HANDICAP: LA CORRETTA INTERPRETAZIONE
ETIMOLOGICA
Un termine che non sempre si
presta a sinonimi, ed è bene fare
un po’ di chiarezza sia dal
punto di vista lessicale che concettuale
di Ernesto Bodini
Da tempo, se non da sempre, si
disquisisce sul termine Handicap ed
eventuali “sinonimi” (che non sono tali) come malattia, menomazione,
disabilità, etc. Nel cittadino comune, soprattutto se direttamente interessato,
l’esigenza dell’interpretazione emerge soprattutto quando viene sottoposto alla
visita medico-legale per l’accertamento dell’eventuale grado di invalidità, e
al relativo riconoscimento dei determinati diritti che essa comporta. Pertanto
ritengo utile riprendere questo argomento con alcuni chiarimenti sia dal punto
di vista lessicale che concettuale. È noto che la condizione di disturbo è
solitamente originata dall’insorgere di una malattia o di un evento traumatico.
Ed è altrettanto noto che la malattia può essere acuta quando l’intenso fatto
morboso è destinato ad esaurirsi nel tempo; cronica quando lo stesso è
destinato a durare nel tempo. In sintesi si può dire che la malattia non ha
generalmente carattere di cronicità e non sempre incide sullo stato adattivo
della persona; per contro, malattie croniche ed invalidanti sono veri e propri
handicap. Per quanto concerne invece il disagio sociale, esso può colpire
chiunque in modo contingente, ad esempio, attraverso la disoccupazione, o nell’incapacità
di mantenere una normale attività di indipendenza socio-economica, ma in questi
casi si tratta di condizioni reversibili e temporanee. Da ciò deriva la
seguente integrazione dei concetti:
MALATTIA
(situazione intrinseca) Ú MENOMAZIONE
(esteriorizzata)
ÚDISABILITÀ (oggetivizzata) Ú HANDICAP (socializzata)
Menomazione: nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute è menomazione
qualsiasi perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione
psicologica, fisiologica o anatomica. Disabilità:
nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute si intende per disabilità
qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di
compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano. Handicap: nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute
l’handicap è la condizione di svantaggio (conseguente ad una menomazione o a
una disabilità) che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento del
ruolo normale per tale soggetto in relazione all’età, sesso, e fattori
socio-culturali. Sebbene questo
schema sia sintetico lo stesso suggerisce una progressione semplice lungo
l’intera sequenza, in realtà la situazione è più complessa proprio in ragione
del fatto che l’handicap può essere la conseguenza di una menomazione senza la
mediazione di uno stato di disabilità. Inoltre, vi sono notevoli differenze
secondo cui i diversi elementi della sequenza si allontanano dalle rispettive
normalità con il risultato che non si può presumere vi sia una precisa
corrispondenza tra il grado della disabilità e quello dell’handicap. Le persone
che ad esempio sono affette da una patologia come l’artrite reumatoide, o
simili, possono essere solo moderatamente disabili ma nello stesso tempo
gravemente svantaggiate laddove altre, con la stessa malattia e con una
disabilità notevole, se supportate dalla famiglia o dal sistema sociale
(welfare state?), probabilmente possono vivere una situazione di svantaggio
assai minore… Analizzando alcune fonti viene da porsi alcune domande. Ad
esempio: come si deve valutare in modo corretto un persona handicappata?
Secondo gli esperti va anzitutto sottolineato che la valutazione non sempre
equivale alla diagnosi. Mentre quest’ultima è un procedimento di tipo medico,
la valutazione è un intervento più ampio che tiene conto dell’intera persona il
cui fine è, ovviamente, sempre sociale. Valutare significa capire quale sia il
sistema funzionale di una persona comprendendo l’aspetto fisico, intellettivo,
affettivo e culturale. L’handicap va dunque valutato in funzione ai rapporti
delle persone disabili con il loro ambiente, qualora ci siano persone che
incontrano ostacoli culturali, materiali e sociali che impediscono loro di
accedere ai diversi sistemi della società alla portata invece dei loro
concittadini: vedasi le difficoltà per l’inserimento scolastico e professionale,
le barriere architettoniche, quelle psicologiche; ed in merito a quest’ultimo
aspetto va rilevato che molto trascurato è il problema della sessualità
dell’handicappato psichico e fisico grave… Inoltre, la valutazione richiede
tempo ed un costante impegno di analisi, nonché competenza e immedesimazione; ma
se mancano queste componenti ne può conseguire una errata valutazione e la
compromissione della parte restante del lavoro, ossia gli interventi più
opportuni per la condizione dell’handicappato stesso. Ma cosa si intende con il
termine prevenzione, un verbo tanto ostentato e spesso disatteso? È l’azione (o comportamento) volto ad
impedire il manifestarsi delle deficienze mentali, fisiche e sensoriali
(prevenzione primaria) o ad adempiere che una deficienza, una volta sopravvenuta,
comporti ulteriori conseguenze sul piano fisico, psicologico e sociale
(prevenzione secondaria). E invece cosa si intende con il termine
“rieducazione”? Questo termine indica un processo basato su un obiettivo
limitato nel tempo, volto a consentire a una persona colpita da una deficienza
di ottenere un livello funzionale e ottimale dal punto di vista mentale, fisico
e sociale, fornendo anche i mezzi per cambiare la sua esistenza. La
rieducazione può comportare misure atte a compensare l’assenza di una funzione
o l’insufficienza della stessa, destinate a facilitare l’adattamento o la
rieducazione sociale.
Ma poi c’é l’espressione “uguaglianza
delle risorse” che indica il processo per il quale il quadro generale della società
(servizi sociali e sanitari, istruzione e impiego), l’ambiente materiale, la vita
culturale e sociale, compresi gli impianti sportivi e l’occupazione del tempo
libero devono essere resi possibili a tutti. Non di meno si ravvisa
l’importanza del rapporto tra handicap ed emarginazione, e ciò consiste nel
fatto che generalmente ogni individuo (persona) handicappato ha minori
possibilità di intesa sociale; e questo presenta alcuni aspetti fondamentali
come il tipo di handicap, il grado di impedimento individuale, la forma di pregiudizio
culturale nei suoi confronti e il tipo di contesto sociale. Ma più comunemente
a volte ci si chiede cosa si intende per socializzazione e a riguardo va intesa
l’acquisizione delle necessarie capacità di assumere un ruolo nella pratica
della vita sociale. La socializzazione presume comunicazione, decisione e
critica, ovvero capacità di svolgere i vari ruoli presenti nella vita
quotidiana. È però indispensabile che l’inserimento avvenga gradualmente,
sostenuto in modo adeguato, costantemente interpretato; e ciò richiede un impegno
notevole sia dal punto di vista psicologico che educativo. Ma l’handicappato
può socializzare? A mio parere, ogni handicappato deve essere messo in
condizione di condurre un’esistenza dignitosa, qualunque sia il contesto della
società. Ma poiché questa meta non è sempre raggiungibile, è indispensabile la
continuità dei provvedimenti legislativi e soprattutto il rispetto degli
stessi, con la riabilitazione, la collocabilità al lavoro e conseguente integrazione.
Il tutto in modo costante e non dispersivo al fine di garantire
all’handicappato anche il più piccolo progresso e facilitarlo nella
socializzazione. A questo punto viene da chiedersi come si presenta il ruolo
dell’inserimento e, a riguardo, va precisato che coloro che lavorano in questo
ambito hanno e devono sempre avere come primo obiettivo l’inserimento nella
scuola, nel lavoro ed in ogni ambito utile alla buona socializzazione e
realizzazione dell’handicappato. Non è mai retorico ripetere che l’inserimento
è manifestazione di civiltà e integrazione, ed esso deve essere anche un’azione
di tipo politico-amministrativo nelle varie realtà (scuola, lavoro, tempo
libero, etc.), anche se tale ruolo si presenta sempre difficile in quanto vari
sono gli strumenti necessari per la sua attuazione, ma a mio avviso ben poca è la volontà di agire
da parte delle Istituzioni. Sono sempre stato del parere che la diffusione dei
metodi da adottare, l’informazione corretta e completa, nonché la reale
predisposizione a soddisfare le esigenze
del soggetto da trattare, costituiscono il punto di partenza per meglio
operare e quindi ottenere maggiori possibilità di risolvere anche casi
particolarmente problematici. Ma l’argomento dell’inserimento, come si può
immaginare, è però molto più vasto e soggettivo.
Alcune
considerazioni etico-morali sui Diritti dell’handicappato
In questi ultimi anni è sempre venuto
meno il senso di responsabilità nel comprendere che l’handicap (inteso come
svantaggio) è fonte di cultura civile che si configura in una politica sociale,
al fine di favorire la promozione dei valori umani, la tutela dei diritti delle
persone più deboli e per questo meno rappresentate, come pure la solidarietà
vista come principio di etica collettiva. L’integrazione nella società delle
persone handicappate deve essere un obiettivo costante al fine di concretizzare
quei principi teorici che sono stati sanciti dall’Onu nel 1948 con la
proclamazione della “Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo”,
fatti propri dalla Comunità Europea con la “Convenzione
per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo”. Ma la carenza di risposte
adeguate alle istanze degli handicappati e la scarsa volontà generale di
conoscere e approfondire la natura del disagio sociale e le relative esigenze,
soprattutto in rapporto alla dignità della persona umana, genera tutt’oggi
incomprensione (anche nel nostro Paese) fra persone con handicap e i cosiddetti
normodotati, con l’inevitabile conseguenza di uno scarso dialogo sociale e
quindi una possibile emarginazione. Va da sé che l’obiettivo dell’integrazione
deve mirare alla più ampia partecipazione possibile alla vita sociale ed
economica e alla indipendenza dell’handicappato (qualunque sia la sua natura)
facilitando, per quanto possibile, la sua autonomia e quindi la sua
indipendenza. Un mirato programma di integrazione necessita di mezzi tecnici e
risorse finanziarie, ma purtroppo la nostra realtà politico-economica e
finanziaria (spending riview e obiettivi da raggiungere) non lascia il necessario
margine all’acquisizione di tali risorse; tuttavia non si può sottacere che
molti handicappati con buone facoltà “residue” possono essere facilmente
collocati in diversi ambiti professionali, specie se hanno raggiunto anche un
risultato accademico, assicurando loro il pieno sviluppo. Il lavoro significa
crescita di autostima, arricchimento dei rapporti interpersonali e, per la
collettività, superamento e abbandono dal punto di vista assistenzialistico. A
riprova di ciò, il lavoro per ogni persona, ed in modo particolare per
l’handicappato, si configura come lo strumento indispensabile per realizzare
l’inserimento sociale in modo attivo e produttivo. Quindi, il lavoro significa
crescita di autostima, arricchimento dei rapporti interpersonali… E come afferma
una enciclica pubblicata il 14/9/1981 dal papa Giovanni Paolo II: «Sarebbe indegno dell’uomo e negazione della
comune umanità, ammettere alla vita della società, e al lavoro, solo i membri
propriamente funzionali, perché così facendo si ricadrebbe in una grande forma
di discriminazione, quella dei forti e dei sani contro i deboli ed i malati».
E proprio in fatto di discriminazione, a tutela dell’handicappato, rammento la
Legge dell’1/3/2006 n.67 che prevede “Misure per la tutela giudiziaria delle
persone con disabilità vittime di discriminazioni” (G.U. n. 54 del
6/3/2006). Ma a questo riguardo non mi risultano essere molti i casi che si siano
avvalsi di questa legge, per una serie di ragioni che lascio dedurre al
lettore. In buona sostanza, in una società civile la giustizia sociale è la
difesa delle persone in difficoltà, garantita dal riconoscimento e dalla tutela
delle regole di convivenza: tali regole, che costituiscono il fondamento della
coesione sociale, devono essere garanzia giuridica che elimini ogni incertezza
ed ambiguità; nell’esclusiva applicazione di questo metodo tutelare, sussiste
il rispetto dei diritti civili ed umano di chi si trova in condizioni di
disagio e di svantaggio.
Insulto alla
dignità e al diritto
Alcuni anni fa, e precisamente nel
1996, una lettrice, affermando di essere affetta da diabete con gravi
complicazioni e riconosciuta invalida civile (55%), scrisse ad un quotidiano
lamentando che dopo varie peripezie è stata indirizzata ad una azienda privata
attraverso il “collocamento obbligatorio” e, per questo, sottoposta ad una
sorta di ostracismo da parte della stessa che riteneva l’assunzione un obbligo
dello Stato e non una loro scelta, tanto da “rinnegare” l’assunzione. La
lettrice ha fatto causa e, vincendola, è stata poi riassunta. Da quel momento
le vessazioni l’hanno perseguitata con
l’invito a dimettersi perché lo Stato costringe i privati a sopportare l’onere della presenza degli invalidi invece
di collocarli in Enti pubblici. «Se una
persona è obbligata a lavorare per vivere e in più ha un handicap –
osservava la lettrice nella sua lettera al giornale – perché deve anche combattere in un ufficio dove si è maltrattati
psicologicamente ogni giorno, con il terrore di sbagliare per timore di ripercussioni?
Non posso cercarmi un altro ufficio perché con il passaggio diretto si perde il
diritto all’invalidità civile». Qualche giorno dopo, nella rubrica dedicata
ai lettori sullo stesso giornale, veniva pubblicata una mia lettera a commento
(e a “suffragio”) della lettrice, che testualmente riproduco. In
merito alle lamentele di una lettrice che afferma: «In ufficio mi trattano male perché sono invalida civile», mi sento
in dovere di intervenire. Dal 1981 molte nazioni europee hanno migliorato le
cure e l’educazione dei disabili e si sono fatte carico del loro reinserimento
sociale e nel lavoro. Ma notevole è la tendenza a dimostrare questo insieme di
provvedimenti sotto la luce dell’utilità sociale, più che sotto quella di un
dovere sentito moralmente. Si sa che gli uomini professano un grande rispetto
per i doveri morali, ma propendono quasi sempre per le decisioni politiche in
vista della loro utilità, di attesi vantaggi individuali e sociali. Sicuramente
non è approvabile questa divergenza tra morale e politica, ma di fatto esiste e
non si può non tenerne conto; tant’è che i governi che maggiormente hanno
provveduto ai tentativi di reinserimento degli handicappati nell’attività
produttiva (tra questi non figura certo il nostro) hanno sempre insistito sul
fatto che le somme spese per la reintegrazione vengono recuperate, moltiplicate
per un certo indice, sotto forma di tasse sul reddito dei reintegrati. In
realtà tale indice va sempre diminuendo, man mano che si estende l’opera di
reintegrazione. Ancora oggi, in Italia, molte aziende private ritengono una
questione di inciviltà l’assunzione obbligatoria dei disabili, in quanto lo
Stato impone loro di farsi carico di persone negate al lavoro mentre,
sostengono, «dovrebbero dipendere
dall’assistenza pubblica, proprio perché sono persone che non rendono certo al
cento per cento…». Tale intendimento si riconnette a quella sorta di
coercizione statale che quasi tutte le aziende ritengono di subire, mentre le
prospettive delle imprese pubbliche sono diverse, essendo sociali le finalità
di codeste istituzioni. È evidente che l’handicap, proprio perché problema di
grande rilevanza sociale, è affrontato in gran parte a parole, e anche se
diverse associazioni hanno sempre fatto sentire la loro voce, il diritto al
lavoro (e il rispetto della dignità) per molti disabili rimane purtroppo una
chimera. Questo episodio, che risale appunto al 1996, prendeva in
considerazione la Legge 482 del 1968: “Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le
pubbliche amministrazioni e le aziende private”; un provvedimento che obbligava i datori di lavoro ad assumere una determinata quota di lavoratori iscritti
alle categorie protette. Con questa legge lo Stato italiano ha voluto promuovere
l'inserimento nel mondo lavorativo delle persone disabili e delle altre persone
a cui la legge riconosce una condizione di svantaggio (es. ciechi e sordi,
invalidi di guerra, orfani ecc.). In seguito tale Legge è stata aggiornata,
tant’è che dal 1° Gennaio 2018 sono entrate in vigore le nuove regole previste dal Jobs Act, nello specifico dal decreto legislativo del 24 settembre 2016, n. 185 (G.U. n. 235 del 7 ottobre 2016) per favorire l’assunzione dei disabili, andando a modificare così la
legge del 12 marzo 1999, n. 68 (G.U. n. 68 del 23 marzo 1999), che
regolamenta l'inserimento lavorativo delle persone che
versano in condizioni di disabilità fisica o psichica o comunque di grave
difficoltà, in quanto rientranti nelle categorie protette. Di certo, concludo, un Paese non è da
ritenersi civile, maturo e democratico se ancora considera gli handicappati
persone “inferiori” e soggette al mero
assistenzialismo. E spetta a noi tutti credere nei valori della giustizia e
nell’uguaglianza di ogni essere umano, il compito (quotidiano) di non far sì
che si perpetri un “crimine” contro l’umanità. Ma come? A mio modesto avviso
rendendoci disponibili nei confronti degli interessati (previo loro consenso e
delega), aiutandoli a denunciare le vessazioni e il non rispetto delle leggi in
proposito.
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