IL MURO DI GOMMAPIUMA


BREVE RIVISITAZIONE DELLA STORIA DELLA BUROCRAZIA IN ITALIA
Sinonimo di potere ed efficienza, ieri; di potere e quasi sempre inefficienza, oggi

(Utili suggerimenti su come affrontarla)

a cura di Ernesto Bodini


La burocrazia è sempre stata (ed è) un problema di difficile (se non impossibile) soluzione in quasi tutta Europa, ed in particolare nello Stato con il più alto numero di leggi, come l’Italia. C’è quindi ragione di sostenere che i Paesi cosiddetti civili ed evoluti, per la questione burocrazia, si possano dividere in due essenziali categorie: Paesi burocratici e Paesi aburocratici… Poiché la burocrazia è molto poco conosciuta nel suo contesto originale e spesso crea danno alla società, ritengo sia utile trasmettere alla collettività alcune nozioni storico-culturali (sia pur sintetiche ma esaustive), ma soprattutto pratiche, affinché ciascuno possa affrontare al meglio le difficoltà quotidiane “imposte” proprio dalla burocrazia, prevenendo, per quanto possibile incomprensioni, perdite di tempo, inutili coinvolgimenti dei mass media, e a volte, anche ricorsi a consulenze legali con le conseguenti parcelle che, a mio dire, in molti casi si potrebbero evitare con il conforto di una felice soluzione dei propri problemi, talvolta anche in tempo reale. Ci sono Paesi nelle cui popolazioni predominano doti come rispetto meticoloso dell’ordine esteriore, senso della gerarchia, osservanza della forma, sentimento del dovere (a volte anche maniacale), assiduità nel lavoro, etc. (doti che si possono interpretare come note particolari del perfetto funzionario); altri, nelle cui popolazioni queste doti mancano o, almeno, difettano in quanto esistono e abbondano “qualità” come mentalità individualistica, insofferenza alla disciplina e quindi al dovere, discontinuità di applicazione, ricchezza di iniziativa personale spesso controproducente, etc., il cui complesso ci dà un tipo di umanità che è l’opposizione del “diligente” e più razionale burocrate. In quest’ultimo caso si tratta, a mio parere, di un fenomeno prevalentemente italiano che tutti conoscono ma che ben pochi sanno “contrastare” in difesa dei propri ed altrui diritti, dopo aver espletato, bene inteso, i propri doveri. La burocrazia spesso produce danno alla società, fa delle vittime: è un sistema che blocca l’azione, relegandola ad una decisione che quasi nessun burocrate prenderà mani, o quasi… La burocrazia “positiva”, quella di una volta, fa parte della storia; quella che ne è derivata nel corso dei decenni non solo è “negativa”, ma è identificabile in quel malcostume, purtroppo perpetuo (anche se oggi per certi versi un po’ ridimensionato) che non si può però alienare, ma sicuramente controbattere con onestà, cultura, perseveranza e determinazione. E questo, a condizione di essere sempre dalla parte della ragione espletando i propri doveri, prima di pretendere qualunque diritto.

Un ripasso di Educazione Civica (Il dovere di un tempo e anche di oggi)

Se la saggezza e la memoria vanno di pari passo alcuni (sicuramente pochi) ricorderanno che, negli anni successivi alla Costituzione della nostra Repubblica, l’Ordinamento scolastico della Scuola dell’obbligo prevedeva l’insegnamento di Educazione Civica. Infatti, fu Aldo Moro (1916-1978), ministro della Pubblica Istruzione dal febbraio 1957 al maggio 1959, il primo ad introdurre nel 1958 tale insegnamento nelle scuole medie e superiori: due ore al mese obbligatorie, affidate al professore di Storia, senza valutazione. Ma con gli anni, questa “materia” di grande utilità e saggezza (tanto ieri quanto oggi), per una crescita civile, è andata via via perdendosi per lo “scarso interesse” didattico, ma a mio avviso soprattutto per la scarsa ricezione da parte delle nuove (moderne?) generazioni di scolari e studenti, ma anche da parte dei politici che si sono susseguiti nelle varie Legislature. Ma cosa si intende per educazione civica? È lo studio delle forme di governo di una cittadinanza, con particolare attenzione al ruolo dei cittadini (loro doveri e diritti), alla gestione e al modo di operare dello Stato. All’interno di una determinata politica o tradizione etica, è riportato da tutte le fonti esplicative, l’educazione civica consiste sostanzialmente nell’educazione dei cittadini. La storia a riguardo risale alle prime teorie formulate in proposito da Platone (428-347 a.C.) nell’antica Grecia e da Confucio (551.479 a.C.) in Cina. Questi autori hanno contribuito l’uno in Occidente, l’altro in Oriente, a gettare le basi sui concetti di diritto e di giustizia da attuare nella vita pubblica. Personalmente conservo nella mia libreria un libricino dal titolo Sintesi di educazione civica ad uso della scuola secondaria superiore, di Giuseppe Parisi. Anche se non riporta la data di stampa tale minuscola ma esaustiva pubblicazione risale verosimilmente alla fine degli anni ’50. Alla 1ª Classe sono dedicati gli insegnamenti dei “Diritti e doveri nella vita sociale”, “Il senso di responsabilità morale come fondamento dell’adempimento dei doveri del cittadino”, “Interessi individuali ed interesse generale”, “I bisogni collettivi”, “I pubblici servizi”, “La solidarietà sociale nelle varie forme”; alla 2ª Classe sono dedicati “Il lavoro: la sua organizzazione e la tutela”, “Lineamenti dell’ordinamento dello Stato Italiano”, “Rappresentanza politica ed elezioni”, “Lo Stato e il cittadino”; alla 3ª Classe sono dedicati “Inquadramento storico e principi ispiratori della Costituzione della Repubblica Italiana”, “Diritti e doveri dell’uomo e del cittadino”, “Libertà: sue garanzie e suoi diritti”, “I problemi sociali e la loro evoluzione storica”; alla 4ª Classe sono dedicati gli insegnamenti “Organizzazione e legislazione del lavoro”, “Previdenza e assistenza”, “Le formazioni sociali nelle quali si esplica la personalità umana”; alla 5ª Classe sono dedicati “Gli enti autarchici” (Comune, Provincia, Regione e altri Enti), “Lo Stato” (evoluzione storica, condizione di modernità e diritto e sue caratteristiche, le varie forme di governo dello Stato e di Governo); “Ordinamento attuale dello Stato italiano” (il Parlamento, formazione delle leggi, il Presidente della Repubblica, il Governo, i Ministri, gli Organi ausiliari, la Magistratura, la Corte Costituzionale), “Organizzazioni internazionali e supernazionali per la cooperazione fra i popoli”. Alla luce di questa breve rievocazione verrebbe da fare alcune considerazioni, ma poiché l’evoluzione dei tempi i cui effetti appaiono essere sempre più deleteri, sia dal punto di vista politico (tout court) che da quello culturale e della in-civile convivenza, ritengo di soprassedere e lasciare ad ogni cittadino la libera considerazione. Mentre rammento che l’analfabetismo di ritorno (il 70% degli italiani ha difficoltà a comprendere un testo) è rappresentato da oltre 4 milioni di persone che popolano la nostra Penisola, e c’é ragione di credere che sono sempre meno i cittadini che conservano una copia della Costituzione, simbolo cardine e guida ai diritti e soprattutto ai doveri di ogni cittadino (compreso il politico di oggi e di domani…) che è tenuto ad osservarla e farla osservare come legge fondamentale della Repubblica. Anche se più passa il tempo e più si assiste alla massima “disattenzione” anche per le nozioni più semplici ed elementari, proprio come la vecchia (ed ormai sepolta)  Educazione Civica.

Dall’Educazione civica alla Cittadinanza e Costituzione


Un percorso di decenni ma che poco ha insegnato. Ma è ancora il caso di “chiamare in causa” i principi dell’Educazione Civica? E a che titolo? Nel 2014 l’allora ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, annunciò lo stanziamento di 25 milioni di euro all’anno per rafforzare l’insegnamento della Storia  dell’arte nelle scuole, un utile “incentivo” perché a detta del ministro tale materia non deve essere considerata “accessoria” ma “strutturale” del percorso formativo, come pure la musica che non ha pochi… sostenitori. Ma se la considerazione di tale materia ha ragione d’essere e messa in pratica, non fosse altro per il valore costitutivo, oltre che formativo e culturale, ve n’è un’altra da fare: per quali ragioni l’Educazione Civica è caduta nell’oblio tanto da non essere più insegnata nella scuola dell’obbligo? Anche se alcuni l’hanno ribattezzata “Cittadinanza e Costituzione”, il problema pare non essersi smosso più di tanto se non per un provvedimento legislativo. Quest’ultimo indirizzo è diventato materia per effetto del decreto legge con decorrenza per l’anno scolastico 2008/2009, e sia nel primo che nel secondo ciclo (per 13 anni) con un orario di un’ora la settimana, pari a 33 ore annuali, ossia 429 ore nella carriera scolastica di un alunno, inserite con l’insegnamento di Storia e Geografia. Secondo quanto spiega “TuttoscuolA” non si tratta di un ritorno alla “vecchia” Educazione civica, né di una variante della Educazione alla “convivenza civile” introdotta dalla Riforma Moratti con carattere interdisciplinare, ma di una vera e propria nuova disciplina, con valutazione autonoma e specifica. Ciò significa che ciascun studente deve dimostrare di aver studiato ed appreso i principi e i valori della Repubblica italiana, pena la bocciatura… Il “modello” precedente è ormai considerato una sorta di cenerentola del sapere e del comportamento civico, i cui contenuti erano “scivolati” nella marginalità, tanto da essere considerata una appendice facoltativa, poco incisiva sul profitto degli studenti. Tralasciando l’elencazione dei criteri principali che determinano, o possono determinare, questa nuova materia, va rilevato che non è solo con una innovazione di concetti e di principio che un cittadino può essere indotto alla conoscenza ed al rispetto dei valori costituzionali, ma dimostrargli che chi è preposto alla conduzione di un Paese (politici e amministratori nazionali e locali) è il primo a dover rispettare la Carta costituzionale. Ma questo non basta perché alla luce dei fatti (sempre più quotidiani) tali valori sono continuamente disattesi se non calpestati, a cominciare dai reati non perseguiti, alla non certezza della pena, alle condanne di persone innocenti (dal 1992 ad oggi sono stati accertati 29.000 casi), e quindi alla necessità di rivedere il Codice di Procedura Penale (C.P.P.); sino ad arrivare alla fatidica ed ancestrale “burocrazia”, un malessere (meglio sarebbe definire una “cariatide” dura da estirpare) che mette in ginocchio anche il più impavido e determinato dei cittadini, sempre che voglia considerarsi ancora figlio della sua Patria. Affermazioni per richiamare l’attenzione sul disatteso art. 3 della Costituzione, che testualmente recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 237 c. 148 c. 151 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 819], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Ma anche il non sempre rispettato art. 32 della Costituzione, che pure testualmente recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Infine, nell’ultimo capoverso delle Disposizioni transitorie finali, si legge: «La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come Legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato». A tutto ciò si potrebbero aggiungere molte incongruenze, una per tutte: in non poche Istituzioni pubbliche (ad esempio gli ospedali) il volontariato sopperisce alla carenza di organico (generalmente sostituendosi agli Operatori Socio Sanitari), mentre ciò non sarebbe lecito… Infatti, attualmente sono circa 5 milioni i cittadini volontari impegnati su vari fronti, e tanti altri versano contributi (in denaro) per la ricerca scientifica perché lo Stato in questo ambito non investe nemmeno l’1% del PIL. Ora, pur volendo considerare l’evoluzione dei tempi in fatto di rivisitazione del concetto di educazione civica, sarebbe utile (se non indispensabile) trasmettere al cittadino comune qualche nozione inerente la burocrazia, spiegando etimologia, origini e processi evolutivi, ma soprattutto dare i più “genuini” suggerimenti sul come affrontare la tracotanza di determinati burocrati (in divisa e non), che proprio per il potere assunto dietro e fuori da una scrivania spesso e volentieri ledono i diritti e soprattutto la dignità del cittadino, che il più delle volte ha anche ragione… Purtroppo il burocrate non si rende conto (o chissà per quali ragioni non vuole) di essere a sua volta un cittadino della stessa Patria  ed anche suddito del sistema, una “dimenticanza” che il più debole (anziani e disabili in primis) a volte paga a caro prezzo… Quindi, ben vengano innovazioni, ma tra queste sono da annoverare l’abolizione tout court di ogni sistema burocratico (sia pur mera utopia) perché, in caso contrario, non si può parlare di progresso civile e tanto meno di… reale democrazia.
Origini e terminologia
Il termine burocrazia, che in realtà non è da intendersi osceno e tanto meno offensivo, è ormai noto ai più che non ha sinonimi letterari e per questo si presta a mille interpretazioni, soprattutto quando si tratta di rivendicare diritti e prestazioni nell’ambito della P.A. di qualunque ordine e grado, ed è composto dal francese Bureau (ufficio) e dal greco Kràtos (potere), con cui si indicano, per lo più in senso di “poco apprezzamento” gli Uffici Pubblici. È stato introdotto intorno al 1750 dall’economista francese Vincent Jean-Marie De Gournay (1712-1759), per indicare colui che si occupa della P.A. Ma non tutti, forse, conoscono le origini di questo “fenomeno”. Da notare che all’inizio non aveva valenza negativa, ma tale divenne negli anni successivi e la parola impronunciabile anche grazie a una declinazione peggiorativa attraverso aggettivi che vanno da farraginosa, abbondante, disordinata, confusionaria; a macchinosa, assurda, ottusa, etc. Il termine, inteso come apparato della amministrazione statale, fu quindi coniato in Europa verso la metà del XVIII secolo, quando ormai era concluso in tutto il Continente occidentale il processo di costruzione dello Stato moderno, segnato dalla formazione di apparati di ufficiali e funzionari. Ma già alla fine del XVI secolo veniva elaborata una teoria dello “Stato burocratico”, che ebbe nel filosofo e giurista francese Jean Bodin (1529-1596), il suo più autorevole rappresentante e uno dei massimi teorici e sostenitori dell’Assolutismo monarchico, evidenziò nella sua pubblicazione “Sei libri della Repubblica” la funzione svolta dagli “ufficiali” nella vita dello Stato e ne sottolineò la collegialità nel lavoro e la gerarchia delle funzioni. Nel corso del XVIII secolo lo Stato, in alcuni Paesi europei, venne visto come un organismo avente per fine il conseguimento del bene pubblico, alla testa del quale si poneva il monarca primo burocrate a capo di una gerarchia di servitori dello Stato. Si trattava di una concezione soprattutto di Giuseppe d’Asburgo (1741-1789) e Federico II di Prussia (1712-1786), venata di tinte etiche e religiose che passò anche nelle “monarchie amministrative” dei primi decenni dell’800. Ed è anche in virtù di questa considerazione che gli esperti, già verso la fine dell’800, vedevano la burocrazia in crescita sino a stabilire legami sempre più stretti con la classe politica, dove le lotte avvengono “per influire sul potere tanto da condizionare la stessa classe politica e la burocrazia pubblica”. Il sociologo ed economista tedesco Max Weber (1864-1920) definiva la burocrazia come un sistema di norme e regolamenti impersonali, che governano l’attività all’interno della quale vi sono relazioni gerarchiche tra le diverse funzioni e i diversi poteri. Un modus  operandi costituito da norme di condotta, di doveri e procedure che vincolano ciascun operatore, per cui tale impostazione garantisce un massimo di efficienza agendo sulla base della divisione scientifica del lavoro. Ciò implica direttamente la gestione soprattutto degli esseri umani i quali devono essere organizzati per conseguire finalità specifiche . Secondo Weber s’impone così una situazione di potere il quale non è altro che la capacità di predire, con la massima precisione, i comportamenti altrui. Inoltre, all’inizio del ‘900, Weber pensava alla burocrazia come a una “gabbia d’acciaio” che avrebbe alla fine prodotto la pietrificazione delle società occidentali, ne avrebbe prosciugato ogni energia, ne avrebbe svuotato l’anima. In quei termini, la sua profezia non si è ancora realizzata. In Italia, però, i segnali ci sono da tempo e permangono tuttora.
Tra pragmatismo e inefficienza della burocrazia in Italia

In Italia, quello che si potrebbe definire “comportamento burocratico”, o “modus operandi”, era inizialmente gestito dal pragmatismo piemontese dello Stato Sabaudo, ed era indice di attività produttiva al servizio del cittadino in quanto i tempi di produzione di un documento erano rigorosamente programmati e rispettati, come testimonia una “Circolare interna” di un capo sezione ministeriale dell’ottobre 1966. Da tale modalità risalta, quanto a derivazione, il termine “burocratese” che indica un linguaggio, una maniera di esprimersi attenta alla forma, all’interpretazione letterale, invece che al contenuto… deve parlare poco (troppo se con finalità diverse…) e, se lo fa, deve usare i termini del Regolamento, il burocratese, appunto, perché sa bene che in questo modo non si fa capire, ma è esattamente quello che vuole raggiungere! «Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi»  (Galileo Galilei, 1564-1642). Paradossalmente, un tempo (sino agli inizi del ‘900) il burocrate impersonava il massimo dell’efficienza. Ad esempio, per redigere il “Decreto di Concessione” di un sussidio il tempo impiegato era di 20 minuti, per la relativa copiatura 15 minuti, per la redazione stessa 5 minuti, e 1 minuto per la registrazione del documento. Inoltre, per l’esecuzione di ben 15 operazioni amministrative complessivamente non si doveva superare 1 ora e 17 minuti, in considerazione del costo per lo Stato (nel dettaglio: carta, inchiostro, illuminazione degli uffici, tempo degli impiegati rapportato al loro stipendio, etc., per un totale di 1 lira e 12 centesimi). Oggi, queste operazioni richiederebbero giorni, settimane o mesi a costi proporzionalmente incalcolabili. Infatti, persiste tuttora un mondo di carte bollate (un po’ meno, forse, quelle protocollate) e soprattutto di e-mail; uno “stile” che si porta nella vita, almeno quella di ufficio, e questo, nonostante il progresso tecnologico-informatico e la costante tendenza al risparmio, mentre bisogna fare i conti con lo spreco e le evasioni… ma questo è un altro capitolo. L’impiegato pubblico del 1861, e quindi soprattutto nel primo ventennio dello Stato unitario, è lo specchio fedele dell’Italia Sabauda e piccolo borghese: piemontese, monarchico, moderato, sostenitore degli ideali risorgimentali. La sua carriera si apre con un lungo periodo di apprendistato durante il quale deve sostenere sacrifici economici in proprio. La legge del 1853, oltre a disciplinare i rapporti tra i vari uffici e nazionalizzare l’organizzazione amministrativa, istituisce il protocollo d’archivio: il protocollo è la registrazione di atti dove la comunicazione scritta sostituisce quella orale; l’archivio è la memoria storica dell’amministrazione e serve a consultare i casi precedenti. Per la sua conformazione sociale, culturale e politica la burocrazia appare per dei valori sui quali costruire l’Italia borghese e moderata: il senso dello Stato, il rispetto dell’autorità costituita, l’organizzazione gerarchica dei rapporti tra gli uomini. È su questo terreno che le fratture interne alla burocrazia post-umanitaria si ricompongono e nasce la classe dirigente amministrativa nazionale e si afferma la lingua dei burocrati (il burocratese). Lo scambio tra carriere politiche e carriere amministrative è la norma per una classe dirigente che garantisce al Paese competenza tecnica nel governo e sensibilità politica nell’amministrazione, salvando così la moralità pubblica. L’identità culturale e sociale con il personale politico appare senza residui. E fin verso la fine dell’800, come si deduce dai regolamenti ministeriali dell’impiegato modello, si sono imposti valori fondamentali: religione, modestia, attività, solerzia, serietà, lealtà, probità, fedeltà illibatezza, incorruttibilità, morigeratezza, zelo, abnegazione, sacrificio, merito o valore civile, cavalleria, affetto alle Istituzioni, ai colleghi (cameratismo), ai Superiori, al Capo dello Stato, alla sua famiglia, alla Patria, loro difesa, amore dell’ordine, condotta irreprensibile, vestire decente, studio e lavoro indefessi. La fine del secolo rappresenta per il mondo burocratico una svolta decisiva. Vengono meno le condizioni che avevano reso possibile i legami tra carriere politiche e carriere burocratiche. Il burocrate italiano scopre definitivamente una propria identità culturale distinta e distante dal mondo della politica, il rapporto politica-amministrazione cambia, non c’è più l’osmosi degli anni precedenti ma vi è una burocrazia che muta al mutare della domanda politica e sociale. La burocrazia, ovvero questo modo di lavorare del dipendente della P.A., funzionò decorosamente fino all’inizio del ‘900, anche in ragione del fatto che la qualifica di addetto al pubblico impiego era considerata un “onore” malgrado la modesta retribuzione; questi impiegati avevano un senso di appartenenza quasi di “devozione” per lo Stato poiché il senso del dovere era un requisito non richiesto, bensì scontato. Il posto statale assumeva così un significato di compensazione tanto che l’impiegato statale si sentiva un privilegiato e quindi legato alla classe politica da un rapporto di subordinazione. Ma dove ha avuto inizio l’inversione di questo “modus operandi” del burocrate? E quale è stato il punto di deterioramento della P.A. fino a farla divenire quella che è ancora oggi, almeno in parte, la vergogna di un Paese (l’Italia) che si reputa democratico, efficiente e competitivo in molti settori ed il cui apparato statale è invaso da clientelismo, nepotismo e assenteismo (vedi l’emergente fenomeno dei cosiddetti “furbetti del cartellino”) contro la P.A. (infedeltà), e con un livello di produttività che talvolta lascia a desiderare?

Come si è evoluta l’Amministrazione in Europa

La Francia di Napoleone III aveva ereditato del periodo napoleonico una burocrazia corposa e ben distribuita sul territorio, una organizzazione ben definita, composta da migliaia di funzionari di ceto medio o piccolo borghese. Tale apparato costituiva già allora un motore centrale della piccola borghesia francese. Anche la Germania, in prossimità della conclusione del suo processo di unificazione nazionale, attraverso i modelli organizzativi di stampo militare, l’ideologia del servizio di Stato, l’identificazione delle qualità del funzionario avrebbe segnato il modello della burocrazia imperiale. La Gran Bretagna poteva vantare da oltre un secolo le performances di un’amministrazione formatasi all’interno della tradizione imperiale. Si stava instaurando la rivoluzione del governo amministrativo dell’Età vittoriana (‘800/’900). Il Regio Decreto del 1904 tolse il controllo sulle “piante organiche” dei Ministeri alle Direzioni Amministrative per affidarlo invece al Parlamento; provvedimento che segnò lo sfascio dando adito ad un incontrollato processo di assunzioni clientelari con cui i parlamentari si garantivano un bacino notevole di “voti di scambio”… Nel nostro Paese, alla fine del 1861, a seguito dell’Unità d’Italia, su circa 25 milioni di abitanti, i dipendenti pubblici erano 3.000 o poco più, tra impiegati amministrativi in genere e dipendenti dei Ministeri, collocati negli apparati centrali. Sono diventati 11.000 nel 1876 e circa 90.000 alla fine del secolo, e nel 1999, quasi 3,5 milioni: in 138 anni sono aumentati complessivamente di 1.200 volte, con una crescita di 7 volte l’anno. Nello stesso periodo la Francia e la Gran Bretagna avevano già corposi apparati pubblici.  Secondo Eurostat, in Italia la percentuale di dipendenti pubblici sul totale occupati era nel 2016 del 14%, contro la media Ue del 16%. Il dato italiano, in forte diminuzione dal 2000, è fra i più bassi d’Europa. Quando non era possibile l’assunzione in pianta stabile, si faceva massiccio ricorso al precariato, che di li a poco rivendicava la stabilizzazione (l’assunzione a tempo indeterminato), incrementando gli organici di gran lunga oltre il necessario. L’impiego pubblico diventava un mezzo per stabilizzare la società ed il numero degli impiegati pubblici cresceva notevolmente e, nel periodo giolittiano, sono soprattutto due i fenomeni da sottolineare: la meridionalizzazione e la sindacalizzazione della P.A.

Inoltre si insinuò la piaga della inefficienza e della lentezza che nacque nel 1900 quando, con il fiorire degli studi giuridici del momento, nella mente dei governanti si insinuò l’assurda convinzione che alla base della P.A. dovesse esserci, più che la fattiva esperienza maturata sul campo, la non conoscenza del diritto amministrativo: non c’era popolazione più dedita alla speculazione fine a se stessa di quella meridionale (mi si perdoni, ma è realtà storica). Gli impiegati meridionali della P.A. avevano una formazione soprattutto filosofica, giuridica, umanistica tanto da “soppiantare” il pragmatismo piemontese con una cultura astratta. Laddove prima prevaleva il burocrate che si formava sul campo, ora invece prevale la formazione scolastico-universitaria. La P.A. fu così invasa da eserciti di laureati e diplomati semplici studenti meridionali che, una volta entrati nella “cittadella statale”, aprirono le porte come uscieri, fattorini, archivisti, segretari, portaborse più o meno definibili come tali, etc., a un esercito di parenti (nepotismo) e amici (clientelismo) “meridionalizzando”, per così dire, in modo irreversibile la burocrazia. Tale sistema da allora è diventato sinonimo di macchinosità, lentezza, ritardi, complicazione, ossequio (e anche servilismo) ai potenti, e arroganza verso i deboli (cittadini-utenti-contribuenti); caratteristiche della maggior parte dei pubblici impiegati in quanto retaggio mediterraneo. Il burocrate è quindi colui che fa per non concludere mai (o quasi), e la “pratica” esiste per essere spostata e sempre demandata ad altri; anche se il passare sul proprio tavolo è essenziale: essenziale ma inutile al fine della sua conclusione. L’Italia, uscita stremata dalla guerra, stava cominciando a risollevarsi: negli anni ’50 si profilò infatti quel boom economico che sarebbe poi esploso nel decennio successivo e da più parti emersero richieste di modernizzazione dell’apparato burocratico dello Stato in modo da favorire la ripresa del Paese. Qualcosa in effetti si mosse: nel 1950 fu istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Ufficio per la riforma burocratica, destinato a diventare negli anni ’80, dopo fasi di intenso lavoro e altre di stasi, il Dipartimento della Funzione Pubblica. Alla metà degli anni ’50 le parole d’ordine che ispiravano l’azione dell’Ufficio erano tre: semplificazione dei procedimenti amministrativi, modernizzazione degli uffici attraverso l’introduzione di nuove tecnologie (che per l’epoca erano, ad esempio, le macchine fotocopiatrici), e attenzione alle “relazioni pubbliche e umane”, dove per relazioni umane si intendevano quelle interne e per relazioni pubbliche quelle fra amministrazione e cittadini. Il “silenzioso” pragmatismo dei piemontesi si sostituì alla più ciarliera e pigra indole dei campani e dei romani, noti pianificatori di quel vezzo noto come “pausa”, elemento distintivo della mentalità prevalentemente meridionale: pausa caffè, pausa giornale, pausa spesa, pausa salottiera, pausa sigaretta, per poi trascendere nell’assenteismo sfacciatamente riferito ai furbetti del cartellino, etc. Ma anche il Fascismo ebbe le sue colpe: nell’intento di assicurarsi la fedeltà della categoria che era già cresciuta di diversi milioni che, con le famiglie, rappresentava un terzo del consenso nazionale ed esautorando (mi si passi questo termine) nel contempo i sindacati, assoggettando il pubblico impiego con privilegi e garanzie in cambio della fedele adesione al regime. Si potrebbe affermare che la funzione della burocrazia è di amministrare il comportamento pubblico secondo regole imposte dal potere, qualsiasi esso sia: totalitario o democratico. Per esempio, l’orario spezzato con una pausa lunga trasformato in orario unico: dalle 9.00 alle 16.00 con intervallo per il pranzo dalle 12.30 alle 13.30, poi anticipato dalle 8.00 alle 14.00 tutti i giorni dal lunedì al sabato per un totale di 36 ore lavorative. Ciò ha favorito l’immenso fenomeno (nemmeno tanto sommerso) del secondo lavoro (in nero) degli statali, causa non secondaria della disoccupazione e dell’evasione fiscale. Oggi, per rispondere alle esigenze sempre più impellenti del cittadino-utente, gli orari di sportello al pubblico della maggior parte degli Enti pubblici e di molti servizi sono accessibili anche nel pomeriggio, solitamente sino alle ore 16.00; in altri casi (per la verità più rari) le prestazioni vengono erogate anche al sabato mattino; ma questa disponibilità è molto disomogenea. In questi ultimi decenni nei concorsi pubblici la disciplina fondamentale era quella del diritto amministrativo e la P.A. proprio quando diventava una forma di compensazione sociale assumeva un corpo dominato da logiche assolutamente corporative da cui derivava il grande mutamento dell’epoca: la sindacalizzazione. Grande responsabilità la ebbero, infatti, anche i sindacati che, per imporre la propria egemonia nell’ampio scenario dell’impiego pubblico, oltre a perpetuare i tradizionali privilegi (garanzia perenne del posto di lavoro, con impossibilità di licenziamento, facilitazioni per ottenere trasferimenti nell’ambito del lavoro e residenziali, pensione anticipata, etc.). Negli anni successivi le cose non sono migliorate… «Ancora negli ’80 l’impiegato pubblico – spiega Guido Melis, docente di Storia della Amministrazione Pubblica – continuava a rappresentare un ruolo pressoché esclusivo meridionale, il che si traduceva nella tendenza a disertare gli uffici al Nord per avvicinarsi alla provincia d’origine; continuava ad avere una preparazione di tipo giuridico formale, il che si risolveva nella scarsissima propensione per l’innovazione e nella rigidità degli schemi culturali; continuava infine ad essere scarsamente produttivo, da cui derivava un ostacolo per lo sviluppo del sistema economico. Se le retribuzioni erano decisamente inferiori a quelle del settore privato, i carichi di lavoro medio apparivano in vistoso calo e l’orario in pratica limitato a 6 ore effettive giornaliere su sei giorni, tant’è che molti dipendenti pubblici avevano un’altra occupazione». A questo proposito fece scandalo il periodo delle “baby pensioni” tra il 1973 e il 1992 (per le donne sposate e con figli erano sufficienti 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi; per i lavoratori statali erano sufficienti 20 anni di contributi, per i dipendenti di Enti locali erano sufficienti 25 anni di contributi), che hanno costantemente elevato barricate contro la meritocrazia, livellando tutto verso il basso e coprendo anche i comportamenti più censurabili come l’assenteismo e la scarsa produttività oltre alla inefficienza… Per non parlare poi della “emarginazione” o della scarsa considerazione dei non titolati, ossia dei cosiddetti autodidatta… e degli invalidi. Ed è anche per queste ragioni che il burocrate trova nei Partiti, soprattutto nella D.C. e nella maggioranza del Governo, validi protettori, e oltre che nell’opposizione, lo scontento dei pubblici impiegati non trova orecchie sorde. Negli anni ’50 inizia una nuova fase di interventismo statale: dal Fascismo si ereditano Enti ed Uffici e si viene a consolidare il potere all’interno della P.A. In questo periodo fallisce, però, ogni tentativo di modernizzazione dello Stato sino a vanificarsi ogni suo sforzo e quindi di dotarsi di una amministrazione che proceda con scioltezza tra i vari settori. I dipendenti continuano a crescere e questi incrementi dipesero anche dal tentativo non riuscito di non assumere gli avventizi (coloro che pur entrando come precari diventano impiegati statali a tutti gli effetti dopo un certo periodo di tempo). È nella memoria di tutti la battuta di Antonio De Curtis (1898-1967), in arte Totò: «Siamo uomini o caporali?». Una gag diventata di dominio comune con la quale il “principe della risata” stigmatizzava la cattiveria, quella elargita a titolo gratuito da parte di chi avendo poco potere si arroga il diritto (e se ne compiace) di esercitare tale potere su chi ritiene a lui inferiore, inerme, o comunque più debole… I caporali, in senso lato, sono persone a loro volta “deboli”, che umiliano altre persone loro pari, supportati da quel po’ di vigliaccheria ritenendosi più forti, il cui ruolo, però, si inverte di fronte ad altri più forti e potenti… Sovente li troviamo attivi nel territorio della burocrazia, regno incontrastato dal quale dominano, a volte “dettando” legge e imposizioni… Prendeva così piede il fenomeno del mobbing.

Contro la raccomandazione

Anche se suona come retorica, di tanto in tanto nel nostro Paese c’è chi leva una crociata contro le raccomandazioni. E questo da più parti: mass media, opinione pubblica, esponenti politici (rari), associazioni, opinionisti, etc.; ma dopo poco tutto tace e la battaglia contro questo malcostume che tale è perché in molti casi è eccessivamente “mal riposto”, è ancora una volta sopraffatta. In Italia farsi raccomandare in ambito pubblico è sempre stata una “regola” per ogni circostanza: un posto di lavoro, lo snellimento di una pratica, avanzamento di carriera, etc. A volte, soprattutto se il caso è di una certa importanza, la “spintarella” fa ottenere il risultato sperato, magari a scapito di chi ne avrebbe veramente bisogno per diritto, per urgenza o per mera meritocrazia. Anche se abbiamo raggiunto le pari opportunità questo “allegro” fenomeno non tende a ridimensionarsi, tanto da confluire nella corruzione ad ogni pie’ sospinto, e le obiezioni si perdono nel vuoto… Farsi raccomandare solitamente significa scomodare una persona importante, o in qualche modo influente, e per avvicinarla a volte è necessario mettersi in coda e, una volta avvicinata, spogliarsi della propria umiltà e scendere a compromessi. Ma chi ricorre ad una raccomandazione non è detto che sia umile, anzi l’egoismo e la sfacciataggine non hanno limiti… In altri casi, non è detto che si raggiunga l’obiettivo, allora si torna sui propri passi, delusi ma decisi a riprovare individuando un’altra fonte. Ma sarebbe comunque saggio ed onesto porre fine a questo malcostume sociale che non arricchisce nessuno ma, al contrario, penalizza libertà e diritti dei più meritevoli (che non intendono scendere a compromessi, ossia al noto agire “do ut des”), il cui rispetto può essere garantito dall’etica e dal buon senso civico di tutti… influenti e non. Da qui in poi la cosiddetta "fuga dei cervelli e degli eterni disoccupati e precari... Moltissimi gli aforismi in merito, ma uno vale per tutti, nell’ambito del lavoro, a firma dello scrittore  Michele Acanfora: «Diritto a tutti di lavorare dignitosamente? Penso che oggi questo diritto sia garantito solo a chi ha la strada spianata per mezzo di conoscenze e favoritismi. Tutto il resto che rimane è destinato a tanti poveri sfortunati, dotati di talento e volontà, che purtroppo per loro sfortuna non conoscono politici o altri come loro che hanno potere ma non dignità».

Il “macchinoso” funzionamento del Governo


Tralasciando le frasi storiche, il cui riferimento è sempre attinente alla realtà dei tempi successivi, viene ora da porsi un quesito: ci siamo mai chiesti cosa fa funzionare i Governi? I motori sono infiniti. Ma ve n’é uno però che costituisce il comune denominatore: la carta, fatidico e inalienabile (anche se oggi un po’ meno con l’avvento dell’informatica, della digitalizzazione e delle varie opportunità telefoniche) strumento del burocrate. Montagne e quintali di carta per emanare leggi, decreti, normative, procedure, protocolli e quant’altro, anche se in questi ultimi anni sono state mandate al macero centinaia di leggi concettualmente e giuridicamente superate. Da notare il perpetuarsi delle leggi è dato dal fatto che per applicarne una, ad esempio, si debba fare riferimento ad altre, e per la relativa applicazione, spesso un testo legislativo enuncia una “formula” di questo tipo: premesso che, dato atto che, accertato che, verificato che, riscontrato che, rilevato che, richiamato il/i, considerato che, ritenuto che, valutato che… (finalmente) promulga/delibera la seguente legge… E questa impostazione nonostante l’effetto della legge 59 del 15/3/1997 sulla Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed Enti Locali, per la Riforma della P.A. e per la semplificazione amministrativa (“Legge Bassanini”), la cui interpretazione è solitamente demandata agli “addetti ai lavori”, ossia i dipendenti della P.A. (i burocrati preposti, appunto), alcuni ottimi esecutori, altri meno, delle disposizioni emanate dalla P.A. e, a monte, dal legislatore. Ma non sono mai mancate (e non mancano) le difficoltà interpretative ed applicative che sono dovute soprattutto a quello che si può definire “elefantiasi legislativa”, ossia l’innumerevole messe di legge: nel 1997 ne erano attive poco meno di 200 mila, a fronte delle poco più di 7 mila della Francia, 5 mila della Germania e 3 mila della Gran Bretagna), che si susseguono, modificando peraltro quelle appena emanate il giorno prima… «Un considerevole numero di leggi – ebbe a dire tempo fa il magistrato, e già procuratore di Venezia, Carlo Nordio – non può coesistere e per rispettarne una si finisce immancabilmente per violarne un’altra». Una constatazione lapidaria ma obiettivamente reale, tanto che richiama alla memoria quanto sosteneva Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu (1585-1642): "Promulgare una legge e non farla rispettare, equivale ad autorizzare ciò che si vuole proibire". Di fronte alla “insoddisfazione” per la mancanza di leggi o per la non applicabilità di alcune di esse (anòmia legislativa), verrebbe da citare l’avvocato statunitense Clarence Darrow (1857-1938) il quale sosteneva: «Le leggi dovrebbero essere come gli abiti: dovrebbero adattarsi perfettamente alle persone per le quali sono state fatte». Per quanto riguarda la pletora legislativa negli ultimi anni sono stati presi alcuni provvedimenti. Con il Decreto Legge n. 112 del 2008, convertito con modificazioni nella Legge n. 133 del 6/8/2008, si è prodotto un taglio di circa 7.000 leggi tra abrogazioni espresse (3.370) e abrogazioni implicite concernenti disposizioni obsolete, inutili o già di fatto abrogate. Il testo, inoltre, contiene numerose misure di semplificazione della normativa a favore dei cittadini e delle imprese. Il Decreto Legge n. 200 del 2008, convertito nella Legge n. 9/2009, ha abrogato circa 29.000 leggi ritenute ormai obsolete. In particolare, sono state abrogate tutte le norme primarie del Regno d’Italia che erano ancora vigenti. Altre consistenti riforme che si sono avute nella P.A. hanno visto la luce a partire dal 1990 con la Legge n. 142 sul “Riordino delle autonomie locali”, con la Legge n. 241 sul “Procedimento amministrativo” e con la Legge n. 223 sul “Sistema radiotelevisivo pubblico e privato” rimangono ancora oggi i punti di riferimento della P.A. Il contenuto della trasparenza amministrativa può essere individuato in quelle norme dell’Ordinamento che regolano la partecipazione al procedimento amministrativo con le relative forme di controllo, l’accesso alle informazioni che riguardano tutte le attività svolte dalle amministrazioni e le forme di comunicazione tra Amministrazione e cittadini. Con il Decreto n. 29 del 1993 è stato introdotto l’obbligo di istituire apposite strutture per l’informazione ai cittadini, ed al fine di garantire la piena attuazione della Legge  n. 241 del 1990 ("Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi") per la creazione degli Uffici di relazione con il pubblico (URP). Gli Urp sono chiamati a provvedere al servizio dell’utenza per i diritti di partecipazione e alla formulazione di proposte per il miglioramento relativo agli atti e allo stato dei procedimenti. La “non professionalità” (e quindi incompetenza) degli operatori, è data verosimilmente dalla scarsa attitudine alla comunicazione, oltre al fatto che non sempre vengono attivati i corsi di formazione previsti dalla Legge 150/2000 (“Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni” ). Nel nostro Paese, uno dei mezzi di comunicazione dello Stato è la Gazzetta Ufficiale (G.U.) che viene pubblicata tutti i giorni (meno i festivi) in ossequio al principio giuridico secondo il quale ogni Atto avente forza di legge deve essere reso pubblico. Dall’1 gennaio 2013 il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha messo a disposizione gratuitamente la Gazzetta Ufficiale in formato digitale. Il servizio, tradizionalmente rivolto perlopiù agli addetti ai lavori del ramo giuridico (e politico), cambia con il preciso obiettivo di avvicinare i cittadini alla legge dello Stato. Tutte le nuove edizioni, le serie storiche e la banca dati a partire dal 1946 saranno rese disponibili sul sito www.gazzettaufficiale.it. Quasi sempre, però, l’interpretazione di leggi, decreti, emendamenti, normative, etc. (soprattutto in ambito fiscale, sanitario e socio-assistenziale) è “solo” accessibile agli addetti ai lavori; ma a volte, anche ai cittadini più “intraprendenti” e “determinati” nel perseguire le finalità: la conoscenza dei doveri e il rispetto dei propri ed altrui diritti. Non sono pertanto da sottovalutare i princìpi della nostra Costituzione (entrata in vigore l’1 gennaio 1948) che consta di 139 articoli e XVIII Disposizioni finali.

Cultura dei diritti e dei doveri


È difficile, se non impossibile, concepire che l’uomo possa vivere al di fuori di una stabile organizzazione collettiva, capace di assicurargli il conseguimento di quei fini che non potrebbe raggiungere se vivesse isolatamente. La storia della civiltà umana è un susseguirsi di convivenze collettive, dalle più semplici alle più complesse che si evolvono fino allo Stato democratico e di diritto per l’affermazione dei princìpi di libertà e di giustizia, patrimonio dell’umanità. Per il rispetto di questa sono necessarie quelle regole di convivenza che, previste dall’Ordinamento Giuridico, diventano diritti e doveri, diritti riconosciuti al singolo come tale e diritti che il singolo acquisisce in funzione della sua appartenenza alla collettività. Concetti, questi, che sono esplicitati dalla nostra Costituzione nei princìpi fondamentali (12 articoli), dei diritti e dei doveri (42 articoli), ordinamento della Repubblica (85 articoli), che sono raggruppati in rapporti civili, etico-sociali, economici e politici. In una libera collettività l’uomo non può ignorare che ai diritti si accompagnano sempre i doveri: il diritto nasce dalla consapevolezza del dovere compiuto. Ma per essere in grado di affrontare la burocrazia non è sufficiente  (dimostrandolo) di essere dalla parte della ragione, è necessario avere delle basi culturali (l’istruzione in senso accademico è relativa). La cultura, si sa, è un complesso di cognizioni che ciascuno possiede (o dovrebbe possedere); ma è anche il complesso della vita intellettuale di un popolo in una determinata epoca. Lavorare ed impegnarsi per il miglioramento della propria cultura, significa contribuire al miglioramento della società; un preciso dovere nostro, di uomini e cittadini, senza per questo privarci della nostra libertà. In effetti, in ogni uomo trasferiamo la somma della nostra conoscenza e della nostra capacità di pensare. Poiché la capacità di apprendimento è soggettiva il valore acquisito in cultura è un patrimonio personale inalienabile, che deve essere possibilmente tramandato come utile confronto. Non esistono diritti a cui non corrispondono altrettanti doveri, né viceversa. Anzi, si può affermare che se in ogni campo (famiglia, scuola, lavoro, società, affari, etc.) questi due concetti venissero sempre rispettati congiuntamente, la vita sarebbe migliore per tutti sotto ogni aspetto; ma purtroppo questa è utopia. E a questo riguardo, c’è ragione di credere che il rapporto fra diritti e doveri subisce nel tempo una evoluzione lenta ma costante, anche se non siamo ancora vicini a quel tipo di società ideale in cui i cittadini vedono tutti i loro diritti rispettati e assolvono (se onesti e coerenti) tutti i loro doveri senza eccezione. È quindi opportuno che ogni individuo riconosca lealmente i propri obblighi e li adempia con senso di responsabilità morale, per contribuire in modo efficace al progresso della società alla quale appartiene. E poiché tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità, come si afferma all’art. 1 della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, l’appartenenza a una collettività organizzata politicamente non può peggiorare questa sostanziale condizione dell’uomo, il quale facendo parte dello Stato si aspetta il riconoscimento di determinati diritti, e quindi la determinazione di mezzi idonei ad assicurarne il godimento accettando limitazioni, obblighi e doveri nel rispetto armonico degli interessi generali con quelli particolari; anche se non mancano eccezioni come il diritto-dovere (dovere civico) di recarsi alle urne che, di fatto, non è però un obbligo e pertanto si ha il diritto di astenersi. A questo proposito è utile precisare che dovere civico significa che l’esercizio del diritto di voto, ad esempio, è un dovere morale e politico del cittadino: la blanda sanzione prevista dalla legge per chi si astiene senza motivo dal voto (l’iscrizione per un periodo di cinque anni sul certificato di buona condotta, ormai non è più necessario per la partecipazione ai pubblici concorsi, con la dizione “non ha votato”) non è praticamente applicata, ormai da molti anni. Ma il cittadino-utente compie sempre i propri doveri, o antepone i diritti a questi ultimi? Anche se il concetto di diritto implica un ricco complesso di norme, è bene conoscere alcuni elementi del Diritto stesso. Per diritto quindi, si intende un complesso di regole (o norme) la cui efficacia, per essere tale, significa due cose: che le norme siano osservate e, quando queste sono violate, intervenga il meccanismo delle sanzioni il cui riferimento è al Codice Civile e al Codice Penale. Il rapporto fra diritti e doveri in questi decenni ha subito una evoluzione costante, anche se non siamo ancora vicini a quel tipo di società ideale in cui i cittadini vedono tutti i loro diritti rispettati e assolvono tutti i loro doveri senza eccezione. É bene  però che i rappresentanti della P.A. diano il buon esempio. Un diritto è tale solo quando si può trovare una parte che ha l’obbligo di realizzarlo spontaneamente e che è obbligata coattivamente, ossia anche con imposizione (in forza di legge) della Magistratura ad attuarlo, qualora non adempia agli obblighi che la legge prescrive. Un diritto è esigibile quando la normativa individua chi deve fare cosa: solo in tal modo garantisce (o dovrebbe garantire) attuazione concreta, in modo spontaneo o attraverso intervento giuridico richiamante l’obbligo.

Diritti essenziali

È noto che in fatto di diritti civili l’Italia non è tra i Paesi più brillanti, e ciò è imputabile ai mali antichi della P.A. (oltre ad una serie di leggi che andrebbero rivedute o abolite, come alcuni articoli del Codice Civile e del Codice Penale), della giustizia, mal costumi generalizzati (clientelismi, nepotismi, raccomandazioni, rapporti di potere a diversi livelli, corsie preferenziali, etc.); come pure la scarsa sensibilità sull’argomento della cultura giuridica e non, ed infine le innumerevoli evoluzioni in materia giurisprudenziale. Pertanto è forse utile un ripasso della conoscenza dei vari tipi di diritto. Diritto privato: insieme delle norme che regolano i rapporti fra i privati, siano essi personali o atti di commercio. Diritto pubblico: insieme delle norme che hanno per oggetto l’organizzazione dello Stato, di tutti i suoi organi, dei politici e dei rapporti tra tali organi e i privati; è suddiviso in Diritto internazionale: comprende tutte le norme che regolano i rapporti fra gli Stati, e Diritto interno: che si occupa dei rapporti fra i cittadini e lo Stato, e dell’organizzazione che regge tali rapporti, a sua volta è suddiviso in vari diritti: amministrativo, commerciale, finanziario, penale, etc. Diritto costituzionale: include i princìpi fondamentali e riguardano diritti personali e costituzionali come il diritto di agire, di capacità, di arte e scienza, di libertà, assicurazioni sociali obbligatorie, di assistenza sociale, di associazione, atti di disposizione del proprio corpo, di atti politici, di autodeterminazione, di azione civile, di beni culturali, di bilinguismo, di capacità giuridica, di certezza di diritto, di libertà di circolazione e soggiorno, di cittadinanza , di competenza del giudice, di consuetudine, di decenza pubblica, di difesa, di diritto soggettivo, di domicilio, di principio di eguaglianza, di elettorato attivo, di elettorato passivo, di emancipazione, di identità personale, di immigrazione, di inabilitazione, di incapacità di intendere e di volere, di integrità fisica, di integrità morale, di interdizione, di intimità privata, di principio di legalità, di libertà personale, di manifestazione di pensiero, di nascita, di nome, di parità di trattamento, di parità uomo-donna, di persona giuridica, di petizione, di residenza, di diritto alla vita, di volontariato, etc. La garanzia del riconoscimento dei propri diritti dipende soprattutto dal comportamento e dal grado di civiltà (e onestà) di ciascuno; come pure dalla capacità individuale di agire in difesa di quelli che ripetutamente definiamo “diritti”, nei confronti dei quali ognuno di noi agisce come può, come sa, come quanto e crede di sapere… Ma spesso si perde di vista il fatto che per ottenere il rispetto di un proprio diritto, bisogna battersi con costanza e coerenza attraverso la conoscenza del problema che si vuole risolvere, con un continuo aggiornamento (le fonti non mancano) e “allenamento” sulla interpretazione delle leggi e delle relative disposizioni per far fronte al proprio interlocutore, sia esso burocrate o rappresentante di ente privato. Tutti elementi che devono rammentarci che viviamo all’interno di uno Stato: ordinamento giuridico che esercita il proprio potere su un dato territorio e sulle persone che si trovano in esso (ma la sovranità appartiene concretamente al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione?), al cui interno opera un Governo: organo costituzionale al vertice del complesso di organi che costituiscono il potere esecutivo; tale Stato è formato da Regioni: enti autonomi con una propria popolazione, un proprio territorio e propri poteri, che esercita secondo le norme dettate dalla Costituzione; ogni Regione ha più Province: enti autonomi che rappresentano una Circoscrizione di decentramento statale e regionale (nonostante quello che si afferma da più parti) non sono state abolite in quanto l’abolizione avrebbe comportato una riforma costituzionale non solo per eliminare l’organo, ma anche per rivedere l’intero sistema delle autonomie locali per la conseguente ridistribuzione delle funzioni ora in capo alle Province, sic!); ogni Provincia è formata da più Comuni: enti locali che possono essere definiti come l’unità elementare dell’organizzazione che la Regione e la Provincia risultano dall’insieme di più Comuni. In ogni Provincia è presente la Prefettura: organo del Governo preposto alle funzioni relative a tutti i settori dell’Amministrazione locale.

Giustizia e responsabilità


Ancora oggi, sia pure in forma minore, la P.A. soffre di molti mali come la sua difficilmente controllabile (e spesso arzigogolata) elefantiasi legislativa, anche se in questi ultimi anni c’è stato qualche segnale di snellimento, e le condizioni di insoddisfazione di gran parte del personale appaiono fra le cause più dirette della crisi… Ne sono eclatante esempio le procedure e l’iter delle pratiche che spesso procedono lentamente (fin troppo), come pure la “diversa” e “insufficiente” cultura del burocrate stanno a significare che il lavoro è mal distribuito, che non c’è idonea ripartizione dello stesso e quindi delle rispettive competenze. A questo proposito Oscar Wilde (1854-1900) sosteneva: «La maggior parte degli uomini e delle donne è costretta ad assumere un ruolo per il quale non ha nessuna attitudine: il mondo è un palcoscenico sul quale le parti sono assai mal distribuite». Una sentenza che si è protratta nel tempo, e ciò, anche per il fatto che nella cultura italiana la meritocrazia (in ogni ambito professionale, socio-culturale e del non profit) non ha mai prevalso. Nel nostro Ordinamento è facile imbattersi in infiniti “tipi” di giustizia fra i quali sono fondamentali quello infallibile e quello fallibile… «Sfido chiunque – scriveva nel 2004 la storica firma del giornalismo, Vincenzo Tessandori – a trovare un solo addetto ai lavori, avvocato, giudice o pubblico ministero, che sia soddisfatto del nuovo Codice  di Procedura Penale (C.P.P.). Ne dicono tutti male, è un coro generale di avvocati e di giudici. Avrebbe dovuto snellire ed abbreviare, e invece appesantisce (ancora oggi, nda) il funzionamento con steccati inutili, come l’udienza preliminare, che serve solo a burocratizzare l’ambiente». E a questo riguardo va ricordato che l’art. 28 della Costituzione, relativo ai Diritti e Doveri dei cittadini, testualmente recita: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Una delle più frequenti responsabilità dei dipendenti della P.A. è l’omissione che può essere dolosa o amministrativa. E c’è ancora la tendenza, frutto di desiderio del “quieto vivere”, di accettazione fatalistica ed acritica della realtà come essa si presenta, di princìpi acquisiti di irresponsabilità, di senso di impotenza, volta a non cercare quasi mai colpevoli singoli, a non individuare specifiche responsabilità, a colpevolizzare tutti, e quindi nessuno, coinvolgendo in un giudizio negativo tutta la burocrazia, specie romana, assommata al potere politico. In particolare, per quanto riguarda la responsabilità civile dei magistrati, la stessa esiste dal 1865 nel Codice di Procedura Civile (C.P.C.) e questo significa che, da quando esistono i Codici, è previsto che quando il magistrato sbaglia si proceda al pagamento della “riparazione per la ingiusta detenzione”. La persona offesa dall’azione o dall’omissione potrà avanzare le sue lamentele soltanto nei confronti dello Stato che poi, se lo riterrà opportuno, agirà contro il magistrato attivando una causa (un’ipotesi che non si è quasi mai verificata). Il magistrato è un soggetto munito di un potere incisivo, non risponde di ciò che fa neppure nei casi di colpa grave; risponderà nell’ipotesi di dolo solo se il fatto costituisce reato. Ma non bisogna dimenticare che in oltre mezzo secolo di Repubblica, oltre 4 milioni di cittadini italiani hanno subìto una detenzione che si è poi rivelata ingiusta: erano innocenti! A questo riguardo vale la pena rammentare la Riforma del Codice di Procedura Penale (C.P.P.) del 25 ottobre 1989, che tanto fece (e fa) discutere cittadini e addetti ai lavori. Significativo il contributo del penalista Agostino Viviani (Siena 1911-Milano 2009), che a quell’epoca scrisse due volumi “La degenerazione del processo penale in Italia” (Ed. Sugarco) e “Il nuovo codice di procedura penale: una riforma tradita” (Ed. Inf. & Commenti). Pubblicazioni (che ho recensito più volte) che avevano il sapore di una vera e propria denuncia della disfunzione del nostro sistema giudiziario, un atto di “coraggio” supportato da una lunga esperienza e da un paziente lavoro di indagini e ricerche tra gli Atti penali nei vari tribunali d’Italia: una sorta di “scarnificazione” del processo, tant’è che il titolo del secondo volume non lascia dubbi sul giudizio dato dallo scrittore-avvocato sul sistema penale italiano. Convinto sostenitore del seppur tenue ma intramontabile diritto della “difesa sociale” (quella dei poveri, per intenderci), questo che è stato il principe del Foro milanese per oltre mezzo secolo, ha ricevuto molti consensi per le sue opere letterarie. Il previsto impoverimento degli “effetti giustizia”, allora come  oggi (come ho avuto modo di precisare più volte) sta a sottolineare come il legislatore (per alcuni versi burocrate per “eccellenza”), quando promulga una nuova disposizione di legge, fa come quell’elefante che calpestata una quaglia, cercò di rimediare sedendosi sulle uova dell’uccello per tenerle calde! Nel 1990 l’avvocato Viviani fu invitato a Torino per tenere una conferenza sul tema: “Il pentito: questo sconosciuto”. Un incontro-dibattito che ha contribuito a meglio illustrare la somma delle inefficienze della nostra legislazione che, per ordinamento e vizi burocratici, non è da ritenere tra le più garantiste per un Paese che si autodefinisce democratico. Una legislazione che, per non smentirsi, non risparmia neppure la “categoria” dei pentiti: non certo priva di fratture e debolezze al suo interno, tant’é che a Lucca corre un vecchio detto: “Se i pentimenti fossero camicie, uno avrebbe un bel guardaroba”. Nel corso della sua appassionata esposizione, quasi come se fosse una arringa in una Corte di Assise il penalista, senza mezzi termini precisò: «Tra questi individui non c’è quasi mai chiarezza per stabilire la sincerità del pentimento; una condizione, questa, che non di rado trascende in veri e propri atti d’accusa e di delazione per salvarsi o trarne qualche tipo di vantaggio». Un problema che “condiziona” non poco il sereno corso della giustizia che, se si specchia nel tanto decantato C.P.P., vede sempre più allontanarsi la possibilità di adeguarsi alle convenzioni internazionali ed allo sviluppo della cultura giuridica. «Ma c’é chi sostiene – concluse Viviani – che la Costituzione sia da modificare, tutta o in parte; in realtà basterebbe semplicemente applicarla». E se si dà per scontato che ogni riforma era in precedenza un’opinione personale, si può dedurre quanto sosteneva il giurista, critico letterario, e uno dei padri della Costituente, Piero Calamandrei (1889-q956): «Quando per la porta dell Magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». Come dire anche che, quando (ancora oggi) per la porta della Legge entra la burocrazia, l’efficienza esce dalla finestra… se non addirittura dalla porta stessa.

Mobbing: un “nemico” che si può affrontare. A volte basta volerlo


È un fenomeno di grande rilevanza sociale, in continua ascesa prevalentemente in ambito lavorativo privato, ma poiché interessa anche i lavoratori della P.A. che viene in conflitto proprio con il burocrate, necessita di essere meglio conosciuto (sia pure in sintesi) per prevenirlo o affrontarlo. Il “segreto” di una soluzione non è sempre l’azione legale, in quanto a volte sono sufficienti una buona cultura, una grande determinazione e padronanza di sé…, senza ripensamenti. Se ne parla da molto tempo ormai di vessazioni e soprusi sul posto di lavoro, fin troppo ma non abbastanza per capire quali sono le cause che originano il fenomeno definito mobbing. Ma cosa significa esattamente questo termine, moderno, ormai diventato purtroppo di moda? E quanti sanno di cosa si tratta e magari ne sono coinvolti? È una parola che deriva dal sostantivo “mob” che in inglese significa “folla disordinata, rumorosa e aggressiva”, e in tedesco “plebaglia” o “branco”, nell’accezione sociologica con cui questo termine viene usato in italiano. In pratica sta ad indicare tutte le sopraffazioni, le violenze gratuite di tipo psicologico (e non sempre sono i superiori a metterle in atto) che molte persone devono sopportare soprattutto sul posto di lavoro, sia in ambito pubblico che privato e in quasi tutti i settori. Il mobbing può essere orizzontale, ossia quando la persecuzione è diretta contro un pari grado, all’interno di un ambiente relativamente chiuso; verticale dal basso verso l’alto della gerarchia, o viceversa. Dal basso quando per esempio un docente viene “bersagliato” e delegittimato dagli allievi, o un dirigente dai suoi dipendenti. Molto più frequente (secondo Sandra Carrettin e Nino Recupero, autori della pubblicazione “Il mobbing in Italia. Terrorismo psicologico nei rapporti di lavoro”) è il mobbing verticale dall’alto: nel caso di un ambiente gerarchico dove i superiori scatenano l’ostracismo contro un dipendente che per una qualsiasi ragione è diventato scomodo. Questa forma di mobbing viene chiamata tecnicamente  “bossing”. Si tratta di una vera e propria patologia sociale le cui cause sono molteplici che vanno dalla flessibilità alla ristrutturazione in ambiente lavorativo, dal modo di intendere i rapporti umani, sempre più negativo in qualunque contesto sociale… e che in Italia pare essere molto diffusa: oltre un milione di lavoratori (ma la cifra è probabilmente sottostimata). Ma a parte le cifre chi, in particolare, è colpito da mobbing? Sicuramente chi dimostra maggiore professionalità, chi denuncia guasti e ritardi nell’organizzazione aziendale del lavoro, chi propone interventi e soluzioni (regolarmente respinte), chi acquisisce una professionalità o un grado culturale tanto da evidenziare (sia pur indirettamente) debolezze, inefficienza, ingiustizie… e reati nei vari gradi gerarchici, come pure chi non è gradito per mera antipatia… Paradossi? Sembrerebbe di si, ma questa è la realtà, oltre a sottomettere coloro che non sanno o non hanno il coraggio di reagire; compresi i disabili che sono stati assunti (sia in ambito pubblico che privato per “imposizione” di legge, la quale è ritenuta dai datori di lavoro una sorta di coercizione; e questo, nonostante la legge dell’1/3/2006 n. 67  relativa alle "Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni". Tutte queste ed altre situazioni provocano tensioni, stati d’ansia, paure e condizioni di stress che con il passare degli anni diventano insopportabili tanto da causare nei soggetti “più deboli” una condizione patologica di competenza medico-psicologica e/o psichiatrica, e magari anche legale. Per quanto riguarda la responsabilità il Dlgs 38/2000 relativo al danno biologico e al suo risarcimento economico, ribadisce le responsabilità penali del datore di lavoro, che dovrebbe pagare di tasca propria quanto commesso o ingiustamente tollerato. A questo riguardo la Cassazione, con la sentenza n. 16148, ha accolto il ricorso di due impiegati che per quasi dieci anni hanno subito minacce, aggressioni, lesioni personali da parte dei colleghi (ma il datore di lavoro non ha fatto nulla per aiutarli nonostante le richieste), delineando anche una responsabilità del datore di lavoro, che non aveva vigilato sul comportamento dei dipendenti che vessavano la coppia. Il tribunale ha riconosciuto che per la prescrizione del reato non conta la data di inizio delle minacce ma la data della sentenza che proscioglieva i colleghi.  Ma come provare la persecuzione e le relative responsabilità? Indubbiamente in non pochi casi non è sempre facile. Oltre a dover dimostrare con prove concrete quanto si è subìto (dichiarazioni verbali e scritte, testimonianze di colleghi, eventuali registrazioni, etc.) è molto importante che la persona colpita da mobbing (gravi ricatti “non dimostrabili” a parte) sia dotata di una forte determinazione e costanza nel perseguire i propri interlocutori responsabili della sua condizione psicofisica. Ma è altrettanto importante raggiungere un grado culturale (e magari anche giuridico, per quanto possibile) che può essere di grande sostegno per “spiazzare” in alcuni casi certi arroganti e despoti, evitando spiacevoli e lunghe, oltre che costose, azioni legali; mentre sarebbe sufficiente (almeno inizialmente) fare una formale diffida e/o denuncia cautelativa, impostandola in un certo modo senza il timore di eventuali ritorsioni… Sul territorio sono oggi presenti associazioni e patronati (oltre naturalmente a studi legali): la legislazione e le sentenze non mancano, ma molto dipende anche dagli stessi interessati oggetto di mobbing.

Come comportarsi quando si ha bisogno delle prestazioni di un Ente Pubblico


Può capitare che ogni cittadino (buon contribuente e talvolta suddito del sistema…) si trovi a dover frugare tra paragrafi e postille di leggi dimenticate o disapplicate…, spesso incomprensibili; o scrivere senza posa dettagliate e perentorie lettere e/o e-mail per esposti, denunce, querele, diffide, etc. Ma anche a far anticamera, bussare alle porte più resistenti a schiudersi per essere ricevuto da questo o quel burocrate per esporre un disservizio o il mancato rispetto di una procedura al fine di ottenere il rispetto di un determinato diritto, o più semplicemente per l’approfondimento e/o ulteriore spiegazione di una norma; ma il più delle volte, però, senza ottenere un apprezzabile risultato perché il burocrate di riferimento (o chi per esso) non sa come porsi e quali procedure adottare. Per non parlare poi dell’andamento attuale che consiste nel fatto che molti burocrati (assessori, dirigenti e funzionari) tendono a non ricevere a colloquio un cittadino, pregandolo di far domanda per un incontro formale motivando tale richiesta; ma poi, se al suddetto “conviene” dà udienza, diversamente accampa una qualunque scusa per non ricevere… Quindi è bene che ogni cittadino, prima di intraprendere una “azione” o un dialogo con il burocrate, dipendente di una qualunque struttura pubblica, acquisisca la conoscenza del Diritto e l’importanza della informazione, considerando nel contempo i significati di Cultura e Istruzione. Su queste basi, e non sottovalutando che la burocrazia è sinonimo di potere e che la Legge non ammette ignoranza (“ignorantia legis non excusat”), oltre ad agire con razionalità, tolleranza ed un pizzico di diplomazia (buon senso e tatto), il cosiddetto cittadino-utente-contribuente può pretendere una maggiore considerazione e rispetto dei propri (ed altrui) diritti, dopo aver espletato, bene inteso, i propri doveri. È quindi necessario informare e comunicare in modo comprensibile, esaustivo e possibilmente in tempo reale. Per evitare di essere confinati in un limbo senza speranza, sovente percorso da delusioni, è opportuno non fermarsi davanti al muro di gommapiuma della burocrazia, senza aggirarlo per le italiche vie traverse, tanto meno scendere a compromessi neppure quando ci fanno capire, strizzando l’occhio che, suvvia, una mano lava l’altra e che tutto si può “arrangiare” (il compromesso è un ottimo ombrello, ma un pessimo tetto!). Un manuale pratico di “autodifesa” civile in taluni casi potrebbe essere considerato una sorta di preparazione, un “salvacondotto” per chiunque (basta acquistarlo), ossia uno strumento di conoscenza delle possibilità di godere dei diritti specie quando si è in condizione di svantaggio sociale: tutti possono aver bisogno dei servizi erogabili dalla P.A. e di dover superare ostacoli burocratici (indifferenza, ignoranza, prepotenza, arroganza, etc.); e questo proprio perché la categoria, come avviene in ogni settore, è composta anche da pessimi dirigenti e funzionari che non muovono un dito anche se c’è la immancabile circolare interpretativa, magari opponendosi con una personale ed arbitraria interpretazione… Anche per queste ragioni c’è da credere a chi sostiene che il miglior burocrate è colui che, partendo da una soluzione, riesce a trovare il maggior numero di problemi… Tuttavia, è un diritto del cittadino essere ricevuto, e un dovere (ma non obbligo) di questo o quel burocrate riceverlo, nel rispetto reciproco del proprio tempo (in alcune situazioni anche in tempi brevi). Ma non è insolito per il cittadino comune dover bussare alle porte della P.A. per essere ricevuto e ascoltato dal burocrate di turno, talvolta assente o poco puntuale, tal’altra sostituito ”improvvisamente” da un collega non preposto per quel servizio, o in comoda posizione di “riposo” per sentirsi dire una serie di lapidarie affermazioni o giustificazioni (spesso banali), come queste:

L’abbiamo sempre fatto così – Non sapevo che fosse urgente – Non è di mia competenza – Nessuno mi ha dato l’ok! – Come facevo a saperlo, secondo lei/voi? – Lavoro suo, non mio – Aspettiamo che torni il capo (o il titolare della pratica) e sentiamo lui – Non ci capita spesso di fare errori – Non sapevo che fosse importante – Ho tanta di quella roba da fare che non riesco proprio a fare anche questo – Pensavo di averlo fatto – Non sono stato assunto per questo – Le procedure non consentono deroghe – La legge non l’ho fatta io – Se non le conviene si rivolga a chi di dovere – É indispensabile rispettare l’iter burocratico – Non sono pagato per perdere tempo…”.

Per meglio affrontare il burocrate e superare relative ed eventuali difficoltà è bene, ad esempio, conoscere la Legge n. 241 del 7/8/1990, G.U. del 18/8/1990 n. 192 (la cosiddetta legge della trasparenza), relativa alle “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti amministrativi” con la quale si è prefisso l’obiettivo di “segnare” la strada degli Atti amministrativi, con il diritto-dovere di individuare in ogni momento le responsabilità e definire le competenze dei pubblici amministratori. Il regolamento di attuazione della legge ribadisce che «il diritto di accesso è esercitato nei confronti di tutte le P.A. e dei concessionari di pubblici servizi da chiunque vi abbia interesse personale e concreto per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti». La legge sul procedimento amministrativo e sul diritto di accesso agli atti ha costituito un importante momento di codificazione di regole e principi amministrativi frutto di decenni di elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria. La lunga gestazione della legge di riforma (Legge 15/2/2005) testimonia la difficoltà di intervenire su un tessuto normativo fondamentale per la disciplina dei rapporti tra le P.A. e i cittadini ed anche nella fase di riforma il legislatore ha tratto spunto dalla consistente opera interpretativa dei giudici amministrativi per incidere sugli strumenti già esistenti, al fine di renderli più efficaci, e ne ha introdotti di nuovi. Riguarda perciò, non solo i Ministeri e le Amministrazioni centrali dello Stato, ma anche tutti gli altri Enti pubblici purché non economici (ad esempio l’INPS, AGENZIE, CONSORZI, COMITATI, etc). In pratica il cittadino può, anche da solo, intimare agli Uffici pubblici di risolvere il suo problema amministrativo, avere notizie (entro 30 giorni) sul corso dello stesso, leggere gli Atti che lo riguardano, conoscere il nome del funzionario responsabile. Il funzionario o l’incaricato della P.A., che senza giustificato motivo rifiuta un Atto del suo ufficio, o in subordine di dare una determinata informazione al cittadino richiedente, commette il reato di omissione di Atti di ufficio (art. 328 del Codice Penale), perseguibile d’ufficio. Questa esigenza, ossia le richieste di prendere visione degli atti amministrativi non sono insolite, ma spesso il cittadino è rinunciatario nel pretendere tale diritto e il più delle volte non sa del diritto di perseguire tale violazione per via legale. Ma la “categoria”, come avviene in ogni settore, è composta anche da ottimi funzionari, spesso preparati ed attenti; altre volte invece da pessimi operatori: incapaci, non aggiornati, svogliati e insofferenti al loro ruolo e talvolta anche offensivi nel confronti dell’utenza. Dietro ad una inefficienza pubblica (di ogni ordine e grado) c’è sempre una “regia”: il burocrate, vero e proprio regista di “film” i cui attori protagonisti involontari sono i cittadini-utenti, ossia i contribuenti o sudditi del sistema… grazie a questa incapacità addestrata, tanto che Weber sosteneva che la burocrazia è tra le strutture (o sistemi) più difficili da alienare. Ma non meno importante è da sottolineare il comportamento del cittadino che ad essi si rivolge, non solo allo sportello ma anche e soprattutto a colloquio con il dovere civico di porsi secondo una procedura comportamentale razionale e non priva di umiltà. Pertanto sarebbe utile adottare una serie di consigli pratici ogni qualvolta si intende contattare un esponente della P.A. per avanzare una qualsivoglia richiesta, o la segnalazione di un disservizio dopo aver (inutilmente) contattato l’URP. Ecco, dunque, una sorta di vademecum per come porsi nei confronti del burocrate. Una verità che si va perpetuando e sembra essere irreversibile tanto che gli aforismi si sprecano tra fantasia, ironia e cruda realtà con le quali bisogna fare i conti ogni giorno. Dunque, sarebbe bene agire in questo modo:

ü  Presentarsi sempre in modo chiaro (nome e cognome, ruolo…)

ü  Quando l’esigenza lo richiede fissare l’appuntamento con l’interlocutore che si vuole avvicinare (alcuni burocrati gradiscono o pretendono di essere preavvisati…); è lecito farsi rappresentare da persona o Ente privato (o Associazione) di propria fiducia

ü  Esporre in modo completo ma sintetico il problema in questione (la dispersione dei concetti spesso spazientisce l’interlocutore, specie se in presenza di terze persone

ü  Dimostrare di essere a conoscenza dei fatti che si intende esporre

ü  Essere coerenti e non dispersivi: incertezze e imprecisioni favoriscono la conclusione affrettata del colloquio

ü  Essere a conoscenza delle destinazioni degli Enti e possibilmente delle competenze dei rispettivi responsabili (farsi ripetere più volte ruoli e destinazioni può “indisporre” l’interlocutore)

ü  Essere educati e rispettosi, ma non servili (un comportamento civile e riguardoso invoca stima e considerazione)

ü  Essere tolleranti (spazientirsi è controproducente: non bisogna dimenticare che siamo sempre noi “cittadini-utenti” ad aver bisogno del burocrate…)

ü  Essere dotati di un minimo di diplomazia (quando è il caso è utile riconoscere i meriti e “gratificare” quel tanto che basta senza incensare nessuno).

ü  Ringraziare (senza ossequiare) sempre chi si presta per noi, soprattutto se questi non è tenuto a soddisfare le nostre richieste.

ü  Mai fare nomi di persone od Enti se non è strettamente necessario (o giustificatamente richiesto) in quanto riferimenti o citazioni inopportune, specie se di fatti o persone assenti, possono indurre l’interlocutore a giudizi e considerazioni negative nei nostri confronti.

ü  Annotare con “discrezione”, durante o dopo i colloqui, i dati che interessano, compreso il nome del nostro interlocutore (ciò può essere utile in futuro)

ü Rilasciando documenti originali (soprattutto se firmati) all’Ente o al burocrate, pretendere sempre una fotocopia o copia conforme all’originale. Quando è il caso, con data, timbro e firma per ricevuta. In taluni casi è bene trattenere gli originali (se non espressamente richiesti) e rilasciare fotocopia al burocrate

Purtroppo, alla luce dei fatti, non sono pochi i cittadini che piuttosto che assumere un atteggiamento di difesa dei propri diritti (pur avendo espletato i propri doveri), vi rinunciano passivamente e, per questo, sono oggetto di quanto sosteneva Alessandro Manzoni (1785-1873): «Noi uomini siamo fatti così: ci rivoltiamo sdegnati contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi». Constatazioni che rispecchiano la realtà quotidiana, e questo vale nei Paesi liberi (come il nostro), dove la libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono, ma purtroppo di fare anche ciò che si vuole; e poiché anche la conoscenza è potere, nessuno conosce le proprie possibilità finché non le mette alla prova. Non di rado capita di subire torti, ingiustizie, soprusi, violazioni, e quant’altro sia nei rapporti con il privato che con il pubblico; ed è saggio rigettare ogni pensiero di “vendetta” e tendere al perdono… Non si perdona qualcuno perché lo si accetta: si perdona chi ha commesso un torto inaccettabile… Quando si perdona qualcuno non è necessario tollerare ciò che ha fatto perché lo si può perdonare anche rifiutando di tollerare le sue azioni. Bisogna fare in modo che le relazioni sociali in qualunque contesto (anche in ambito pubblico) e i discorsi siano migliori del proprio silenzio; al contrario, piuttosto, è conveniente tacere. «Ma sbagliare è umano – sosteneva la scrittrice statunitense Ann Landers (1918-2002) – perché tutti i giorni ognuno di noi prende delle decisioni capaci di cambiare il corso della nostra vita. Nessuno, per quanto avveduto ed esperto, può prendere ogni volta la decisione più giusta. Sbagliare non è una vergogna. È vergogna non imparare dagli errori, non risollevarsi dalle cadute, non scuotersi la polvere di dosso e tentare di nuovo». È quindi doveroso proporsi nei confronti dei nostri concittadini più “penalizzati”, trasmettendo loro nozioni e consigli pratici per aiutarli a superare (per quanto possibile) ostacoli e difficoltà causate dalla burocrazia o dalla semplice ignoranza… E, come sosteneva il filantropo e premio nobel per la Pace, Albert Schweitzer (1875-1965): «L’esempio non è la cosa che influisce di più sugli altri: è l’unica cosa». Del resto la speranza sostiene la nostra capacità di vivere nel periodo e nelle difficoltà senza esserne sopraffatti; la speranza (ma c’è chi la chiama fede) è la volontà di lottare contro gli ostacoli anche quando appaiono insuperabili. È l’incoraggiamento a tenerci in vita, senza di esso moriamo lentamente, fra la tristezza e la rabbia. Tali suggerimenti di saggezza alludono in qualche modo alla saggezza che dovrebbe essere “padrina” delle nostre, spesso, incontrollate pulsioni soprattutto quando ci troviamo a dover affrontare un’ingiustizia…

L’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP)


È dell’allora ministro per i Beni e le Attività Culturali (dal 2003 al 2005), Giuliano Urbani, la decisione di istituire gli Uffici Relazioni con il Pubblico (URP), ma vi sono realtà in cui tale realizzazione pratica è assente o poco operativa. Il Dlgs n. 29/93, art. 12, prevede l’obbligo per tutte le P.A. di aprire l’URP e la legge dell’11/7/1995 n. 273 stabiliscono che tali uffici svolgano le seguenti funzioni:

ü  Garantire ai cittadino la partecipazione, l’accesso ai documenti ed, in generale, all’informazione sulle attività dell’Amministrazione di cui alla Legge 7/8/1990 n. 241 e successive modificazioni;

ü  Rilevazione delle esigenze dei cittadini, con relative proposte per il miglioramento dei rapporti tra Amministrazione e collettività;

ü  Promozione e realizzazione di interventi di comunicazione per assicurare la conoscenza delle norme dei servizi erogati, dei diritti dei cittadini;

ü  Proposte, alla propria Amministrazione, di procedure più snelle, nel caso in cui quelle adottate risultino poco efficaci;

ü  Attuare, mediante l’ascolto dei cittadini e la comunicazione interna, i processi di verifica della qualità dei servizi e di gradimento degli stessi da parte degli utenti;

ü  Garantire la reciproca informazione fra l’ufficio per le relazioni con il pubblico e le altre strutture operanti nell’Amministrazione, nonché fra gli URP delle varie Amministrazioni.

L’informazione e la comunicazione nella P.A.

La Legge n. 150 del 7/6/2000 Disciplina le attività di informazione e comunicazione delle P.A. Per la prima volta (grazie a questa legge) la comunicazione è “protagonista della scena normativa”. L’informazione e la comunicazione vengono definitivamente legittimate e riconosciute come costanti delle azioni del governo nella P.A. Tale legge riconosce inoltre la valorizzazione delle competenze necessarie per gestire attività e funzioni di comunicazione (art. 4) come momento fondamentale. Vengono altresì identificate (art. 6) per la realizzazione di queste funzioni. Al 4° comma si evince: “nel rispetto delle norme vigenti in tema di segreto di Stato, di segreto d’Ufficio, di tutela della riservatezza dei dati personali e in conformità ai comportamenti richiesti dalle carte deontologiche”, sono considerate attività di informazione e di comunicazione istituzionale quelle poste in essere in Italia e all’estero dai soggetti di cui al comma 2 e volte a conseguire:

l’informazione ai mezzi di comunicazione di massa, attraverso stampa, audiovisivi, e strumenti telematici

la comunicazione esterna rivolta ai cittadini, alla collettività e ad altri enti attraverso ogni modalità tecnica ed organizzativa

la comunicazione interna realizzata nell’ambito di ciascun ente

Le attività di informazione e di comunicazione interna sono finalizzate soprattutto a:

illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative al fine di facilitarne l’applicazione,

illustrare le attività delle Istituzioni e il loro funzionamento,

favorire l’accesso ai servizi pubblici promuovendone la conoscenza,

promuovere conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale,

favorire processi interni di semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli apparati nonché la conoscenza dell’avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi;

promuovere l’immagine delle Amministrazioni, nonché quella dell’Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e visibilità ad eventi d’importanza locale, regionale, nazionale e internazionale.

L’art. 2 evidenzia che le attività di informazione e comunicazione si esplicano anche attraverso la pubblicità, le distribuzioni e le vendite promozionali, le affissioni, l’organizzazione di manifestazioni e partecipazione a rassegne specialistiche, fiere e congressi. Inoltre, sono attuate con ogni mezzo di trasmissione idoneo ad assicurare la necessaria diffusione dei messaggi anche attraverso la strumentazione grafico-editoriale, le strutture informatiche, gli sportelli, etc. l’Art. 6, comma 1 precisa che le attività di informazione si realizzano attraverso il “Portavoce” e l’Ufficio Stampa, e quelle di comunicazione attraverso l’Ufficio per le Relazioni con il Pubblico, nonché attraverso analoghe strutture quali gli sportelli per il cittadino, gli sportelli unici della P.A., gli sportelli polifunzionali, gli sportelli in genere, etc.  L’art. 7 stabilisce: “l’organo di vertice della P.A. che può essere coadiuvato da un Portavoce, anche esterno all’Amministrazione, con compiti di diretta collaborazione ai fini dei rapporti di carattere politico-istituzionale con gli Organi di informazione”. Relativamente ai limiti dell’attività del Portavoce, incaricato dal medesimo organo, non può, per tutta la durata del relativo incarico, esercitare attività nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche. Il comma 2 è relativo al compenso e stabilisce che al Portavoce è attribuita una indennità determinata dall’organo di vertice nei limiti delle risorse disponibili appositamente iscritte in bilancio da ciascuna Amministrazione per le medesime finalità.

Gli Uffici Stampa (art. 9 Legge n. 150)

Comma 1. Le Amministrazioni Pubbliche possono dotarsi anche in forma associata di un Ufficio Stampa, la cui attività è in via prioritaria indirizzata ai mezzi di informazione di massa. Comma 2. Gli Uffici stampa sono costituiti da personale iscritto all’Albo nazionale dei giornalisti. Tale dotazione di personale è costituita da dipendenti della P.A. anche in posizione di comando o fuori ruolo, o da personale estraneo alla P.A. in possesso di titoli individuati. Comma 3. L’Ufficio stampa è diretto da un coordinatore, che assume la qualifica di capo ufficio stampa il quale, sulla base delle direttive impartite dall’organo di vertice dell’amministrazione, cura i collegamenti con gli organi di informazione, assicurando il massimo grado di trasparenza, chiarezza e tempestività delle comunicazioni da fornire nelle materie di interesse dell’amministrazione. Comma 4. I coordinatori e i componenti dell’ufficio stampa non possono esercitare, per tutta la durata dei relativi incarichi, attività professionali nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche. Va da sé che tali figure preposte all’informazione rientrano nella Carta dei doveri del giornalista degli Uffici stampa, che prevedono il rispetto delle Istituzioni di informare il cittadino, rispetto del diritto dei cittadini di essere informati, rispetto delle carte deontologiche, evitare situazioni di confusione tra il dovere di informare e esigenze di informazione personalistica, favorire il dialogo tra Ente e utente anche attraverso nuove norme di comunicazione, rispetto delle norme sulla privacy.

Il Patronato e le Associazioni di Volontariato

I patronati sono costituiti e gestiti da associazioni nazionali dei lavoratori (solitamente dai sindacati). Hanno il compito di assistere il cittadino nella impostazione e nel prosieguo delle pratiche burocratiche (pensione, posizione assicurativa Inps, malattia/invalidità, maternità, disoccupazione, etc.) Le Associazioni hanno in comune un art. del loro Statuto: “… non a fini di lucro”, ma a mio avviso sono veramente poche quelle in grado, attraverso i loro componenti, di affrontare situazioni di particolare impegno in difesa dei cittadini, spesso loro stessi associati, simpatizzanti… Il “vero” volontario deve essere un convinto sostenitore dell’intramontabile diritto della “difesa sociale”, e disponibile ad ogni iniziativa (senza sostituirsi alle Istituzioni) per il “recupero” dei diritti umani. Nel “non profit” bisogna orientarsi sempre in una direzione e non in ogni direzione. Si ritiene che l’Italia sia l’unico Paese europeo che abbia al suo attivo il maggior numero di associazioni di volontariato, parte delle quali svolgono azioni di intervento che spetterebbero alle Istituzioni pubbliche. Da ciò ne deriva che tale forza operativa tende a voler “sanare” (direttamente o indirettamente) il Welfare state. Una incongruenza davvero inconcepibile se si pensa, tra l’altro, che tale presenza potrebbe essere occupata da cittadini (“vera” forza lavoro) in cerca di un’occupazione, e che probabilmente ben si adatterebbero a ricoprire ruoli di utilità sociale. Ma è risaputo che l’obiettività e la razionalità, come la meritocrazia, sono atteggiamenti mentali e culturali in continuo declino.

Il Difensore Civico: chi è e cosa fa


Il difensore civico ha origini lontane. Nasce in Svezia nel 1807 e si chiama Ombudsman che significa “uomo che fa da tramite”, ossia mediatore. Nel nostro Paese questa figura compare per la prima volta nel 1974 in Toscana, ma solo nel 1990, con la Legge n. 142 sull’Ordinamento delle autonomie locali, dà la possibilità a Province, Comuni e Regioni di averne uno, definendone compiti e funzioni. «Il Difensore Civico – recita l’art. 8 – svolge un ruolo di garante dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione comunale, provinciale, regionale segnalando, anche di propria iniziativa gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi dell’amministrazione nei confronti dei cittadini». Per ottenere  la nomina a questo incarico occorre essere iscritti nelle liste elettorali di un qualsiasi Comune ed avere 18 anni di età. La legge non richiede altri requisiti, mentre alcune Regioni e/o Comuni richiedono, oltre al titolo di Laurea in Giurisprudenza, od altri titoli, anche una peculiare competenza giuridico-amministrativa e la garanzia di indipendenza, obiettività e serenità di giudizio. Anche un autodidatta potrebbe potenzialmente ricoprire tale incarico… se dotato di sufficienti basi di cultura generale. Il D.C. è una figura istituzionale che si colloca come strumento di tutela (pur non avendo particolari poteri…) di quegli interessi del cittadino spesso lesi da quei comportamenti diffusi nelle P.A., che si manifestano con lentezze, indifferenze, scorrettezze, negligenze, formalismi eccessivi, soprusi e talvolta anche abuso di potere. In Piemonte, ad esempio, l’idea di fornire ai cittadini uno strumento per difendersi dagli errori e dai soprusi delle P.A., ossia l’istituzione dell’Ombudsman piemontese, è una realtà dal 1981, anno in cui la Giunta Regionale con la Legge n. 50 ha istituito il D.C. ed è operativa dal 1982. Il Comune di Torino lo ha insediato nell’aprile del 1983 con la seguente motivazione: «A garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione comunale e per assistere i cittadini e gli utenti dei servizi nella tutela dei loro diritti». In sintesi questo “burocrate” è titolare di un servizio gratuito per il cittadino, solitamente è eletto da una Commissione composta da magistrati e presieduta dal presidente del Consiglio Regionale e Comunale; generalmente può essere un avvocato, un magistrato, un politico (ufficialmente attivo). Per quanto riguarda la Città di Torino la Legge nr. 42 del 26/3/2010 ha previsto la soppressione della difesa civica comunale. Sul territorio restano attivi gli uffici del D.C. regionale.

Perché “riabilitare” l’autodidatta

L’obiettività (e l’onestà intellettuale) ci porta ad affermare che nel nostro Paese tra i diplomati e i laureati vi sono individui di indubbia validità intellettuale; altri invece, oltre a far pesare il loro titolo accademico alla prova dei fatti non valgono il titolo acquisito. Per contro, esiste una schiera di persone autodidatta che, per le più svariate ragioni, non hanno potuto (o voluto) proseguire gli studi, ma che tuttavia si distinguono per “vivacità” intellettuale, esperienza e predisposizione naturale per questa o quella disciplina. Spesso queste ultime sono persone poco conosciute, emarginate e pertanto “mal distribuite” in ambito lavorativo e socio-culturale. Il loro mancato (ed obiettivo) riconoscimento da parte di accademici, burocrati e responsabili di Istituzioni pubbliche od Enti privati, suona come una sorta di ghettizzazione relegando gli autodidatta nel limbo dei “perdenti”, degli “inferiori”, degli “emarginati” o dei mobbizzati. Un atteggiamento, questo, che evidenzia la grave mancanza di obiettività con il rischio di “compromettere” la crescita sociale, culturale e professionale di quelle persone che sono in grado di dimostrare in qualunque momento di contribuire al PIL del proprio Paese; ma soprattutto di meglio “sacrificare” il proprio tempo, la propria salute, i propri affetti familiari, e a volte anche la propria dignità a garanzia di un’ottima risposta alle esigenze umane, culturali e professionali e… di mercato. Anche le persone autodidatta (come tutti i comuni mortali) sono dotate di una ragionevole dose di individualismo, proprio perché non si ritengono inferiori ad altre, pur essendo coscienti dei propri limiti. La convinzione di essere in grado di avere un preciso ruolo, di poter esercitare una determinata mansione, così come la capacità di esprimere i propri bisogni (impegnandosi a fondo) e nello stesso tempo anche i propri dubbi, e di accettare l’aiuto di altri, senza per questo sentirsi incapaci, nell’insieme sono caratteristiche che evidenziano in loro una buona autostima. Solitamente un’ottima risorsa che le aiuta a raggiungere i propri obiettivi e, a volte, anche ad autoaffermarsi. Ma non sempre è così per taluni “arroganti titolati” (ancor peggio se insigniti indebitamente di una laurea honoris causa) che, nel nostro Paese, sono in egual misura alcuni pseudo laureati e millantatori tanto da “favorire” il degrado di una società che avrebbe più bisogno di predisposizione piuttosto di una “imposizione”, sia accademica che professionale. Da notare che per partecipare ai concorsi pubblici, secondo le vigenti leggi italiane, quasi sempre tra i requisiti è richiesto il Diploma di Laurea; ma poco importa, una volta vinto il Concorso (per questa o quella disciplina) se il candidato ha, oppure no, la necessaria predisposizione per esercitare la mansione richiesta. Molto discutibile, poi, è il fatto che alcuni nostri ministri non possedevano un Diploma di Laurea, e ciò in contraddizione con la richiesta di un titolo di studio di Scuola Superiore da parte un cittadino comune che intende partecipare ad un concorso pubblico!

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Un saggio di aforismi sulla figura del burocrate

Burocrazia: un gigantesco meccanismo azionato da pigmei (Honoré de Balzac)

Se qualcosa può andar male, lo farà in triplice copia (Arthur Bloch)

La menzione delle noie burocratiche tra i motivi che giustificano il suicidio, mi sembra la cosa più profonda che Amleto ha detto (Emil Cioran)

Una delle radici della cattiva amministrazione, della burocratizzazione intesa in senso deteriore, consiste proprio nella pretesa di molti cattivi funzionari di limitarsi al “applicare” le norme: essi così facendo esercitano la loro discrezionalità in maniera non consapevole e comunque non orientata alla risoluzione dei problemi che sono appunto di competenza dell’amministrazione e sono la ragione stessa della sua esistenza, bensì orientata unicamente all’illusorio e mistificante adempimento delle disposizioni ricevute dall’alto (Massimo Corsale)

Un’organizzazione burocratica è un’organizzazione che non arriva a correggersi in funzione dei propri errori (Michel Crozier)

Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile (Carlo Dossi)

Gli presentano il progetto per lo snellimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modulo H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio competente, che sta creando (Ennio Flaiano)

Più burocratica è un’organizzazione, più grande è la misura in cui il lavoro inutile tende a rimpiazzare il lavoro utile (Milton e Rose Friedman)

I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata (Franz Kafka)

La burocrazia è lo Stato immaginario accanto allo Stato reale, è lo spiritualismo dello Stato (Karl Marx)

L’unica cosa che ci salva dalla burocrazia  è l’inefficienza. Una burocrazia efficiente è la più grande minaccia della libertà (Eugene Carthy)

Ciò che la gente rifiuta non è la burocrazia come tale, quanto piuttosto l’intrusione di essa in tutte le sfere della vita e delle attività umane (Ludwig von Mises)

Burocrazia: una difficoltà per ogni soluzione (Herbert Samuel)

Vi sono in cielo e in terra assai più cose di quante ne sogni la vostra burocrazia (Giovanni Soriano)

Burocrazia: l’incapacità addestrata

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Come tutelarci di fronte ad ingiustizie e soprusi?


Sono trascorsi secoli ma il genere umano continua a subire, nelle molteplici realtà, soprusi e ingiustizie di ogni ordine e grado da parte delle Istituzioni pubbliche (oltre che da privati) e, per quello che riguarda la realtà italiana, uno dei principali “nemici” da affrontare è proprio la burocrazia. É bene precisare che oltre ad essere intellettualmente onesti nell’asserire di aver ragione nei confronti della P.A., quando si incontrano ostilità e “chiusura” da parte della stessa bisogna armarsi di pazienza, tolleranza e diplomazia e anche un po’ di cultura giuridico-amministrativa. Ma poiché questi requisiti a volte non sono sufficienti (e sono di pochi) per far valere le proprie ragioni, un tentativo che possa essere in qualche modo utile a sostegno delle fasce deboli (disabili gravi, anziani, clochard, disoccupati, precari, etc.), è quello di fare riferimento alla filosofia-comportamentale dell’antico Ordine dei Templari, che come sappiamo per lungo tempo si dedicò alla difesa dei deboli. E per come vanno le cose in Italia in tema di ingiustizie e vessazioni a vari livelli e in diversi ambiti, mi consta che le molteplici realtà associative, per quanto votate al bene comune, non sono impostate (fatte le debite eccezioni) con l’intento della forte determinazione per difendere il cittadino-suddito dei sistemi perversi, quali la politica e la burocrazia, tanto che a volte deve ricorrere alla consulenza legale… A mio modesto parere sarebbe una ipotesi di iniziale soluzione ideare un corpus di “Moderni Templari”, votati a combattere le ingiustizie della quotidianità; e ciò può sembrare anacronistico o una provocazione (ovviamente non sovversiva) ma, nello stesso tempo, sostengo essere un’azione di carattere umanitario e quindi di solidarietà per ridare valore ai concetti di dignità e giustizia della persona offesa dal “nemico” burocrate; un’azione che personalmente da anni espleto in modo concreto (e non profit), sia pur con dei limiti… Concretizzare questo corpus formato da più persone è assai problematico, sia perché potrebbe non essere condiviso sia perché sarebbero rari i soggetti da individuare dotati di competenza, dedizione, determinazione e abnegazione. Ma al di là di questa che potrebbe essere una proposta definibile blasfema da molti, non mi pare esistano altre possibilità per superare i muri di gommapiuma, ossia le vere e proprie fortezze della Burocrazia. In attesa di veder nascere questo corpus di concreta solidarietà rammento che ogni giorno la paura bussa alla porta e, purtroppo, quando il coraggio va ad aprire, quasi sempre non c’è nessuno. E sta in questo aforisma che la maggior parte dei cittadini subisce le angherie e le sopraffazioni della burocrazia. Quindi, ben venga quel templare senza spada, scudo e destriero, ma dotato dei migliori intendimenti di uguaglianza e giustizia.

Bibliografia

“La burocrazia italiana: cultura, uomini e compiti dall’Unità al 1980”, di Davide Callegari; Università di Milano

“Il dottore è fuori stanza”, Libro bianco sull’assenteismo ministeriale; da il Movimento Diritti e Doveri; supplemento  al n. 34 de’ Il Duemila, 10/11/1988

“Adesso si può sapere il nome di chi tratta una pratica e in quanto tempo deve concluderla”, da Difesa Legittima, de’ Il Duemila, 15/10/1990

“I tuoi diritti”, il primo manuale pratico dell’autodifesa civile, di Amedeo Santosuosso; edizione Hoepli, 1991

“La Legge 241: finalmente un altro passo avanti”, da “Il Duemila, 5/10/1992

“Quando l’archivio è strumento di trasparenza”, da Aspe, 27/6/1994

“Il terzo libro di Murphy”; Ed Longanesi, 1994

“Cento volte ingiustizia. Innocenti in manette”, di B. Lattanzi e V. Maimone; Ed. Mursia, 1996

“La burocrazia”, di Guido Melis; Ed. Il Mulino, 1998

“Dizionario di educazione civica. Italiana e cittadini d’Europa”, di Alberto Sensini; Armando editore, 1999

“Storia della Pubblica Amministrazione in Italia”, da Globalizzazione 2000 (internet)

“Burocrazia fuori legge. Peripezie di cittadini e imprese  assediati dal gigante di carta bollata”, di Marco Rogari; Ed. Sperling & Kupfer, 2001

“La follia del mondo. Per una psichiatria della storia”, di Vittorino Andreoli; Ed. Marietti, 2003

“La Corte si ritira. Storie controverse di controversa giustizia”, di Vincenzo Tessandori; Ed. Boroli, 2004

“La costruzione di una burocrazia unitaria”, di Guido Melis, 2004

“La normativa sulla comunicazione pubblica”, da Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, di Alessandro Lovari; Università degli Studi di Siena, maggio 2007

“De jure condendo. Ammissibilità della perizia criminologica in sede processuale”, di Ernesto Bodini, da tavola rotonda sul tema: “Author and victim of Crime” al congresso internazionale di Criminologia e Psichiatria; Mantova 4-7 marzo 2010

“Il mobbing, un “nemico” da combattere: a volte basta volerlo”, di Ernesto Bodini, da ilmiogiornale.org, 27/11/2012

“Il peso abnorme della burocrazia e la ragnatela del non fare”, di Angelo Panebianco; Corriere della Sera, 14/7/2013

“La raccomandazione”, di Donatella, da Enigmistica n. 289, luglio 2013

“Dall’Educazione civica alla Cittadinanza e Costituzione, di Ernesto Bodini; da ilmiogiornale.org, 19/10/2015

“Dall’utopia al pragmatismo facciamo nascere i nuovi “Templari” della dignità umana”, di Ernesto Bodini; da ilmiogiornale.org 24/2/2018

“I templari oggi? In versione moderna per porre un limite alle pene di chi subisce ingiustizia”, di Ernesto Bodini; da ilmiogiornale.org 17/9/2019

“Sintesi di Educazione Civica. Ad uso della Scuola Secondaria Superiore, di Giuseppe Parisi











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