MORTO A ROMA SERGIO ZAVOLI,
POLIEDRICO NELLA CULTURA E NEL SOCIALISMO
Una delle ultime firme più
prestigiose del giornalismo italiano, un intellettuale che merita di essere negli
Annali della più rinomata cultura. Tra le molte interviste, non meno significativa
quella al nobel per la Pace Albert Schweitzer
di Ernesto Bodini
Un altro, tra gli ultimi padri
della cultura e del giornalismo italiano, e con ampi riflessi internazionali,
se n’é andato con quel garbato silenzio, senza particolari clamori. Si è spento
a Roma all’età di 96 anni Sergio Zavoli, imponente figura fisica ma soprattutto
interiore, il "socialista
di Dio", come lo chiamavano, prendendo spunto dal titolo di un suo libro; un condottiero di importanti
reportage e comunicatore con pochi eguali. Molte le sue tappe in fatto di
carriera professionale, e anche in politica, la cui conoscenza darei per
scontata, come pure la sua vasta produzione e la sua esperienza accompagnate
dal tratto incisivo e puntuale, come si evince anche dalle molte interviste in
giro per il mondo. Fra queste mi preme ricordare uno stralcio di quella fatta ad
Albert Schweitzer (1875-1965), medico-filantropo e Premio nobel per la pace nel
1952, che lo ha raggiunto in Gabon nel luglio 1965 pochi mesi prima della sua morte, tratta dal Diario di un cronista dal quale
evidenzio i passi più significativi centrati sul valore dell’esistenza. Al
protestante più critico del protestantesino liberale, uno fra i cristiani più
aristocratici e francescani del tempo d’oggi, il filosofo pervaso di umanesimo
e tuttavia in ritardo sulla storia di prodigiosi dilemmi, Zavoli osservò: Qualcuno sostiene che
la sua è una predicazione di natura ascetica, l’accusano di essere un benefattore
provvidenziale, di rimanere chiuso nel suo esemplare caso umano, di non capire
una solidarietà applicata con metodi più scientifici: un mistico, insomma. A questa acuta osservazione,
a mio avviso dall’evidente intento di conoscere nel profondo l’animo del
patriarca confinato tra i lebbrosi del Gabon, Schweitzer rispose: «Anche ciò che è mistico, animandosi, può
diventare azione. Non credo al misticismo chiuso in se stesso, al misticismo
che si contempla. Sono quindi convinto di essere un mistico medievale che
rinuncia a capire il mondo, ma ce n’é un altro, invece, in grado di raggiungere
e affermare valori etici, secondo il quale tutto ciò che esiste intorno a noi è
vita e volontà di vivere. Si vorrebbero dire e fare, durante la nostra vita,
tante cose giuste al tempo giusto. Spesso, con vergogna, ho mormorato sopra una
tomba, parole che avrei saputo dover dire quando ancora, forse, sarebbero state
capite. La vera lebbra del mondo è quella di non saperla curare in tempo ».
Le hanno rimproverato
di sentirsi fratello, ma “fratello maggiore” dei negri; di amarli, ma nel loro
ambiente, di soccorrerli, ma in nome della sua morale, della sua religione,
della sua filosofia: cioé predicando. È così?
«Quando ho detto loro “sono vostro fratello, ma un fratello maggiore”,
non ho voluto affermare, così semplicemente, un principio di superiorità, ma
prendermi invece sulle spalle il peso, come ritenevo indispensabile, di una mia
responsabilità. Quando chiesi di aiutarmi a costruire l’ospedale nella foresta,
mi servivano le loro braccia e dovevo mostrarmi sicuro di avere il diritto di
chiedere il loro aiuto. Innalzai le pareti del primo capannone, ricoverai i
primi sedici malati, poi spedii i loro familiari a far legna per costruire i
letti…»
Lei ha tante volte
parlato di “volontà di vita”, e di “rispetto della vita”. Potrebbe trattarsi di
uno stesso pensiero. Ma nei confronti di ciò che è ingiusto e assurdo, e che
occorrerebbe aggredire e sconvolgere, qual è il suo atteggiamento?
«Quando ho pronunciato questa frase che lei mi ricorda, ho inteso dire
che la nostra volontà di vivere, in sé sacrosanta, deve tuttavia rispetto ad
ogni altra vita, per infima che sia. E questo che pensavo, e che penso»
Lei parrebbe non
credere a una forma di vita dal momento che, sono parole sue, non ucciderebbe
un microbo per non turbare l’inviolabile ordine dell’universo. Ma a quale
condizione, in realtà, si può venire in conflitto con la natura, dal microbo
all’uomo?
«Ecco, io sono del parere che non dovrebbero esservi condizioni per
aggredire la condizione stessa alla quale, ricordiamocene tutti, dobbiamo la
nostra vita. Poiché la natura e chiunque la abiti si danno un senso l’un
l’altro, prima di aggredire ricordiamoci che la nostra è comune, dal principio
alla fine»
Lei sembrerebbe al di
fuori o al di là dei bisogni razionali e indilazionabili dell’uomo, ma in quale
misura le rivolte sociali, le idealità aggressive hanno collaborato per una migliore
sorte dell’uomo?
«È una domanda per provocarmi, ms io non so risponderle… Per mancanza di
esperienza, o di vocazione, se preferisce! Credo in ogni caso che una volontà
aggressiva, per essere utile, debba avere come principio e come fine una sicura
forza di amore…»
Noi, con la nostra
civiltà, dottor Schweitzer, stiamo andando sulla luna; secondo lei, in realtà,
dove andiamo?
“Non sarà la civiltà a sbarcare sulla luna, ma il nostro orgoglio. Non
potrebbero, del resto, sfuggire alla gravità della terra le innumerevoli cose,
assai pesanti, che qui ancora dobbiamo risolvere…”
In quest’epoca tutta
votata ai miti dell’intelligenza, quale altra parte dell’uomo va perdendosi?
«Posso risponderle che il destino dell’uomo è quello di diventare sempre
pià umano… Sembrerebbe quello di diventare sempre più umano… Sembrerebbe, a
prima vista, un programma addirittura superfluo come se questo destino fosse
una fatalità, e invece siamo lontani da Dio!»
E come riuscirà,
l’uomo, a diventare più umano?
«Sacrifichiamo, per esempio, il mito della forza. Io ed Einstein ci
volevamo bene; fu lui a spiegarmi quale immane disastro l’umanità stava
confezionando con le sue mani. Ho fatto delle conferenze, qua e là nel mondo,
impressionando qualcuno, convincendo nessuno, forse. Come i due famosi
aeroplani di Follerau, le mie parole sono già finite in mezzo alla roba vecchia…»
C’é un’acqua, lei ha
detto, che prima o poi ripulisce tutto. È contento della sua vita, di come l’ha
spesa sull’Ogooué?
«Una vita va spesa in ogni caso e vorrei che la mia fosse stata spesa,
prima di tutto, e poi, possibilmente, spesa bene. Dite pure delle mie
manchevolezze… Se finalmente non diremo cose che a qualcuno dispiaceranno, non
diremo mai per intero la verità…»
Questa, è solo una sintesi dell’intervista,
frutto di una serie di appunti, spesso disordinati e successivamente riordinati
per una trasmissione televisiva, dalla quale emerge uno Zavoli dallo stile
giornalistico ben distante dalla ricerca di uno scoop, ma con l’acume
dell’approfondimento e nello stesso tempo del rigoroso rispetto per un “vate”
della filantropia e dell’etica. Un modo di fare informazione che dovrebbe
essere proprio di giornalisti e scrittori, rifuggendo da inutili competizioni e
ambiziose apparizioni perché per raccontare una storia e la vita di un
personaggio, non deve venir meno l’intima percezione dell’esistenza propria ed
altrui. Il tutto condito da una buona dose di umiltà e senso critico per non
banalizzare troppo la sacralità della vita e della morte. E l’eredità di Sergio
Zavoli dovrebbe far lezione alle attuali e future generazioni.
La
foto in alto è tratta da Maimone Comunication, quella in basso dell’epoca che
ritrae Zavoli e Schweitzer, fa parte dell’archivio biografico dell’articolista
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