L’OPERA DEGLI SPECIALISTI DEL SONNO ARTIFICIALE E DELLA
RIANIMAZIONE
Sul fronte delle emergenze e senza sosta, coadiuvati da colleghi
di altre specialità e da infermieri
particolarmente dedicati. Una dedizione di èquipe non priva di sacrifici e
rinunce…
di Ernesto Bodini
Non
è certamente etico voler mettere a confronto le varie discipline mediche poiché
tutte sono utili e indispensabili, in quanto votate a lenire le sofferenze
umane e spesso a salvare la vita dei pazienti. Ma vi sono particolari
circostanze ed eventi che richiedono l’intervento di alcune particolari specializzazioni
mediche, come nel caso di catastrofi o epidemie che sono causa di gravi
situazioni patologiche in cui l’opera degli anestesisti-rianimatori, ad esempio,
è fondamentale e insostituibile sia in sala operatoria che in terapia intensiva
(rianimazione). L’epidemia/pandemia da SARS-CoV-2 che sta coinvolgendo diversi
Paesi del pianeta, ha come responsabile il virus che intacca prevalentemente le
mucose delle vie respiratorie e si replica nelle basse vie aeree e, i polmoni,
sono gli unici organi interni del nostro corpo in costante contatto con
l’ambiente esterno attraverso l’aria che respiriamo. Il trattamento dei
pazienti infettati da questo virus varia a seconda delle condizioni, generalmente
è indicato il ricovero in reparti di malattie infettive e nei casi più gravi,
in cui è compromessa la funzione respiratoria, il ricovero nei reparti di
rianimazione e sottoposti ad assistenza di tipo intensivistico e pneumologico
e, se il caso, sottoposti a procedure che vanno dalla ventilazione non invasiva
a pressione positiva alla ventilazione meccanica in tempi brevi. Ecco che, per
queste procedure, entrano in campo gli anestesisti-rianimatori (coadiuvati da
infermieri addestrati nel gestire pazienti in terapia intensiva) che decidono
il tipo di trattamento più idoneo. Secondo le note indicazioni una procedura
riguarda la ventilazione meccanica nei pazienti con insufficienza respiratoria
acuta a basso livello di ossigeno nel sangue, il cui obiettivo è migliorare
l’ossigenazione nel sangue e supportare i muscoli respiratori, e la
ventilazione meccanica può essere non invasiva o invasiva. La ventilazione non
invasiva (con il paziente cosciente) prevede l’uso di diverse maschere facciali
o di una sorta di casco collegati al ventilatore, e tra i vantaggi consente un
precoce supporto ventilatorio rendendone
più facile l’applicazione, riduce la necessità di sedazione e di
monitoraggio intensivo, e può essere applicata anche al di fuori della Terapia
Intensiva. La ventilazione invasiva, che vede il paziente ricoverato in terapia
intensiva, prevede l’intubazione ossia l’inserimento di un tubo nella trachea
(intubazione endotracheale) in modo da convogliare l’aria nei polmoni grazie al
ventilatore a cui è collegato. La proceduta viene eseguita in anestesia
generale e il paziente rimane sedato finché le sue condizioni non migliorano.
Come è noto, la ventilazione meccanica viene anche utilizzata durante le
procedure chirurgiche per somministrare farmaci anestetici e controllare
attentamente i livelli di ossigeno e anidride carbonica nel sangue durante un
intervento chirurgico. Le tappe storiche che hanno caratterizzato il ruolo di questi
specialisti si perdono nei tempi. Una per tutte durante l’epidemia della
poliomielite, soprattutto prima della metà degli anni ’50, quando i vaccini non
esistevano ancora, e una delle peggiori epidemie fu quella scoppiata a
Copenaghen nel 1952 dove all’ospedale Blegdam venivano ricoverati fino a 50
malati (soprattutto bambini) al giorno, quasi tutti con i polmoni intasati e
bisognosi di essere aiutati nella respirazione. A quell’epoca non c’erano
sufficienti polmoni d’acciaio o panciotti pneumatici, e ben si sapeva che gli anestesisti
erano dovuti diventare esperti nel mantenere attiva la respirazione durante gli
interventi chirurgici, ma nessuno aveva mai pensato di avvalersi della loro
esperienza al di fuori della sala operatoria.
Il
primo paziente ad essere trattato fu una adolescente di 12 anni infettata dal
virus e con grave difficoltà respiratoria. Fu sottoposta a tracheotomia e le fu
aspirato il liquido dai polmoni ed applicato al collo un tubo a Y collegato ad
una bombola di ossigeno e un pallone respiratorio detto ambu (nell’immagine l’ambu
in versione moderna). In breve il corpo della paziente si rilassò e la cute
riacquistò il suo colorito naturale, e tale applicazione restò in situ finché
fu in grado di respirare autonomamente. Da questo primo caso tutti i nuovi
pazienti (318) con paralisi respiratoria furono sottoposti a tracheotomia ed
applicata la stessa apparecchiatura per la respirazione. Per questi interventi
di emergenza assai utile fu l’opera volontaria di studenti in Medicina di
Copenaghen per comprimere l’ambu, alternandosi in turni di otto ore. Con i
vecchi respiratori erano deceduti 26 pazienti su 30, mentre con il nuovo
sistema ne sopravvissero 200 su 318, e 175 riacquistarono sufficiente capacità
respiratoria tanto da poter essere dimessi dall’ospedale. Questa meotodologia
rianimatoria fece scalpore e la classe medica si rese conto di avere una nuova
risorsa nella ventilazione polmonare artificiale ad opera degli anestesisti. Da
allora l’anestesiologia ha fatto notevoli progressi e questi specialisti (che
oggi hanno delle vere e proprie competenze nell’ambito della rianimazione)
intervengono in molteplici situazioni: praticano la ventilazione artificiale a
persone che hanno subito un infarto con arresto cardiaco; ai colpiti dal tetano,
che non riescono a respirare per gli spasmi muscolari; alle persone che hanno
preso una eccessiva dose di barbiturici e sono state colte dalla temporanea
paralisi respiratoria; intervengono inoltre durante il parto (parto analgesia)
o nei casi di tentato suicidio, etc...
(Peter
Safar (1924-2003 nella foto) è l’anestesista austriaco di origine ceca al quale
viene attribuita la pionieristica rianimazione cardiopolmonare. Nel 1952, a
Lima, fondò il primo Dipartimento universitario di Rianimazione. E nel 1958
negli Stati Uniti istituì la prima Unità di Terapia Intensiva. Ma va anche
detto che da oltre un trentennio l’anestesista-rianimatore solitamente è il
medico che fa parte dell’équipe del “118”, sia sull’Elisoccorso che sulle ambulanze
medicalizzate. E altrettanto fondamentale è il suo ruolo in sala operatoria
perché in aggiunta ad una vasta gamma di nuovi anestetici e a controlli
elettronici, ha fatto diventare comuni molti interventi chirurgici un tempo
considerati impossibili… o quasi. E questo, dal 1846, quando l’anestesia
chirurgica fu praticata per la prima volta, con l’etere, dal dentista americano
William Morton. Ma questi specialisti, che si potrebbero definire “angeli
custodi” dei pazienti inermi, sono anche terapisti del dolore (il dolore
cronico è una malattia) e il paziente ne può essere alleviato, e se lo stesso
non guarisce migliora sensibilmente sino ad ottenere una qualità di vita
accettabile… Quindi, quella degli anestesisti-rianimatori, è una categoria sempre
più conosciuta anche dai più ma riportarla alla luce di tanto in tanto, anche
non solo nei casi di emergenza, può contribuire al loro incremento perché ancora
oggi, se ne ravvisa la necessità di incrementare l’organico con un maggior
numero di accesso alla specializzazione.
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