LA VISITA MEDICA “VIRTUALE” ATTRAVERSO LA
DISCUTIBILE INNOVAZIONE DELLA TELEVISITA
La pretesa di ottenere vantaggi e migliorie
alienando l’insostituibile disciplina della Semeiotica, ossia lo studio dei
sintomi delle malattie a contatto diretto con il paziente. Prima di “imitare”
la realtà inglese sarebbe bene riordinare in toto il nostro sistema sanitario
di Ernesto Bodini
In questi ultimi tempi si ha
notizia che si vorrebbe riconoscere e abilitare la cosiddetta “televisita”,
ossia consentire alle Aziende Sanitarie Pubbliche e agli erogatori privati
accreditati e contrattualizzati, di erogare le attività sino ad oggi tramite le
visite mediche tradizionali (“de visu e a contatto fisico diretto con il
paziente”), anche mediante le visite in collegamento video (skipe). Ciò quando
il medico ritiene possano essere effettuate in sicurezza, sostituendo così le
visite tradizionali a tutti gli effetti; inoltre le aziende sanitarie regionali
possono avviare sperimentazioni su servizi di telemonitoraggio e
teleriabilitazione, sostenendo che questo provvedimento pone le basi per
migliorare il modello di visita tradizionale. In Regione subalpina si precisa,
tra l’altro (da una nota del 3 luglio 2020) che «la televisita è uno strumento importante per i pazienti fragili, i
cronici, gli immunodepressi, i disabili e tutti coloro che hanno difficoltà
negli spostamenti… Il progetto di Sanità digitale prende corpo e muove i primi
passi in quanto si intende avvicinare la sanità ai cittadini, con costi e
rischi minori, con la consapevolezza che occorre migliorare la gestione della
cronicità con nuovi strumenti». Ma a parte questa precisazione in ambito
locale, la “allettante” iniziativa (peraltro non recentissima) è di carattere
nazionale, e c’è da chiedersi: che fine ha fatto il concetto della Semeiotica
in Medicina? È risaputo che nello studio dell’uomo sano o malato pochissimi dei
metodi d’indagine della Fisiologia sono applicabili nell’intento di conoscere
lo stato anatomico e funzionale degli organi, e «per raggiungere questo scopo – come precisava Francesco Schiassi (1886-1941),
illustre ordinario di Patologia Speciale Medica e Metodologia all’università di
Bologna – bisogna ricorrere
all’applicazione di metodi come l’ispezione, la palpazione, la percussione e
l’ascoltazione, ma che nello studio del malato hanno la prevalenza su tutti gli
altri perché, nonostante la loro imperfezione, sono gli unici universalmente
applicabili all’uomo malato». Mi rendo conto che tale innovazione sta
emergendo soprattutto in ambiti laddove è presente una maggiore disponibilità
tecnologica ed economica, ma al tempo stesso, anche se non sono un clinico ma
un divulgatore in materia medico-scientifica, vorrei fare alcune considerazioni
che seppur apparentemente scontate non sono del tutto desuete. Anzitutto un
paziente è sempre un qualcosa di più della sua malattia e, per poter curare, un
medico deve sapere soprattutto ascoltare e un ascolto attento è di per sé terapeutico in ragione anche del fatto che tutte le storie umane sono interessanti,
e da qui l’evoluzione della cosiddetta medicina narrativa. Una anamnesi
accurata è certamente qualcosa di più di una sequela di dettagli, ed essa da
sempre rappresenta l’aspetto più importante dell’arte medica. Il tempo dedicato
alla visita (specie se la prima), specialistica o meno, costituisce le
fondamenta per un rapporto umano tra medico e paziente, fondato sul reciproco
rispetto e sulla reciproca fiducia. Molti testi storico-divulgativi precisano che
il primo contatto, quando il medico incontra il paziente, dovrebbe cominciare
con una stretta di mano, spontanea, e magari anche calorosa: un saluto di
benvenuto, come pure un gesto di ospitalità è un segno della disponibilità ad
accettare qualcuno in quanto essere umano. E a questo riguardo c’è chi sostiene
che bisognerebbe scrivere un trattato sul valore diagnostico di una stretta di
mano.
Ma tornando all’atto più
diretto, quello di toccare, ovvero la palpazione, sta diventando sempre più
superficiale poiché la visita stessa si va facendo superficiale… «Questa presa di distanza – ricorda il
dottor Bernard Lown (1921 nella foto), professore emerito di Cardiologia alla
Harvard School of Public Health di Boston (Massachusetts)
– è iniziata 200 anni fa, quando il
medico francese René Laennec (1781-1826) cominciò a utilizzare un tubo di
cartone arrotolato, che poi fu perfezionato nello stetoscopio/fonendoscopio. La
medicina oggi non è più l’applicazione delle mani, ma è costituita dalla
capacità di leggere i segnali emersi dalle macchine. Quello che dobbiamo
deplorare è la perdita dello stretto legame tra medico e paziente». È
quindi evidente che il colloquio non si propone soltanto di conoscere un
sintomo, ma di capire quello che disturba la psiche del paziente. Credo che sia
noto a tutti, quindi anche ai profani, che gli stati emotivi sono fattori di
rischio per le malattie in quanto influenzano le modalità di applicazione di un
dato disturbo, e ne determinano il decorso e la rapidità di guarigione. Inoltre
l’assenza o scarsa attenzione per l’aspetto psicologico impoverisce la medicina
nella sua essenza vitale scindendo la cura dalla guarigione. «L’ascolto – precisa il clinico – è il primo passo per ottenere una diagnosi
corretta ma, come si è visto, non è un esercizio puramente verbale. È
necessario stare attenti alle parole non espresse, alla mimica del viso che può
contraddire quello che si sta dicendo, alle contrazioni involontarie del volto,
a una stretta di mano, e in generale al linguaggio del corpo». E, a questo
riguardo, io non credo che tali atteggiamenti siano totalmente attendibili in
una visita da remoto, men che meno per i pazienti con malattie acute o il
riacutizzarsi di quelle croniche. Del resto, anche come si evince dagli autori
e sostenitori della medicina narrativa, ascoltare la storia del paziente è
l’aspetto più importante dell’arte medica, e il tempo richiesto non è che un
piccolo (ma al tempo stesso consistente) investimento per curare e guarire;
addirittura, va detto per inciso, una storia espressa (specie de visu) è
terapeutica di per sé. Ma poiché è antieconomico passare molto tempo con i
pazienti, in non pochi casi la diagnosi viene fatta per esclusione, con
accertamenti clinici senza fine. E, di questo passo, il sistema sanitario non
potrà migliorare finché il paziente non ritornerà ad essere centrale per i
medici. Il maestro Ippocrate (460-377 a.C.) disse: «Alcuni pazienti, anche se consapevoli che la loro situazione è critica,
ritrovano la salute semplicemente perché sono soddisfatti del medico». Ma
non meno significativa è la fiducia che il medico infonde trasmettendo ottimismo,
aspetto decisamente determinante per una buona pratica della medicina e quindi
dell’arte del curare. Ma l’ottimismo, proprio perché soggettivo, diventa un
fattore oggettivo essenziale teso a liberare l’energia necessaria per plasmare
la propria salute, e a mio avviso, non credo che ciò si manifesti nella sua
concretezza attraverso il contatto a distanza… sono il tono della voce e il
contatto umano diretti che infondono fiducia e ottimismo, appunto. Può fare
eccezione, alla luce della realtà pandemica, tutta una serie di valutazioni
relative a pazienti affetti da patologie croniche, per i quali pre-esiste una
diagnosi e quindi necessitano di un aggiornamento “valutativo” e terapeutico;
oltre a tutti quei casi colpiti da covid-19 per i quali si ritiene immediata
una valutazione… anche a distanza, partendo dal presupposto che la
strumentazione disponibile ne renda il necessario conforto anamnestico e diagnostico-terapeutico.
Quindi quale la realtà odierna, che per lo più la si riscontra in non pochi
casi pur rispettando rigorosamente le debite eccezioni? In tutti i Paesi
industrializzati la medicina ha avuto la sua gloria soprattutto nelle piccole
comunità nei primi decenni del secolo scorso, e mentre nelle ampie aree urbane
in cui risiede la maggior parte della popolazione,
il medico si confronta con un estraneo; ma raramente c’é tempo per i
convenevoli, una stretta di mano o quattro chiacchiere.
Il medico, costretto dagli
orari ma soprattutto invitato a risparmiare ha a disposizione soltanto pochi
minuti a paziente, e nessuna cifra può ripagare i tempi brevi (o mancati) di
una visita o di una cura, sic! Il colloquio generalmente si concentra sul
sintomo principale, che solitamente non mette in evidenza il motivo reale della
visita. Il poco tempo disponibile, inoltre, può essere interrotto dallo squillo
del telefono o da altre intrusioni e/o incombenze… Ecco che allora la visita si
risolve in modo più o meno superficiale come l’anamnesi, e si concentra sugli
organi interessati dal sintomo. Questi incontri, secondo l’esperienza del
dottor Lown, ma anche secondo la nostra realtà “made in italy”, sono brevi e
spesso frustranti e non fanno emergere i problemi più profondi che magari hanno
determinato, direttamente o indirettamente, il sintomo e quindi la possibile
conseguente malattia. «Quando l’anamnesi
è rapida – precisa il dottor Lown – il
medico si perde in un mare di
possibilità, che giustificano il ricorso alla tecnologia; invece,
un’anamnesi attenta, una visita accurata
e poche analisi di routine, forniscono l’85% dell’informazione di base
necessaria per una diagnosi giusta». Ma se proviamo ad immaginare che questa
procedura avvenga in remoto non credo che, soprattutto alla prima visita, si
possa comprendere in modo determinante tutti quei particolari che possano
portare ad una diagnosi completa e corretta. Tuttavia, ben vengano le risorse
della telemedicina, ossia la medicina a distanza attraverso l’uso di mezzi di
telecomunicazione, un sistema di rete che permette al medico, a distanze anche
intercontinentali, di realizzare interventi non tanto diagnostici quanto
terapeutici o di riabilitazione. «La grande
risorsa della telemedicina – sottolinea il dottor Giovanni Russo, autore di
“Il medico – Identità e ruoli nella
società d’oggi” (Ed. Elledici, 2004) – è
la sua capacità di trasportare elettronicamente le più sofisiticate metodologie
clinico-terapeutiche nella aree più remote, sicché il paziente per una
consultazione clinica può usufruire del parere congiunto di diversi tecnici del
settore e non essere costretto a viaggi che possono essere faticosi per il suo
stato di salute o per le sue possibilità finanziarie». Altra cosa, invece, è
il caso di ribadire, è la visita medica “non virtuale” attraverso la quale le
parole scambiate durante la visita, le domande poste, i gesti compiuti sul
corpo del malato, ogni cosa che attesti l’attenzione del medico verso il suo
paziente, si traduce in un effetto positivo sul corso ulteriore della malattia.
È stato lo psicanalista ungherese, Michael Balint (1896-1970), a sviluppare
per primo la teoria secondo cui l’efficacia della terapia in parte è data dalla
relazione fra medico e il malato, definendo questa reazione attiva con il
termine di “rimedio-dottore”. Ma oggi, mi chiedo, quanti pazienti affidandosi
al proprio medico di famiglia (o ad uno specialista) per esporre uno o più
sintomi, oltre ad essere accolti con una stretta di mano vengono da lui
visitati con il classico iter dell’ispezione, della percussione, della
palpazione e dell’auscultazione? Forse non è mai stata fatta una statistica, ma
a voce di popolo ben pochi sarebbero i pazienti che fruiscono di tutte le
attenzioni del caso. Quale osservatore e divulgatore di materie
medico-sanitarie, con un vissuto quasi trentennale anche “sul campo”, ho potuto
constatare che è ancora forte l’esigenza di avere un rapporto diretto con il
proprio medico, sia per farsi visitare direttamente che per mantenere quel
rapporto di “tenera complicità”, a volte preludio ad una attenuazione di
sintomi o ad una possibile guarigione. E questo vale sia nel caso di una prima
visita che per i successivi controlli in presenza di una patologia cronica e/o
invalidante.
In Gran Bretagna, dove il
sistema sanitario ha dei costi molto elevati, i pazienti che rinunciano al
medico del servizio sanitario pubblico, possono ricevere consulti gratuiti tramite
una piattaforma informatica (ossia un app denominata “Babylon Health”), una
sorta di videochiamata intelligente, col medico di una qualsiasi parte del
mondo che dialoga col paziente avvalendosi di un assistente digitale, che gli
suggerisce le domande da porre per fare una diagnosi e una statistica con la
possibile patologia del malato. Insomma, una sorta di operatore di call center.
Ma anche se questa moderna realtà inglese ha già preso piede, che prima di “imitarla”
in versione italiana presuppone una serie di considerazioni
politico-istituzionali e tecnico-finanziarie, personalmente, quale potenziale
paziente, e residente in Piemonte, non mi sottoporrò mai ad una televisita (né in prima istanza e né per le successive), e non sarà certo una politica di
innovazione tendente al risparmio, in osservanza alla spending review e al
dover rispettare il raggiungimento degli obiettivi (od ancor peggio, se
tendente ad “orientare” l’utente verso il privato…), a farmi desistere per
ottenere quella diretta prestazione sancita dal sommo Ippocrate… e da quella
ratio che si chiama umanità. Vorrei concludere che, a mio avviso, i medici che
fanno politica attiva e con un ruolo ben definito, solitamente non dedicano le
dovute attenzioni alla clinica (anche perché taluni ne sono esenti) e men che
meno al rapporto umano disinteressato, tant’è che troppe volte si sente dire: «È un bravo medico, peccato che dedica troppo
tempo alla politica e, per essere dei bravi medici, non si può tenere il piede
in due scarpe!». Solitamente un buon medico è giudicato per le doti di
Ability, Availability e Affability; prerogative di cui il politico, è bene che
si sappia, non è dotato in quanto è uno che non sa niente, e
crede di sapere tutto… ed ancor peggio quando non rinuncia all’essere
etichettato come “onorevole”, termine ormai più che desueto, anche perché molti
di onorevole hanno ben poco se non nulla! E questo fa chiaramente prevedere una
carriera politica!
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