LA FATUITÀ E L’ILLUSIONE PRODOTTE DA MOLTE STAR
Un susseguirsi di emulazioni e
amenità che nulla hanno a che vedere
con quei valori umani che si discostano dal mero materialismo
di Ernesto Bodini
Si dice, o meglio
si diceva, che il mondo è bello perché è vario. Un detto popolare ormai
secolare ma che ha perso il suo “fascino”, non solo perché non più rispondente
al vero, ma anche perché gli eventi avversi sono talmente infiniti al ritmo
instancabile della quotidianità che si potrebbe ipotizzare una serie di
suddivisioni. Prendiamo ad esempio le ultime generazioni che per emulazione
stimolata da questo o quel protagonista di fama, vanno affermando: «Il mio idolo è Vasco Rossi, piuttosto che
Diego Maradona», e tanti altri ancora… tutti personaggi di spettacolo che
si sono arricchiti grazie ai molteplici tifosi al seguito. Tra questi ed altri
“esaltati” del ludico e del nulla, non ho mai sentito dire: «Il mio idolo è Albert Schweitzer piuttosto
che Madre Teresa di Calcutta»; due esempi di infinita ed instancabile
filantropia (da non confondere con il mecenatismo) che, non solo non si sono
mai arricchiti ma hanno speso la loro vita dedita ad alleviare le pene del
prossimo più indigente e diseredato. Ecco che queste differenze richiamano
l’attaccamento, per molti morboso, ai beni materiali, ludici e lussuriosi
offerti dal progresso con la complicità della eccessiva libertà nel pretendere
e godere ogni cosa possibile… anche ai limiti della legalità. Moralismo? Non di
certo, ma constatazione degna di obiettive rilevazioni del vivere quotidiano
sotto gli occhi di tutti, ma che tutti non vedono o non vogliono vedere. Ma perché
queste considerazioni? Anzitutto per evidenziare l’estrema importanza che si dà
al valore del progresso con tutti i suoi risvolti, inoltre quella che non si dà
nel modo dovuto all’essenza umana e quindi della Persona in quanto tale. Si
pensi ad esempio alle star statunitensi Elvis
Aaron Presley (1935-1977) e Michael Joseph Jackson (1958-2009), due icone della
musica internazionale che sicuramente hanno vissuto nell’opulenza, e le cui
performance hanno creato milioni e milioni di fan tanto da essere idolatrati, e
che ancora oggi molti dei quali ne piangono (letteralmente) la scomparsa, e che
nello stesso tempo idealmente sono “tenuti in vita” tanto da favorire l’immane produzione
di gadget con un florido commercio. È pur vero, si dice, che loro come qualcun
altro hanno avuto una parentesi di dedizione a gesti filantropici; ma tale modo
di far filantropia con il “solo” potente mezzo del denaro a mio avviso è fin
troppo facile e “scontato”; mentre quella che io definisco da sempre
propensione per l’evergetismo ha tutt’altra valenza, a cominciare
dall’intrinseco concetto della spiritualità, ovvero un modo di intendere la
vita e il rapporto umano eludendo ogni riferimento ludico e venale, specie se
in eccesso. Se si vuole meglio concepire queste differenze comportamentali si
provi a ricercare e leggere la copiosa esperienza di vita, ad esempio, del
medico filantropo dottor Albert Schweitzer (1865-1975), peraltro premio
Nobel per la Pace (1952) che ha poi devoluto interamente per terminare la
costruzione del suo lebbrosario. La sua esistenza, durata 90 anni, coadiuvato
dalla moglie Hélèn Bressalau (1879-1957) l’ha spesa per il prossimo, in
questo caso per la popolazione africana del Gabon rinunciando ad una vita
agiata e rifuggendo dalla ridondante etichetta di eroe, precisando: «Non esiste l’eroe dell’azione, ma della
rinuncia e del sacrificio». E a proposito del termine “eroe” in questa
era moderna lo si menziona ad ogni minima azione benevola che chiunque può
compiere, anche chi per dovere professionale che, in questo caso, non è certo
motivo di rinuncia. Ed ecco che lo sfruttamento (senza virgolette) di tale
concetto di eroe crea dei falsi miti con la caduta di certi valori etico-morali
e, le relative conseguenze, non possono che essere la stupidità fatta persona
(senza inziale maiuscola), peraltro nemmeno degna di studio da parte di
antropologi o psichiatri, per non parlare di quella che si può definire
retrocessione del progresso mentale. Ma chi sono io per atteggiarmi con queste
considerazioni? Un divulgatore sociale che, oltre al diritto di esprimere il
mio pensiero e le mie idee (con finalità costruttive), ritengo con questi
esempi di gettare un po’ di luce su quanti esempi di bene ha bisogno l’umanità;
ma per raggiungere un minimo accettabile di quel bene a mio avviso è
indispensabile diffondere continuamente esempi di bontà, dando meno risalto a
notizie e scene “negative” le quali nell’immaginario collettivo,
paradossalmente, fanno più presa rispetto a quelle più positive di carattere
umanitario. Con tutta obiettività bisogna anche ammettere che enti privati vari
(movimenti e associazioni) hanno sostenuto anche economicamente imprese “salva
vita” di immensa portata, un corpus
certamente lodevole al quale si dovrebbe dare un certo risalto privo di
ostentazione, privilegiando lo spirito dell’iniziativa dal punto di vista più
intimistico e spirituale. Alcuni di questi benefattori portano sigle e nomi
rinomati, protagonisti in
prima linea per il bene sociale che solitamente considerano la Persona al primo
posto, individuando prima il problema e poi le necessità materiali. Anche
questi esponenti del sociale possono considerarsi filantropi? È una domanda
impegnativa la cui risposta personalmente la troverei nella profondità del loro
animo prima ancora che nel loro conto in banca.
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