UNA PROTAGONISTA DA RICORDARE
Quando la vaccinazione incontrò un “ostacolo” politico, poi
superato
per la necessaria capillare profilassi e con la generosità di un filantropo
di Ernesto Bodini
Noi giornalisti, scrittori e soprattutto biografi a volte diamo l’impressione di essere spasmodici (e addirittura anche ossessivi) nel ricordare al pubblico la vita e le opere di persone che si sono rese protagoniste con il loro esempio, lasciandoci in eredità valori che sarebbe saggio mettere in pratica. Solitamente tali rievocazioni si onorano “rispettando” le relative scadenze di calendario, ossia in occasione dell’anniversario della nascita, della morte o in relazione ad un episodio dal particolare significato. Con questo articolo, anche se molto è già stato scritto, vorrei ricordare Rosanna Benzi (1948-1991) a trent’anni esatti della sua scomparsa, diventata famosa per aver contratto nel 1962 la poliomielite… nonostante il vaccino orale Sabin fosse già disponibile ma in Italia diffuso a macchia di leopardo e facoltativo: solo nel febbraio 1966 (Legge n. 51) la vaccinazione divenne obbligatoria grazie al senatore socialista Giacomo Mancini (1916-2002), ministro della Sanità dal 1963 al 1964. Questo “ritardo” di circa quattro anni, come più volte è stato ricordato, costò al nostro Paese circa diecimila casi di paralisi e quasi mille decessi, un ritardo politico-culturale (e forse anche ideologico) che ha visto in primo piano il democristiano Camillo Giardina (1907-1985), pediatra e ministro della Sanità dal 1959 al 1962, il quale si mostrò molto ostile al nuovo vaccino; una presa di posizione con l’affermazione-monito (riportata da Il Messaggero): «Prima che i bambini italiani siano vaccinati con virus attenuati, dovranno passare sulla mia poltrona». Fedele a questa convinzione negò l’autorizzazione alla libera vendita, in farmacia, benché l’omonimo scienziato, ovvero il prof. Albert B. Sabin (1906-1993), che lo realizzò, ne fece dono all’umanità non brevettandolo), bloccandone la produzione negli stabilimenti italiani. Questo breve excursus storico per ricordare la parentesi di un dramma del quale la Benzi è stata una protagonista di primo piano perché da quando fu colpita dalla paralisi nel 1962, visse in un polmone d’acciaio nella piccola stanza del Pronto Soccorso dell’ospedale San Martino di Genova sino al termine della sua esistenza. E proprio in questo periodo di pandemia credo che valga la pena rievocare la storia di questa donna coraggiosa che non si è abbattuta di fronte al nemico virus della poliomielite che, pur avendola totalmente paralizzata, ha dato un ulteriore senso alla vita divenendo un simbolo per tutte le persone disabili. Amava la vita, appunto, ed era sempre allegra e ottimista nonostante il virus le avesse paralizzato irreversibilmente i muscoli respiratori. «Nel gennaio 1962 – ha ricordato più volte – avevo portato mio fratello a farsi vaccinare contro la poliomielite. Lo feci contro il mio parere e quello dei miei genitori e di mezzo Morbello (un paesino della provincia di Alessandria dov’era nata, nda). Erano i primi che arrivavano lassù e la gente, un po’ ingenua e molto ignorante, non li vedeva di buon occhio. Mio fratello aveva due anni, e il fatto che fosse così piccolo aumentava l’apprensione di mia madre: “Guai a te se fai una cosa del genere!”, minacciava. Io non mi feci vaccinare e nessuno mi prestò troppa attenzione, perché ero grande: avevo 14 anni». Il 16 marzo dello stesso anno accusava i primi sintomi di paralisi poliomielitica e, da quel momento, ha vissuto in un polmone d’acciaio: un grosso cilindro metallico, color beige (ideato nel 1843 da H. Dalziel) che lei scherzosamente definiva la “testuggine”, o lo “scaldabagno”, pieno di fili e tubi che la facevano respirare. Soltanto la testa sporgeva, appoggiata ad un cuscino. Uno specchio, come un grande retrovisore le permetteva di guardarsi attorno e, nonostante tutto, diceva: «Mi sento liberissima, più libera di tanti altri; perché se sei libero dentro, sei libero sempre».
Quasi 29 anni ad osservare il mondo intero, ma ha subito scommesso contro la morte liberandosi dalle illusioni, rifiutando il dolore, la compassione, il pietismo, ma non la speranza e con essa sempre più coscientemente la voglia di vivere. Ed è sottile il confine, ma difficile da valicare, fra la rassegnazione alla crudeltà del destino, fra il sentirsi vittima e l’essere invece una persona che decide di non lasciarsi sopraffare dalla sventura ma lottare per dare un senso, malgrado tutto, alla propria esistenza. E per queste ragioni ha voluto testimoniare con la sua prima pubblicazione Il vizio di vivere, argomento peraltro oggetto di un film per la TV diretto da Dino Risi, e interpretato dall’attrice e fotomodella Carol Alt. Seguì una seconda pubblicazione dal non meno significativo titolo Girotondo in una stanza, una raccolta di lettere e poesie sui temi dell’handicap, della natura, dell’amore, dei bambini, della solitudine, della disuguaglianza, etc., che costituiscono un coro di tanta gente comune, e non, nel quale Rosanna si inserisce con discrezione; un concentrato di umanità, voglia di vivere e amare, che ognuno dovrebbe essere in grado di far nascere dentro di sè, anche quando si conosce la sofferenza «Non mi consolo mai – ebbe a dire una volta – pensando che c’è gente più sfortunata di me… le sofferenze degli altri non potranno mai farmi bene». Riguardo ai problemi dell’handicap dichiarò in una intervista ad un quotidiano: «Essere handicappati è anche uno stato d’animo. Se si ritiene che io sia handicappata perché non riesco a muovermi e parlo guardando uno specchio, posso dirmi d’accordo, ma se si crede che mi senta meno di un altro, dico che la mia immobilità non basta a farmi perdere per strada le occasioni che mi sono concesse». Sosteneva che per esprimere le idee dei disabili ci voleva una rivista, e da tempo con un gruppo di amici faceva parte di un Comitato per handicappati e, raccogliendo molto materiale, si accorse che la gente aveva molti pregiudizi, come pure i politici trascuravano i problemi dei disabili. In quei tempi si imponeva una visione pietistica e caritatevole in quanto non è un preciso compito sociale garantire a tutti, anche ai disabili, il massimo tenore di vita possibile ma spetta ai generosi, alla carità, alleviare i dolori e le pene di chi soffre. (E a parer mio spetta anche alle Istituzioni intervenire con i necessari supporti logistici ed economici). Per tutte queste ragioni fondò il periodico trimestrale “Gli Altri” così da dar voce a chi non l’aveva, del quale ne divenne la responsabile (il primo numero è stato diffuso in 3.000 copie); insomma una tribuna aperta a tutte le opinioni.
Nell’editoriale
di quel primo numero (gennaio 1976) scriveva: «… la rivista non si rivolge solo agli handicappati e ai loro problemi, ma
vuole occuparsi anche di tutti gli strati sociali emarginati, quindi i
lavoratori, il sottoproletariato, le stesse donne, con i quali gli handicappati
sono legati nella lotta contro ogni tipo di sfruttamento». Una lotta senza
interruzioni, estesa all’abbattimento delle barriere architettoniche,
l’abolizione dell’IVA sulle sedie a rotelle e gli ausilii protesici; ma anche
inchieste su handicap e sessualità e sul trattamento disumano che i malati con
disturbi psichici subivano nelle strutture manicomiali. Una vita ricca di
progetti e di lavoro ma anche di molte amicizie e intense relazioni umane come
si evince dai suoi libri e dalle numerose collaborazioni; una vita autentica,
seppur breve. Alcuni la ringraziavano di essere al mondo sostenendo che, nel
suo caso, è possibile vedere la capacità dell’uomo di tirarsi fuori, di non
soccombere, di imparare continuamente a vivere nelle condizioni poste dalla
vita stessa. Ma a Rosanna non piaceva essere considerata un “simbolo”, e «se c’é qualcosa che si può imparare dalla
mia storia – sosteneva – non è nella
mia disgrazia, ma nella mia vita, nelle cose che ho fatto. Lo stato d’animo di
un paziente è prezioso. Molti anziani muoiono di tristezza, imbottiti di
farmaci che non possono restituire la voglia di vivere. L’agitazione, la
sfiducia e l’abbandono possono compromettere una terapia. Un buon medico deve
amare gli ammalati». Questa sua saggezza le ha fatto conquistare molte
amicizie e intense relazioni umane come si evince dai suoi libri e dalle
numerose collaborazioni. Le avevano chiesto qual era un suo grande desiderio.
Aveva risposto: «Andare sola sulla
spiaggia, in un pomeriggio d’autunno, e fare una lunga camminata sotto la pioggia».
Un desiderio che forse non si è potuto esaudire ma in compenso ha avuto il
pregio di lasciarci una grande eredità: che il suo lavoro avesse un seguito e avere
di lei il ricordo di una persona con pregi e difetti, un po’ matta magari, con molta ironia di sé, che amava le cose
semplici. Nella sua autobiografia Rosanna Benzi ha scritto ancora: «Certo, se domani potessi uscire di qua e
andarmene per strada sarei molto felice, ma sai quanta gente di quella che va
per strada vive meno di me la propria vita? Quanta gente la spreca, o la lascia
passare distrattamente? Io ho imparato a non buttare via niente». Una
lezione di vita per tutti noi, in particolare in questo periodo pandemico in
cui vi sono persone che non concepiscono che oltre all’ossigeno (erogato da un
polmone d’acciaio, da una CPAP o da una semplice mascherina), per vivere
occorre il buon senso e quella ratio che si chiama rispetto per la vita propria
ed altrui.
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