L’IMPAREGGIABILE VALORE DEL MEDICO CHE SA
PRENDERSI CURA DEL PAZIENTE
Dal
lontano paternalismo alla sempre più attuale relazione medico-paziente
e
paziente-medico, una sorta di complicità per giungere ad una proficua alleanza
terapeutica. Un figura dedicata che non sempre si ha la possibilità
di
conoscere e avvicinare per poter fruire delle sue preziose prestazioni
di Ernesto Bodini
Ogni giorno, da sempre, è dimostrato
scientificamente che la vita tende ad essere sana, integra; ma quando avviene
l’opposto, ossia quando si esprime con un evento morboso sia all’inizio che nel
corso della stessa, bisogna fare i conti non tanto con la fisiologia quanto con
la patologia i cui effetti, a seconda della gravità, condizionano l’esistenza
dell’individuo e spesso anche chi gli sta accanto. Ecco che allora si delinea
la figura del medico preposto alla sua cura, supportato da una personalità che
ne aumenti la sua efficienza terapeutica fisica e morale. Ma la sua personalità
deve integrarsi con quella del suo assistito per addivenire ad una alleanza che
ne favorisca il miglior approccio terapeutico. Di fronte alla malattia il
medico non deve rimanere semplice “spettatore” del dramma umano provocato da
questo o quel disturbo, la cui responsabilità va oltre la pura tecnica poiché
la malattia impegna, sempre, tutta la persona, tanto sotto l’aspetto fisico
quanto sotto quello psicologico. Tutto ciò in considerazione del rispetto della
dignità di chi soffre, specie se indifeso e indigente. Ma con l’avvento della
medicina iper-tecnologizzata talvolta il paziente è visto come “oggetto”, in
quanto la relazione tra medico e paziente si “avvievolisce” per lasciare il
posto a quella dello specialista nei confronti di un organo malato, e negli
ospedali (ma soprattutto sul territorio) talvolta il paziente diviene una
entità numerica o quasi… come avviene, ad esempio, di fronte alle Commissioni
medico-legali per il riconoscimento delle invalidità. E va da sé che il
paziente esige il rispetto per la propria persona e che il rapporto con il
medico sia più umano e soprattutto di comprensione. Emergono così quei sacrosanti
diritti che vanno dal rapporto interpersonale con chi lo cura, al diritto ad
essere informato in modo semplice e inequivocabile; dal diritto di essere
consultato prima di ogni decisione terapeutica, al diritto della privacy sua e
dei suoi famigliari; dal diritto al rispetto del pudore al diritto del rispetto
delle proprie convinzioni sia etiche che religiose. Ma oggi, nel concreto,
avviene tutto ciò? E con quali limiti? Secondo la mia esperienza di
“ospite-osservatore” e divulgatore di molte realtà medico-sanitarie (ma anche
di ex paziente), la realtà è molto eterogenea (relativamente alla regione
subalpina, e in particolare Torino e provincia) ossia i migliori rapporti
medico-paziente e paziente-medico sono presenti a macchia di leopardo, in
quanto non tutti i pazienti si trovano nella circostanza di essere curati prima
con il dialogo e poi che le terapie. Ma oggi nella collettività si va sempre
più imponendo la convinzione che la relazione ha un potere terapeutico, la cui
impostazione da parte del medico parte dalla sua attenzione alla storia
individuale del malato. È quello che si può definire l’apporto empatico fatto
di riti, parole (a volte molte proprio perché necessarie, da qui la medicina
narrativa), contatto visivo e soprattutto basato sulla fiducia e non di meno
sulla speranza ispirate proprio dal medico, sia esso ospedaliero o territoriale.
Il versante odierno è l’esigenza della cosiddetta presa in carico in toto, con
un buon ascolto seguito da reciproche riflessioni per giungere ad una intesa
comune: terapia dell’anima, prima, del corpo, poi. Oggi non è più proponibile,
e tanto meno fattibile, il paternalismo
della medicina tradizionale, ossia che solo il medico sia in grado di esprimere
il giudizio ultimo sul da farsi; ma è sempre più preferibile l’idea di una medicina
basata sulla relazione medico-paziente volta all’impegno di prendersi cura per
addivenire ad “un’alleanza terapeutica”. Un modus
operandi supportato dalle cosiddette virtù del professionista: dedizione
coraggiosa, senso di responsabilità individuale, capacità di comprensione e
comunicazione umana, ma anche indipendenza da pressioni economiche e
corporative ben lontane da ogni forma di compromesso… E oggi sono sempre più i
pazienti che ambiscono al medico a loro “più congeniale”, affrontando un
pellegrinaggio alla ricerca (con po’ di fortuna, e qualche aiuto esterno…) dello
specialista che ponga fine alla loro odissea per avere una diagnosi pressoché
certa. Ma una volta incontrato il “luminare” di riferimento come dovrebbe
svolgersi una visita medica? Senza aver la pretesa di insegnare un mestiere che
non è il mio, credo comunque di poter sostenere che un dialogo dedicato (e non
di pochi minuti specie se alla prima visita) è il fondamento della visita
medica, e in taluni casi le lancette dell’orologio dovrebbero fermarsi o
rallentare la loro corsa per rispondere alle aspettative del paziente, aprendo
di fatto il canale della comunicazione nel massimo rispetto del suo pensiero
che talvolta ha dietro di sé un vissuto famigliare e sociale… magari con
progetti e preoccupazioni.
In buon sostanza, immagino che sia il
credo di tutti, ormai, che si deve curare il malato e non la malattia; ancor
meglio se il professionista che si ha di fronte è paragonabile ad un medico
“montessoriano” in grado di attivare le risorse spirituali e intellettuali di
questo o quel paziente. Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900,
nell’immagine) sosteneva che «il malato
soffre più dei suoi pensieri che della stessa malattia», e ciò non può che
essere vero anche se taluni ancora si chiedono se un medico è completo se
unisce tecnica e umanità e che bisogna dedicare tempo al malato e dargli la
possibilità di aprirsi. Il medico di riferimento, sia ospedaliero che
territoriale, libero professionista oppure operante nel servizio pubblico, deve
(o dovrebbe) essere luce e guida anche per superare quegli ostacoli, come la
spending riview e gli obiettivi da raggiungere, che spesso si antepongono alle
esigenze inderogabili del paziente. Sintetizzando, a mio avviso per sua natura
il medico dovrebbe essere “l’uomo della speranza”, un richiamo a Sant’Agostino
(354-430) il quale sosteneva che «La
speranza è il presente del futuro», la stessa che per il paziente si
trasforma in fiduciosa attesa; un’attesa che viene appagata dall’esercizio
della Medicina che implica i concetti di cura competente, cura interessata,
cura attenta, cura premurosa, cura amichevole, cura servizievole, cura custode.
Un insieme di atteggiamenti che fanno del medico l’uomo più completo, in grado
di riconoscere il valore assoluto dell’esistenza umana e di essa il massimo rispetto.
Volendo essere un po’ campanilisti, nel nostro Piemonte sono sempre più
individuabili medici “con un passo in più”, ma non sempre i pazienti con patologie
croniche e invalidanti riescono ad avvicinarli… come se appartenessero ad un
mondo ancora troppo distante, mentre in realtà sono più vicini di quanto
crediamo. Ma qualcuno (di buona volontà) dovrebbe aiutarci a conoscerli e ad
avvicinarli per fruire (possibilmente in tempo utile) delle loro preziose
prestazioni… magari anche risolutive, almeno sul piano morale e psicologico.
Anche così si può guarire, o quanto meno non peggiorare!
La prima immagine è
tratta da Vita.it
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