raggiungere il Grande Oganga Gesù, che
abita in cielo”
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