ANATOMIA PATOLOGICA: IL DOVERE DI RIPORTARLA SEMPRE PIÙ ALLA
LUCE
Il patologo è un medico non meno indispensabile di altri specialisti
della Medicina, a cui spesso spetta il compito dell’ultima
diagnosi…
di
Ernesto Bodini
È
noto che lo scibile della Medicina, intesa come scienza (non esatta) e arte
finalizzata alla diagnosi e cura delle malattie, è assai vasto, in quanto molte
sono le specialità che la compongono, inclusa ovviamente la Chirurgia. Tra
queste ve n’è una che forse è poco nota ai più ed è l’Anatomia Patologica che,
personalmente, trovo affascinante sia dal punto di vista della completezza
tecnico-scientifica che culturale. Il suo esponente, il patologo, appunto, è “il medico che il paziente non vede mai”:
così è stato definito per tanto tempo, l’uomo che lavora tra le provette nei
laboratori dell’ospedale, esamina le radiografie, ma soprattutto studia tessuti
sui vetrini, effettua “lugubri” autopsie (note anche con il termine di
necroscopie, o esami post mortem) e ha spesso il compito di dettare l’ultima
diagnosi, capace di salvare una vita. Su
questa figura di clinico dalla non indifferente responsabilità non c’è molta
letteratura divulgativa, se non pochi romanzi pubblicati da qualche editore in
tempi non recenti. Riordinando la mia libreria in questi giorni mi sono
ritrovato tra le mani un coinvolgente romanzo (che ho riletto a distanza di
anni) dal titolo “L’ultima diagnosi”, un condensato del libro The Final Diagnosis di Arthur Hailey, edito da Selezione dal
Reader’s Digest nel 1959, con la traduzione di Magda de Cristofaro. È
l’avvincente storia di un anziano patologo un po’ “sui generis” ambientata nell’ospedale
della Contea di Burlington nel Vermont (USA), un professionista dalla in-discussa
autorevolezza, alle prese con le quotidiane vicende interne al nosocomio come il
rischio di una epidemia di febbre tifoide (che si stava espandendo) per la
mancata sostituzione della lavastoviglie della cucina, la cui vetustà è stata
la causa di veicolo del batterio che ha contagiato parte degli addetti, la non
fornitura di prodotti come il siero Coombs per le analisi di laboratorio interno
all’anatomia patologica (la cui mancanza ha responsabilmente pregiudicato la
vita di un nascituro); come pure la “forzata” (ma necessaria) assunzione di un secondo
tecnico di laboratorio e di un aiuto patologo. Molti i protagonisti che ruotano
intorno alla vita del burbero (ma fondamentalmente buono) patologo e alla
intensa vita dell’ospedale, la cui gestione è fagocitata dai tumultuosi rapporti
e resistenze con l’amministratore e i finanziatori del nosocomio; il tutto in un
clima di tensioni ma anche con parentesi sentimentali, senza distogliere l’attenzione
per i pazienti e per le esigenze economiche e gestionali dell’ospedale
americano. Uno scenario non molto diverso da tante altre raeltà odierne, non
privo di ambizioni (stipendi e carriere) tra i medici di ogni specialità che
fanno da sfondo all’intera storia e, sia pur con alcune fasi drammatiche della
tumultuosa attività ospedaliera, non viene mai meno la collaborazione tra il
personale con particolare riguardo a quel piccolo regno, forse ancora un po’
ignorato, della anatomia-patologica. La storia si conclude con l’ultima e
difficile diagnosi di un sarcoma osteogenico di una giovane infermiera allieva
interna, alla quale verrà poi amputato un arto in quanto la neoplasia si è
rivelata essere maligna; diagnosi a cui è giunto l’anziano patologo (prima di
dimettersi) nonostante i pareri opposti dell’aiuto neo assunto, e di autorevoli
colleghi contattati anche all’estero. La soddisfazione di aver salvato la vita
ad una giovane paziente, ha reso “onore” all’anziano patologo, reo di non aver
saputo (o voluto) adeguarsi alle esigenze del progresso ma nello stesso tempo
certo di aver lasciato in eredità la sua esperienza per un futuro migliore
della anatomia-patologica. Una storia, questa, che personalmente mi ha fatto
riflettere non solo per la piacevole lettura del romanzo che, per molti aspetti
rispecchia la realtà, ma anche per il fatto che alcuni anni fa, per motivi
culturali e professionali, ebbi modo di assistere ad una autopsia in un
ospedale torinese su una persona giovane che era affetta da una malattia
neurodegenerativa ed evolutiva. La mia attenzione non cadde soltanto sulla
delicata tecnica attuata dal clinico settore (che peraltro non mi competeva),
ma soprattutto sull’esame del cervello (per quell’occasione oggetto di studio e
ricerca per i neurofisiologi), che per noi tutti rappresenta l’origine del
pensiero, dei movimenti e delle azioni. E proprio su questo organo così
prezioso e affascinante, mi sono trovato per qualche attimo a riflettere non
solo sulla cosiddetta “ultima indiscrezione” del patologo, ma anche sulle più
immaginabili potenzialità di quest’organo, originate dal volere di un’Esistenza
Suprema, e conseguentemente lasciate… libere, padrone di sé stesse e in balia
degli innumerevoli enigmi che avvolgono l’umanità, di fronte ai quali anche il
patologo si inchina con riverenza… in ossequio alla saggezza latina: “Mortui
docent vivos”, un aforisma che si trova (o si trovava) all’ingresso di
molti anfiteatri anatomici.
E
quasi sempre, appunto, i morti insegnano ai vivi, come potrebbero ribadire
ulteriormente gli anatomopatologi nell’ambito della medicina legale, dediti a
“scrutare” il corpo umano se deceduto per cause dalla implicazione prevalentemente
giuridico-legale. A questo riguardo è recente la pubblicazione autobiografica
dal titolo “Per cause innaturali – Come
ho conosciuto la vita indagando la morte” (Ed. Longanesi, pagg. 396, euro
22,00) del patologo forense britannico Richard Shepherd. Questo professionista
(oggi poco più che sessantenne), non è soltanto il più celebre legale a livello
internazionale, ma è anche un detective a tutto tondo, attratto dalla Medicina
forense sin da quando era adolescente. E sviluppa questo suo percorso
nell’autobiografia raccontando con meticolosità e dovizia di particolari il suo
modo di indagare un cadavere, ricavando il più delle volte preziosi indizi per
capire le cause del decesso, se si tratta di morti violente, oppure no, descrivendo
persino le modalità con cui sono stati effettuati i delitti, e magari anche
l’eventuale “nesso” tra l’aggressore e la vittima. Ma spesso l’autore si è
trovato anche nel ruolo di perito nelle diverse cause in tribunale, entrando
talvolta in conflitto tra l’etica (di cui ne va fiero) e l’incalzante
interrogatorio degli avvocati di parte civile o dell’accusa. La sua lunga
esperienza, oltre ad aver “condizionato” anche la vita famigliare, negli ultimi
anni lo ha visto soffrire di disturbo da stress post traumatico pur non
avvertendone i sintomi e, a riguardo, spiega: «Il disturbo in me non è causato da un corpo specifico fra i 23 mila di
cui ho eseguito l’esame autoptico, né dalla somma di tutti loro. Non è nemmeno
causato da una catastrofe particolare su cui io abbia contribuito a fare
chiarezza, né dalla loro somma. È causato, nella sua totalità, da una vita
trascorsa a fare da testimone diretto, a nome di tutti – tribunali, familiari,
pubblico, società – alla disumanità dell’uomo verso i suoi simili». I molti
casi emblematici (come tanti altri) affrontati da questo professionista, quali
il massacro di Hungerford (1987), la morte della principessa Diana (1997), e
l’attentato dell’11 settembre 2001, sono il frutto di un notevole apprendimemto
sotto la guida di medici esperti, ma anche della sua innata capacità di gestire
le emozioni; un mix che gli ha aperto la strada per una brillante carriera, ma
soprattutto, a mio avviso, il bisogno-dovere di coinvolgere il pubblico con la
sua storia all’interno di un universo ancora troppo poco conosciuto. E come
asserisce ironicamente il patologo torinese Lorenzo Varetto, i cadaveri sono
gli unici di cui fidarsi. E, all’occorrenza, il patologo legale incarna alla
perfezione il suo physique du rôle.
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