PIU' UMANIZZAZIONE

 

DOLORE E SOFFERENZA 

È sempre utile approfondire ciò di cui si può e si deve parlare

nel sapiente “coinvolgimento” di arte, filosofia e illusione…

di Ernesto Bodini

Può sembrare retorico parlare di dolore e sofferenza, soprattutto in questo periodo? È che cos’é la sofferenza, ad esempio? È una questione seria proprio a cominciare dalla causa principale che generalmente è il dolore, sia esso fisico e/o psicofisico. È un aspetto che coinvolge l’essere umano da sempre e sul quale non bisogna tacere, perché ambedue perpetuano gli eterni quesiti: chi è l’uomo? E perché ci sono persone che soffrono ed altre no? Diverse le considerazioni che si possono fare, come quella del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) che, nella prefazione ad una sua opera affermava: «Dobbiamo parlare solo di ciò di cui non possiamo tacere»; oppure quella del filosofo del linguaggio e delle scienze contemporanee, l’austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951), il quale sosteneva: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Citazioni per la verità richiamate più volte e proprio per questo impongono ulteriori quesiti basilari per qualsiasi esistenza umana: chi è l’uomo nella sua globalità, che senso ha il soffrire, cosa è la morte, chi decide la qualità della vita, e se esiste l’essere il nulla. Da qui si pone l’eterno dualismo sani-ammalati, non sofferenti-sofferenti, come se la realtà del dolore interessasse solo qualcuno per individuare il punto di vista della “solidarietà”, poiché la sofferenza, come situazione limite, è un luogo dove “esplodono” domande che non appartengono a qualcuno, ma all’uomo come tale, a ciascun uomo. Quando si soffre a causa del dolore, specie se in modo insopportabile, quest’ultimo implica talvolta la rottura dei rapporti con la propria psiche, oltre che con il mondo esterno, poiché nell’Essere c’é il timore di non essere più accettati o più amati dai propri cari, o anche dagli amici, condizione in cui si può instaurare una delusione, la preoccupazione di dover dipendere da qualcuno e da qualcosa, oltre all’angoscia di sprofondare nel niente. Ma in buona sostanza, è possibile vincere il dolore? E addirittura è possibile andare oltre? Anche su questi quesiti interviene Nietzsche richiamando la sua opera “La Nascita della tragedia” nella quale il filosofo si interroga sui Greci antichi, un popolo festoso, danzante e amante della vita e, nonostante questo loro modo positivo di porsi in esistenza, perché hanno scritto le tragedie? «I Greci, in realtà – spiegò un prelato ad un convegno sul tema –, erano coscienti che nella vita esiste il dolore, la lacerazione, la tragedia, ma hanno cercato di rendere questa sofferenza un’opera d’arte, un capolavoro, uno spettacolo da teatro; così che la tragedia vitale diventa una tragedia artistica». Ed è forse questa che si potrebbe definire la grande sfida, ossia è possibile che il dolore diventi un’opera d’arte? Ma è ancora Nietzsche a rispondere: «Se noi potessimo immaginare un farsi uomo della dissonanza (che cos’altro è l’uomo, nda), questa dissonanza avrebbe bisogno, per poter vivere, di una magnifica illusione, che coprisse con un velo di bellezza il suo stesso essere». Ma al di là di questo “diversivo” filosofico, sappiamo tutti per provata esperienza che il problema della sofferenza umana implica sia l’aspetto fisico che morale, due “ripercussioni” quasi mai disgiunte tra loro in quanto il dolore fisico agisce più o meno intensamente a seconda della diversa “sensibilità” e della diversa capacità di sopportazione (per la misurazione del dolore fisico vedi la scala unidimensionale), una conseguenza che si ripercuote quasi inesorabilmente sulla psiche e sull’umore con conseguenze sulle manifestazioni emotive. «Esiste a livello  psichico – spiegò in quell’occasione la neuropsichiatra torinese Elena Vergani – un’esperienza del dolore che è una “condizione esistenziale”: lo stato d’animo, la visione pessimistica della vita, la tristezza, il vissuto che consegue ad una perdita, ad un lutto, o all’insuccesso, etc. Ma esiste anche un’esperienza del dolore che è una “condizione patologica”, il cui dolore psichico si percepisce come non legato ad un significato. Ci sono forme del dolore alle quali è alquanto difficile attribuire un’origine, e il dolore più grave che l’uomo possa provare è quello che chiamiamo appunto l’esperienza della depressione-malattia, l’esperienza del “male di vivere”; per non parlare poi delle situazioni limite (psicotiche) in cui il dolore si fa inaccessibile alla nostra parola, ossia una sofferenza morale senza fine». Ma la fase avanzata di malattia è sempre sofferenza? Su questo versante ricordo che è intervenuto l’oncologo torinese Giovanni Bersano, già presidente dell’Anapaca (Associazione Nazionale Assistenza Psicologica Cancro), che ha ricordato i concetti essenziali di stato di salute, invalidità, qualità della vita; sottolineando in particolare l’esperienza di malattia (nel corso della quale cambiano i bisogni come quello di autorealizzazione): «Non ci sono malattie di “scarsa” rilevanza, ma il cancro rappresenta uno stato esistenziale travolgente; una prova esistenziale che si manifesta con l’espressione di tutti i bisogni in cui, come asseriva Aristotele, “divinità” e “natura” non fanno nulla che sia inutile». Ora, se è vero che la volontà di vivere non è un’astrazione teorica, ma una realtà fisiologica con caratteristiche terapeutiche, è palese che la stessa rappresenta  sempre una finestra sul futuro. Essa fa apparire all’individuo tutto l’aiuto che il mondo esterno può dargli e mette questo in connessione con la capacità propria dell’organismo di combattere la malattia, e forse anche quel “male di vivere”.

LA SOFFERENZA A CAUSA DEL COVID-19

Ma di fronte alla persistente pandemia come si presenta il concetto di sofferenza (incluse eventuali forme di dolore) per chi è colpito dal Covid-19? La sofferenza è presente nella biografia di ogni persona, ma il senso, la reazione e il valore che ad essa attribuiamo sono in relazione ad un insieme di aspetti non solo biologici, ma anche culturali. Quindi, la sofferenza anche come dimensione sociale. Ma più che di dolore in senso stretto, in questo caso, secondo la mia esperienza e quella di altri che hanno contratto il virus in forma medio-grave e grave, nella maggior parte dei casi si può parlare di uno stato di sofferenza e di prostrazione proprio per le caratteristiche di questa patologia che, come è noto, sono determinate dalla alterazione di alcune sensazioni fisiche e dei valori dell’organismo, e di conseguenza da uno stato emotivo particolarmente alterato dovuto all’apprensione per l’incertezza sulla evoluzione della patologia. Si tratta di un vissuto più o meno intenso a seconda della sensibilità individuale, ma anche dal contesto della cura e dell’assistenza… subordinata alla durata dell’evento morboso. Ma tale condizione è ulteriormente accentuata dal fatto di non poter avere durante il ricovero alcun contatto con i propri famigliari, un isolamento che può provocare danni psicologici soprattutto negli anziani. Le cosiddette “stanze degli abbracci” presenti nelle Rsa non sono molte (nella sola Lombardia sono 18), ma vi è ragione di sostenere che andrebbero incrementate, e non poco, se non vogliamo continuare ad assistere a decessi per… carenza di umanizzazione: tanto in ospedale quanto nelle Rsa mentre gli operatori sanitari, come ben sappiamo, fanno più del dovuto talvolta “sostituendosi” anche ai famigliari dei ricoverati… magari condividendo qualche lacrima! Sono convinto che attuando gli opportuni accorgimenti a tutela della incolumità di tutti quelli che gravitano nei reparti “a rischio covid-19”, si possa favorire concretamente quella vicinanza tra ricoverati e famigliari, un momento in cui le lacrime si possono asciugare più facilmente e lasciare il posto ad un più radioso e benefico sorriso. Ecco che la sofferenza può essere alleviata ma, come sempre, occorre anche un po’ di buona volontà di chi potrebbe (e dovrebbe) favorire tale iniziativa di avvicinamento affettivo.

La seconda emblematica immagine è tratta da La Repubblica

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