IL
MIRACOLO DELLA SCIENZA E DELLA VITA
All’ospedale
pediatrico Bambino Gesù di Roma riuscito
l’intervento
di separazione delle due siamesi africane
di
Ernesto Bodini
Con
il successo dello straordinario intervento neurochirurgico avvenuto
all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma si pensa già al “miracolo”, non
solo della scienza ma anche della vita. È infatti di questi giorni la notizia
che due gemelline siamesi del Centrafrica unite dalla nuca e gran parte del
sistema venoso in comune, sono state separate ad opera di una èquipe di 30
professionisti tra medici e infermieri. Si tratta di un caso scientificamente
definito “craniopagi totali posteriori”,
ossia una tra le più rare e complesse forme di fusione cranica e vascolare.
L’ardita operazione ha richiesto oltre un anno di preparazione e di studio con
l’ausilio di sistemi di imaging avanzato e di simulazione chirurgica, seguita
da ben tre interventi di cui l’ultimo (per la separazione definitiva) è
avvenuto nel giugno scorso della durata di oltre 18 ore. Le pazienti, di nome
Ervina e Prefina, che hanno appena compiuto 2 anni, sono tuttora ricoverate nel
reparto di neurochirurgia dell’ospedale pediatrico romano, in due lettini l’una
accanto all’altra assistite dalla loro mamma. Ma quale l’origine di questa
fantastica realtà dal lieto fine? Secondo quanto riportano vari quotidiani, nel
2018 la presidente del Bambino Gesù, Mariella Enoc, che era in missione in
Centrafrica nella capitale Bangui per seguire i lavori di ampliamento della
struttura pediatrica voluta da Papa Francesco, ha incontrato le due
gemelline appena nate e ha deciso di
farsene carico portandole a Roma, per dare loro maggiori possibilità di
sopravvivenza. Da quel momento si è attivato un complesso lavoro di valutazioni
e di organizzazione, peraltro ampiamente discusso a livello internazionale, in
particolare a Nuova Delhi (India) dove
nel febbraio 2019 si è tenuta la prima conferenza mondiale. Il 5 giugno di
quest’anno l’operazione definitiva e oggi, ad un mese dall’intervento, il
decorso delle due bimbe è molto soddisfacente anche se dovranno affrontare un percorso
di neuroriabilitazione con la prospettiva, ormai certa, di condurre una vita
normale.
Una
ulteriore “sfida” per la scienza che ha prodotto in questi ultimi 30 anni altri
3 casi di separazione di siamesi, oltre a quello italiano del 1965 che ha
riguardato due sorelle piemontesi di 7 anni, Giuseppina e Santina Foglia (nella
foto prima dell’intervento), unite dai bacini nella parte ossea sacrale, oltre
ad avere in comune l’apparato urinario e genitale. Il 10 maggio furono separate
all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, e l’intervento risultò
essere il primo di quel genere eseguito con successo, cui parteciparono 24
medici: i chirurghi coordinati dal prof. Luigi Solerio e gli anestesisti dal
prof. Enrico Ciocatto. Ma un altro evento che suscitò un certo scalpore
riguarda il caso della siamesi iraniane di 29 anni, Ladan e Laleh Bijani, unite
da un’unica scatola cranica ma con due cervelli distinti, sottoposte nel luglio
2003 ad un tentativo di separazione chirurgica. Ma fu un “miracolo mancato” sia
perché l’intervento venne considerato avveniristico (noto come “Operazione
Speranza”) sia perché non ebbe successo tanto che in seguito la comunità
scientifica, religiosa ed esperti di etica ma anche la gente comune, si
chiesero se fosse davvero necessario osare tanto. Per queste ragioni credo che
valga la pena ricordare l‘episodio. L’intervento avvenne al Raffles Hospital di
Singapore da 28 medici e 100 infermieri specializzati. Come in tutti in questi
casi (scrissi a suo tempo commentando quell’evento) non mancarono polemiche e
dibattiti senza riuscire a dare un orientamento univoco a ciascuna versione. È
vero che le due sorelle volevano separarsi con tanta convinzione nonostante
sapessero della scarsissime possibilità di riuscita, piuttosto che continuare a
vivere l’una dipendente dall’altra; come pure è vero che un intervento
chirurgico pionieristico avrebbe aperto la strada (in caso di riuscita) a nuove frontiere per
la medicina e per la neurochirurgia in particolare.
Dal
punto di vista medico i pareri non furono del tutto concordi. Secondo alcuni
l’intervento non era da fare anche se le pazienti (nella foto prima
dell’intervento) l’avessero chiesto con tutta l’insistenza che la loro
sfortunata simbiosi giustificava… A conferma di questa tesi un medico italiano
(oggi scomparso) affermò: «Un bravo
chirurgo deve sapere qual è il limite oltre il quale non è lecito spingersi:
quando un intervento comporta un rischio tanto elevato da dare al medico il
potere di decidere fra la vita e la morte, scatta un divieto etico; né possono
essere le sue capacità tecniche a conferirgli un ruolo di arbitro della vita
altrui perché, comunque, non gli compete». Secondo un altro medico
l’intervento di separazione delle gemelle non aveva invece nessun ostacolo
etico in quanto maggiorenni, sapevano a cosa andavano incontro e per questo
hanno dato il loro consenso. «Difficile
credere – precisò quest’ultimo – anche
a chi suggerisce che i medici abbiano sottovalutato le difficoltà, perché
l’équipe preposta all’intervento era formata da professionisti di diverse
discipline, sicuramente preparati». Un intervento indubbiamente difficile,
capace di assorbire tutte le energie degli operatori ai quali veniva ancora da
chiedere: valeva proprio la pena? «Quando
si affrontano interventi di questo genere – spiegò Eugenio Santoro,
presidente emerito della Società Italiana di Chirurgia ed esperto in interventi
di chirurgia estrema – la richiesta viene
quasi sempre dal malato. La gemellarità di questo tipo è insopportabile: non si
può vivere attaccati a un’altra persona. Deve esistere, comunque, un privato
per ognuno, ma in queste condizioni è impossibile. Dal punto di vista clinico
quando in questi casi vengono coinvolti il sistema neurologico, respiratorio o
quello cardiocircolatorio, le probabilità di riuscita diminuiscono di molto. Mi
inchino in ogni caso al coraggio e alla tenacia dei colleghi chirurghi che
hanno operato, sul confine della morte, per tante ore di seguito». Per
Francesco D’Agostino, allora presidente del Comitato nazionale di Bioetica, le
gemelle hanno fatto bene a tentare in quanto l’operazione aveva una plateale
finalità terapeutica: «Le ragazze erano
adulte, colte e quindi pienamente consapevoli del rischio che affrontavano. I
dubbi naturalmente affiorano perché l’esito è stato infausto. Ma lo dobbiamo
accettare, partendo dal presupposto che la Medicina ha sempre un risvolto
tragico. Guai a pensare che sia onnipotente». Il cardinale Ersilio Tonini
(1914-2013) sostenne che è fondamentale avere la certezza che le due
ragazze avevano chiesto di essere
operate, nella speranza di una vita migliore. In particolare per quella
circostanza affermò: «Questo ci dà la
garanzia che la loro non era una ricerca di morte liberatoria, ma il tentativo
di raggiungere un’esistenza più dignitosa. Non siamo di fronte a un suicidio
programmato. E anche i medici hanno tentato, con la speranza di una buona
riuscita. Non vedo in questo nulla di male».Vorrei concludere citando un
passo di Giuseppe Moscati (1880-1927), noto come il medico dei poveri (oggi in
odor di Santità), il quale sosteneva: «Beati
noi medici, tanto spesso incapaci di allontanare una malattia, beati noi se
ricordiamo che, oltre ai corpi, abbiamo di fronte delle anime immortali, per le
quali ci urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi: lì è la
soddisfazione e non nel sentirci proclamare risanatori di un male fisico,
quando per lo più la coscienza ci ammonisce… che il male guarì da sé».
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