IL
DOTTOR LI WEN LIANG ESEMPIO DI UMANA BONTÀ
Non
un eroe ma un uomo e un medico che ha
anteposto
la vita dei suoi pazienti a se stesso
di Ernesto Bodini
Mentre
il mondo si interroga sugli eventi che ogni giorno “condizionano” in qualche
modo il destino di ognuno, oggi, in particolare, l’attenzione è per quella che per ora si può definire "iniziale" epidemia
del Coronavirus, il cui esordio (ufficiale) risale al gennaio scorso in Cina
con epicentro Wuhan, e la cui estensione sta interessando altri paesi orientali
e diversi europei, Italia compresa. Molte le perplessità ed altrettante le
domande di tutti su un fenomeno che ci è capitato tra capo e collo nel giro di
poche settimane, e tutti i mass media cercano di tenerci aggiornati più o meno
con competenza, o comunque facendo del loro meglio. Tra le più inquietanti: si
poteva prevedere tale evento? Si poteva prevenire l’iniziale diffusione? È
stato detto tutto quanto c’era e c’è da sapere in tempo utile o con quale “lieve”
ma importante ritardo? E a questo proposito, chi e perché non è stato creduto?
Secondo le fonti, ormai ricorrenti, il medico cinese 34enne Li Wen Liang si accorse per primo, a fine
dicembre, del Coronavirus: una dichiarazione deontologica che ha reso pubblica
ma che non è stata recepita come tale, tant’è che è stato zittito e arrestato
dalle autorità comuniste con l'accusa di diffondere false notizie. Ma di li a
poco si sono accorte (o hanno dovuto accorgersi, sic!) che aveva ragione e
hanno dovuto liberarlo. Il dottor Li Wen Liang, che per il vero non ho
conosciuto, ha scelto di stare accanto ai suoi malati con quella “fedeltà”
etico-professionale che non l’ha esonerato dal rischio contagio, tanto da
rimanere a sua volta infettato e morire pochi giorni dopo. Esempio di un uomo e
medico guidato da un’etica che possiamo definire valoriale della sua persona, e
al tempo stesso il decoro e il prestigio della sua professione con la capacità
di riconoscere i valori e la dignità delle persone e dei pazienti con cui sino
a quel momento ha interagito. Non è certo l’unico caso al mondo ma sicuramente
tra i pochi, che ha onorato la professione lasciando la moglie in attesa di un
secondo figlio (infettata a sua volta) e un bimbo piccolo; testimoni-eredi di
quel ricco patrimonio umano al cui interno vi è la ricchezza dell’amore per la
sua famiglia, i suoi pazienti, il suo Paese. Una triade come si evince dal suo
testamento, che ha lasciato ed é stato diffuso su internet dal pastore Dencio
Acop, e che fedelmente riproduco (fidandomi della fonte).
«Non voglio essere un eroe. Ho
ancora i miei genitori, i miei figli, mia moglie incinta che sta per partorire,
ci sono ancora molti miei pazienti nel reparto. Sebbene la mia integrità non
possa essere scambiata con la bontà verso gli altri, nonostante la mia perdita
e confusione, devo ancora continuare. Chi mi ha lasciato scegliere questo paese
e questa famiglia? Quante lamentele ho? Quando questa battaglia sarà finita, io
guarderò il cielo, con lacrime che sgorgheranno come pioggia. Non voglio essere
un eroe, ma solo un medico, non riesco a guardare questo virus sconosciuto che
fa del male ai miei pari e a così tante persone innocenti. Anche se stanno
morendo, mi guardano sempre negli occhi, con la loro speranza di vita. Chi
avrebbe mai capito che stavo per morire? La mia anima è in paradiso, guardando
quel letto bianco di ospedale, su cui giace il mio stesso corpo, con la stessa
faccia familiare. Dove sono mio padre e mia madre? E la mia cara moglie, quella
ragazza per cui stavo lottando fino all’ultimo respiro. C’è una luce nel cielo!
Alla fine di quella luce c’è il paradiso di cui spesso la gente parla. Preferirei
non andare, preferirei tornare nella mia città natale a Wuhan. Ho la mia nuova
casa lì appena acquistata, per la quale devo ancora pagare il prestito ogni
mese. Come posso rinunciare? Come posso cedere? Per i miei genitori perdere il
figlio quanto deve essere triste? La mia dolce moglie, senza suo marito, come
potrà affrontare le future vicissitudini? Me ne sono già andato. Li vedo
prendere il mio corpo, metterlo in una borsa, dentro la quale giacciono molti
connazionali. Andati come me, spinti nel cuore del fuoco, all’alba. Arrivederci,
miei cari. Addio, Wuhan, la mia città natale. Spero che, dopo il disastro, ti
ricorderai che qualcuno ha provato a farti sapere la verità il prima possibile.
Spero che, dopo il disastro, imparerai cosa significa essere giusti. Mai più
brave persone dovrebbero soffrire di paura senza fine e tristezza profonda e
disperata. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho
conservato la fede. Ora c’è in serbo per me la corona della giustizia». (Li
Wen Liang).
Nel testo, che immagino scritto con fredda lucidità, non tralascia
niente e nessuno con parole non di pietas
ma di doverosa considerazione e riconoscenza per i familiari, i suoi pazienti,
il suo paese. Ancora cosciente e nelle sue piene facoltà molto si interroga,
con non poco ottimismo, auspicando la fine di una realtà volgendosi all’opposto
del malefico virus. Immaginando d’essere giunto in quel mondo di liberazione da
ogni male cerca ora i suoi cari, con il desiderio tornare tra loro, nella sua
città. Un desiderio-dovere per onorare le ancora insolute incombenze terrene,
sperando che anche la sua città natale un domani non dimentichi la sua
profezia, ma possa continuare ad apprezzare il mondo dei giusti affinché più
nessuno abbia a conoscere la sofferenza in modo così tanto repentino. Il dott.
Li Wen Liang, giunto al suo traguardo, ha conservato la fede e che ora merita
indelebilmente non solo il mero riposo ma anche un po’ di giustizia. Non quella
degli eroi, ma quella degli uomini che della Medicina ne hanno fatto una
ragione di vita.
La
foto in basso è tratta da COGwriter
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