L’ANCESTRALE E MAI SUPERATA REALTÀ DELL’HANDICAP
Tra ricorrenze
rievocative, numeri e bisogni socio-assistenziali, le persone disabili hanno
prima bisogno del rispetto della loro dignità ed essere considerati al pari
dell’intera collettività. Ma gli emblemi storici del Monte Taigeto e della Rupe
Tarpea sopravvivono anche nella moderna cultura occidentale… con poche varianti.
Anche chi scrive, per avere un posto di lavoro è passato sotto le forche caudine del pregiudizio
di Ernesto Bodini
Ricorreva il 2003 quando il Consiglio dell’Unione
Europea stabiliva che il 3 dicembre di ogni anno fosse da dedicare alle Persone
Disabili. Una decisione che ricorda la precedente del 1981 con la quale
l’Assemblea Generale dell’Onu dichiarava l’Anno Internazionale dell’Handicappato.
Da quest’ultima data ha avuto inizio il mio modesto “percorso” di dedizione
socio-culturale (e per certi versi anche assistenziale) a favore dei miei
concittadini disabili. Ma non è stata tanto la ricorrenza a procurarmi lo “stimolo”
della solidarietà sociale, quanto l’avere il senso civico per il rispetto dell’uguaglianza
partendo con iniziative sulla corretta informazione e, a seguire, con proposte
e/o sostegno di carattere ludico e sportivo. Dopo qualche anno ho intrapreso
l’attività giornalistica che, di fatto, per molte occasioni mi ha favorito nel contribuire
a diffondere la cultura dell’handicap. Nell’approfondire la conoscenza delle
innumerevoli variabili di disabilità fisica e psichica e quindi delle relative
problematiche, da subito ho inteso specificare che il concetto di handicap non
è solo una questione di cifre, ma soprattutto una questione di parole e quindi di
terminologia che, a mio avviso, ha ancora
dei riferimenti vaghi… In effetti
l’handicap è anche una questione di cultura che, per la verità, ancora oggi
stenta ad essere recepita come tale. Tuttavia, per capire il senso di questo
termine che con troppa faciloneria attribuiamo ad alcune, o forse troppe
persone, è importante cogliere il sistema di riferimento di cui fa parte. Con
questo vocabolo, pronunciato per lo più tra la compassione e il disprezzo, si
intende significare una qualsiasi situazione di svantaggio che rende una
persona “diversa” dalle altre, nel senso che la riteniamo inferiore. La condizione
(in non pochi casi) di queste persone, soprattutto se con deficit psichico o
psico-fisico grave, è quella del “non desiderato” che diventa quasi sempre un
capro espiatorio dell’aggressività del gruppo sociale, con un ruolo socialmente
svalutato, tale da renderle vittime dell’emarginazione… É la società che, in
una certa misura, determina e definisce l’handicappato (nel senso più esteso
del significato), ad esempio, nell’ambito della scuola, del lavoro e più
estensivamente in tutti gli spazi dove esistono barriere fisiche e psicologiche
da superare. Purtroppo, ancora oggi non mancano casi di intolleranza e “strani”
atteggiamenti (come ad esempio le difficoltà nell’uso dei mezzi pubblici per
chi ha gravi problemi motori) e, a riguardo, va precisato che il disabile,
proprio perché non di “un’altra specie”, costituisce sempre un caso a sé, unico
e non standardizzabile. Questo concetto è essenziale perché la mancanza di
rispetto per qualunque realtà individuabile, condurrà sempre a violenza ed
emarginazione. Questa situazione, particolarmente pesante e difficile, è
aggravata dalla cosiddetta “cultura dominante del bello” e della produttività
ad ogni costo; come ad esempio, per avere un posto di lavoro il disabile deve
appellarsi a leggi che impongono al datore di lavoro (pubblico e privato)
l’assunzione, e questo non è certo indice di maturata civiltà... E sul versante
della collocabilità obbligatoria, chi scrive avrebbe molto da dire per il
personale vissuto. Ad esempio, dopo i primi anni dall’assunzione, da un
funzionario di quell’azienda privata fui invitato a dimettermi per esigenze
della stessa (nonostante non fosse in crisi e fosse molto florida) con un
contributo di “buona uscita” ma, alla mia opposizione, affermando che non ero
in “vendita”, il suddetto rilanciò affermando: «Tutti gli uomini hanno un prezzo!». Colpito nella mia dignità,
risposi: «Evidentemente anche lei perché
venderebbe sua madre per molto poco…» (e dissi anche la cifra); subito dopo
girai le spalle e uscii da quell’ufficio. Da allora, gli episodi di mobbing si
susseguirono e non reagii non per timore ma per saggezza, finché negli ultimi
anni mi “riscattai” dimostrando una grande determinazione e conoscenza dal punto
di vista legale e di diritto… avvalendomi, inoltre, del saper scrivere in un
certo modo e, per dirla sino in fondo, anche del mio impegno giornalistico che
conducevo parallelamente… Quindi, da questa esperienza e di tante altre che
hanno vissuto (e vivono) molti disabili alla ricerca di un posto di lavoro e
con le conseguenze una volta ottenuto, si può dedurre che una persona che non
rientra nei canoni estetici di bellezza ed efficienza (oltre che di sicurezza),
in qualunque contesto sociale, viene emarginata. La condizione di handicap,
intesa come svantaggio, è qualcosa che si evidenzia fra l’individuo e la
società circostante, e proprio perché tale ambiente non è adatto alle necessità
di tutti, è la società che dovrebbe adeguarsi e non il contrario…
Per
quanto concerne l’aspetto morale è certamente rilevante perché si tratta di considerare
una persona come eguale soprattutto in dignità, quali che siano i suoi limiti
fisici o psichici. Senza questa responsabile decisione, il problema degli
handicappati non può essere nemmeno sentito come problema reale: resta per i
più un fastidioso disagio che riguarda una minoranza. Per contro, il progresso
mette a disposizione molti strumenti per venire incontro ai problemi pratici
dei disabili. Il sapere ciò che oggi la scienza e la tecnologia ci mettono a
disposizione, rende possibili interventi, un tempo irrealizzabili, per limitare
o evitare il sorgere di invalidità fisiche, psichiche o sensoriali che causerebbero in seguito
penose sofferenze ed eventualmente emarginazione dei disabili, come pure
dispendi onerosi per la società che deve reintegrarli, o quanto meno
facilitarne la reintegrazione. É opinione comune che la prevenzione di un
qualsiasi deficit fisico, psichico o sensoriale sia sinonimo di scelta
vantaggiosa rispetto al recupero dell’handicappato, senza per questo trascurare
chi già è colpito da una menomazione. Ma per prevenire è necessario conoscere a
fondo le cause di ciò che si vuole evitare. Questo sapere, purtroppo di pochi a
parte gli addetti ai lavori, è già da tempo parte integrante della scienza: ma
è indispensabile che anche i non specialisti e l’opinione pubblica siano
informati, affidandosi a chi ha la competenza, e possibilmente la
predisposizione, per insegnare a trasmettere i principi elementari dell’umana
solidarietà. Ma come spiegare, per quanto possibile, il superamento di una
condizione di handicap? É un quesito che mi pongo ancora oggi, e ogni volta mi
trovo a ripetere che l’handicap può essere superato se la società attraverso
l’apporto delle tecnologie e dell’organizzazione sociale riesce ad integrare la
persona con disabilità nel normale circuito sociale, facendo leva sulle
potenzialità e le capacità della stessa. E poiché la qualità della vita passa
anche attraverso la qualità del diritto (ove è prevista giustizia equa per tutta
la comunità, il diritto stabilisce garanzie per ciascun cittadino), a maggior
ragione chi soffre il disagio dell’handicap necessita di una particolare tutela
che ne impedisce la discriminazione e la conseguente emarginazione, garantita
dalla certezza di regole che stabiliscono il principio di parità sociale. Oggi in
Italia i disabili (“veri”) sono oltre 3 milioni, e nel mondo sono circa il
7-10% della popolazione; un esercito non di sofferenza ma una popolazione che,
in molte realtà, richiama alla memoria il principio del monte Taigeto,
piuttosto che quello della Rupea Tarpea; analogie molto affini alla realtà
attuale, sia pur con modalità diverse: meno truculente ma ugualmente lesive
perché la discriminazione e l’emarginazione sono gli elementi conduttori della
“morte civile”.
Analisi… senza retorica
Si
è sempre creduto che nelle varie Legislature i Governi abbiano provveduto con
tentativi di reinserimento degli handicappati nell’attività produttiva,
cercando di dimostrare che le somme spese per la reintegrazione vengono poi
recuperate, moltiplicate per un certo indice, sotto forma di tasse sul reddito
dei reintegrati. In realtà tale indice va sempre diminuendo, man mano che si
estende l’opera di reintegrazione. C’è allora da chiedersi se, sotto il profilo
dell’utilità, tale opera sarebbe in grado di continuare il giorno in cui
cessasse il vantaggio economico, o peggio, sorgesse uno svantaggio. Nel nostro
Paese, degli oltre 3 milioni di disabili sono circa 600 mila quelli che hanno
limitazioni gravi e vivono in una situazione di grande isolamento, senza
nessuna rete su cui poter contare in caso di bisogno; di queste, ben 204 mila
vivono completamente sole. A riguardo dall’ 1 gennaio 2020 verrà istituito un
ufficio permanente per le persone con disabilità a Palazzo Chigi (sede del
Governo), inteso come strumento per coordinare meglio il lavoro delle diverse
amministrazioni. Secondo una nota dell’Ansa del 3 dicembre scorso, riportando
quanto annunciato dal presidente del Consiglio, saranno 830 milioni per il prossimo
triennio i fondi accantonati nella nuova legge di bilancio per le misure a
sostegno delle persone disabili; e con tale stanziamento al fondo il premier ha
promesso che si partirà con autela nel primo anno ma a regime le somme
diventeranno cospicue. A me sembra che queste cifre siano equiparabili ai
cosiddetti “conti della serva”, in quanto è un importo irrisorio, sia pur
iniziale, in considerazione del fatto che le gravi situazioni di molti disabili
richiedono risorse ben maggiori, sia in rapporto alle possibile complicanze che
agli imprevisti di tipo strutturale ed assistenziale. Il fatto che il Governo
non intenda disporre di ulteriori fondi, io credo che non dipenda dalle misure
proporzionali disponibili in bilancio, piuttosto dal fatto che si considera la
disabilità come un “peso sociale”, e che tale non può e non deve essere
supportato e men che meno superato. É quindi una questione di coscienza civile
(tuttora assente) oltre che politica anche se, come riportato dall’Ansa, il presidente
della Repubblica ha dichiarato che «il
nostro Paese ha nei nostri concittadini con disabilità un giacimento di
energie, risorse e contributi di cui si priva perché non li mette in condizione
di potersi esprimere: è l’obiettivo sociale e politico. Da questo rapporto
emerge con chiarezza che il problema della disabilità non è di assistenza ma
soprattutto di sostegno, per consentire l’opportunità di realizzazione di
queste persone». Per quanto queste affermazioni siano suffragate da una sua
obiettiva consapevolezza, non sono prive di quella retorica che, se non è
illusione, poco ci manca. Questa mia osservazione è avvalorata dall’incerto
futuro di molti disabili che un giorno resteranno soli, un dramma nel dramma
perché non solo saranno necessari ulteriori fondi per il loro sostentamento, ma
si dovranno garantire tutte quelle forme di particolare assistenza e tutela da
parte di personale qualificato e dotato di predisposizione affettiva e, anche
se questa non potrà mai sostituirsi a quella di origine genitoriale, quanto meno
sia auspicabile l’apporto di una concreta protezione e tutela nel massimo
rispetto del rapporto umano. E, detto per inciso, non basta superare un
concorso pubblico per poi svolgere una mansione in questo ambito, occorrono
requisti ben maggiori traducibili in doti che comprendano predisposizione ed
affettività. E questo proprio perché legiferare e indire concorsi pubblici non
è sempre garanzia di risultati!
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