BREVE RIVISITAZIONE DELLA STORIA DELLA BUROCRAZIA IN
ITALIA
Sinonimo
di potere ed efficienza, ieri; di potere e quasi sempre inefficienza, oggi
(Utili
suggerimenti su come affrontarla)
a cura di Ernesto Bodini
La
burocrazia è sempre stata (ed è) un problema di difficile (se non impossibile) soluzione in quasi tutta Europa, ed in particolare nello Stato con il più alto
numero di leggi, come l’Italia. C’è quindi ragione di sostenere che i Paesi
cosiddetti civili ed evoluti, per la questione burocrazia, si possano dividere
in due essenziali categorie: Paesi
burocratici e Paesi aburocratici… Poiché la burocrazia è molto poco
conosciuta nel suo contesto originale e spesso crea danno alla società, ritengo
sia utile trasmettere alla collettività alcune nozioni storico-culturali (sia
pur sintetiche ma esaustive), ma soprattutto pratiche, affinché ciascuno possa
affrontare al meglio le difficoltà quotidiane “imposte” proprio dalla
burocrazia, prevenendo, per quanto possibile incomprensioni, perdite di tempo,
inutili coinvolgimenti dei mass media, e a volte, anche ricorsi a consulenze
legali con le conseguenti parcelle che, a mio dire, in molti casi si potrebbero
evitare con il conforto di una felice soluzione dei propri problemi, talvolta
anche in tempo reale. Ci sono Paesi nelle cui popolazioni predominano doti come
rispetto meticoloso dell’ordine esteriore, senso della gerarchia, osservanza
della forma, sentimento del dovere (a volte anche maniacale), assiduità nel lavoro,
etc. (doti che si possono interpretare come note particolari del perfetto
funzionario); altri, nelle cui popolazioni queste doti mancano o, almeno,
difettano in quanto esistono e abbondano “qualità” come mentalità individualistica,
insofferenza alla disciplina e quindi al dovere, discontinuità di applicazione,
ricchezza di iniziativa personale spesso controproducente, etc., il cui
complesso ci dà un tipo di umanità che è l’opposizione del “diligente” e più
razionale burocrate. In quest’ultimo caso si tratta, a mio parere, di un
fenomeno prevalentemente italiano che tutti conoscono ma che ben pochi sanno
“contrastare” in difesa dei propri ed altrui diritti, dopo aver espletato, bene
inteso, i propri doveri. La burocrazia spesso produce danno alla società, fa
delle vittime: è un sistema che blocca l’azione, relegandola ad una decisione che
quasi nessun burocrate prenderà mani, o quasi… La burocrazia “positiva”, quella
di una volta, fa parte della storia; quella che ne è derivata nel corso dei
decenni non solo è “negativa”, ma è identificabile in quel malcostume,
purtroppo perpetuo (anche se oggi per certi versi un po’ ridimensionato) che non
si può però alienare, ma sicuramente controbattere con onestà, cultura,
perseveranza e determinazione. E questo, a condizione di essere sempre dalla
parte della ragione espletando i propri doveri, prima di pretendere qualunque
diritto.
Un ripasso di Educazione Civica (Il dovere di un tempo e anche di oggi)
Se la saggezza e la memoria vanno
di pari passo alcuni (sicuramente pochi) ricorderanno che, negli anni
successivi alla Costituzione della nostra Repubblica, l’Ordinamento scolastico
della Scuola dell’obbligo prevedeva l’insegnamento di Educazione Civica.
Infatti, fu Aldo Moro (1916-1978), ministro della Pubblica Istruzione dal
febbraio 1957 al maggio 1959, il primo ad introdurre nel 1958 tale insegnamento
nelle scuole medie e superiori: due ore al mese obbligatorie, affidate al
professore di Storia, senza valutazione. Ma con gli anni, questa “materia” di
grande utilità e saggezza (tanto ieri quanto oggi), per una crescita civile, è
andata via via perdendosi per lo “scarso interesse” didattico, ma a mio avviso
soprattutto per la scarsa ricezione da parte delle nuove (moderne?) generazioni
di scolari e studenti, ma anche da parte dei politici che si sono susseguiti
nelle varie Legislature. Ma cosa si intende per educazione civica? È lo studio delle forme di governo di una cittadinanza, con
particolare attenzione al ruolo dei cittadini (loro doveri e diritti), alla
gestione e al modo di operare dello Stato. All’interno di una determinata
politica o tradizione etica, è riportato da tutte le fonti esplicative,
l’educazione civica consiste sostanzialmente nell’educazione dei cittadini. La
storia a riguardo risale alle prime teorie formulate in proposito da Platone
(428-347 a.C.) nell’antica Grecia e da Confucio (551.479 a.C.) in Cina. Questi
autori hanno contribuito l’uno in Occidente, l’altro in Oriente, a gettare le
basi sui concetti di diritto e di giustizia da attuare nella vita pubblica. Personalmente
conservo nella mia libreria un libricino dal titolo “Sintesi di educazione civica ad uso della scuola
secondaria superiore”, di Giuseppe Parisi. Anche se non
riporta la data di stampa tale minuscola ma esaustiva pubblicazione risale
verosimilmente alla fine degli anni ’50. Alla 1ª Classe sono dedicati
gli insegnamenti dei “Diritti e doveri nella vita sociale”, “Il senso di
responsabilità morale come fondamento dell’adempimento dei doveri del
cittadino”, “Interessi individuali ed interesse generale”, “I bisogni
collettivi”, “I pubblici servizi”, “La solidarietà sociale nelle varie forme”;
alla 2ª Classe sono dedicati “Il lavoro: la sua
organizzazione e la tutela”, “Lineamenti dell’ordinamento dello Stato
Italiano”, “Rappresentanza politica ed elezioni”, “Lo Stato e il cittadino”;
alla 3ª Classe sono dedicati “Inquadramento
storico e principi ispiratori della Costituzione della Repubblica Italiana”,
“Diritti e doveri dell’uomo e del cittadino”, “Libertà: sue garanzie e suoi
diritti”, “I problemi sociali e la loro evoluzione storica”; alla 4ª Classe sono dedicati gli insegnamenti
“Organizzazione e legislazione del lavoro”, “Previdenza e assistenza”, “Le
formazioni sociali nelle quali si esplica la personalità umana”; alla 5ª Classe sono dedicati “Gli enti
autarchici” (Comune, Provincia, Regione e altri Enti), “Lo Stato” (evoluzione
storica, condizione di modernità e diritto e sue caratteristiche, le varie
forme di governo dello Stato e di Governo); “Ordinamento attuale dello Stato
italiano” (il Parlamento, formazione delle leggi, il Presidente della
Repubblica, il Governo, i Ministri, gli Organi ausiliari, la Magistratura, la
Corte Costituzionale), “Organizzazioni internazionali e supernazionali per la
cooperazione fra i popoli”. Alla luce di questa breve rievocazione verrebbe da
fare alcune considerazioni, ma poiché l’evoluzione dei tempi i cui effetti appaiono
essere sempre più deleteri, sia dal punto di vista politico (tout court) che da
quello culturale e della in-civile convivenza, ritengo di soprassedere e
lasciare ad ogni cittadino la libera considerazione. Mentre rammento che
l’analfabetismo di ritorno (il 70% degli italiani ha difficoltà a comprendere un testo) è
rappresentato da oltre 4 milioni di persone che popolano la nostra Penisola, e
c’é ragione di credere che sono sempre meno i cittadini che conservano una
copia della Costituzione, simbolo cardine e guida ai diritti e soprattutto ai
doveri di ogni cittadino (compreso il politico di oggi e di domani…) che è
tenuto ad osservarla e farla osservare come legge fondamentale della
Repubblica. Anche se più passa il tempo e più si assiste alla massima
“disattenzione” anche per le nozioni più semplici ed elementari, proprio come
la vecchia (ed ormai sepolta) Educazione
Civica.
Dall’Educazione civica
alla Cittadinanza e Costituzione
Un percorso di decenni ma che poco
ha insegnato. Ma è ancora il caso di “chiamare in causa” i principi
dell’Educazione Civica? E a che titolo? Nel 2014 l’allora ministro
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, annunciò
lo stanziamento di 25 milioni di euro all’anno per rafforzare l’insegnamento
della Storia dell’arte nelle scuole, un
utile “incentivo” perché a detta del ministro tale materia non deve essere
considerata “accessoria” ma “strutturale” del percorso formativo, come pure la
musica che non ha pochi… sostenitori. Ma se la considerazione di tale materia
ha ragione d’essere e messa in pratica, non fosse altro per il valore
costitutivo, oltre che formativo e culturale, ve n’è un’altra da fare: per
quali ragioni l’Educazione Civica è caduta nell’oblio tanto da non essere più
insegnata nella scuola dell’obbligo? Anche se alcuni l’hanno ribattezzata
“Cittadinanza e Costituzione”, il problema pare non essersi smosso più di tanto
se non per un provvedimento legislativo. Quest’ultimo indirizzo è diventato
materia per effetto del decreto legge con decorrenza per l’anno scolastico
2008/2009, e sia nel primo che nel secondo ciclo (per 13 anni) con un orario di
un’ora la settimana, pari a 33 ore annuali, ossia 429 ore nella carriera scolastica
di un alunno, inserite con l’insegnamento di Storia e Geografia. Secondo quanto
spiega “TuttoscuolA” non si tratta di un ritorno alla “vecchia” Educazione
civica, né di una variante della Educazione alla “convivenza civile” introdotta
dalla Riforma Moratti con carattere interdisciplinare, ma di una vera e propria
nuova disciplina, con valutazione autonoma e specifica. Ciò significa che
ciascun studente deve dimostrare di aver studiato ed appreso i principi e i
valori della Repubblica italiana, pena la bocciatura… Il “modello” precedente è
ormai considerato una sorta di cenerentola del sapere e del comportamento
civico, i cui contenuti erano “scivolati” nella marginalità, tanto da essere
considerata una appendice facoltativa, poco incisiva sul profitto degli
studenti. Tralasciando l’elencazione dei criteri principali che determinano, o
possono determinare, questa nuova materia, va rilevato che non è solo con una
innovazione di concetti e di principio che un cittadino può essere indotto alla
conoscenza ed al rispetto dei valori costituzionali, ma dimostrargli che chi è
preposto alla conduzione di un Paese (politici e amministratori nazionali e
locali) è il primo a dover rispettare la Carta costituzionale. Ma questo non
basta perché alla luce dei fatti (sempre più quotidiani) tali valori sono
continuamente disattesi se non calpestati, a cominciare dai reati non perseguiti,
alla non certezza della pena, alle condanne di persone innocenti (dal 1992 ad
oggi sono stati accertati 29.000 casi), e quindi alla necessità di rivedere il
Codice di Procedura Penale (C.P.P.); sino ad arrivare alla fatidica ed
ancestrale “burocrazia”, un malessere (meglio sarebbe definire una “cariatide”
dura da estirpare) che mette in ginocchio anche il più impavido e determinato
dei cittadini, sempre che voglia considerarsi ancora figlio della sua Patria. Affermazioni
per richiamare l’attenzione sul disatteso art. 3 della Costituzione, che
testualmente recita: «Tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso [cfr. artt. 29
c. 2, 37
c. 1, 48
c. 1, 51
c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali. È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Ma
anche il non sempre rispettato art. 32 della Costituzione, che pure
testualmente recita: «La Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti
dal rispetto della persona umana». Infine, nell’ultimo capoverso delle
Disposizioni transitorie finali, si legge: «La
Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come Legge fondamentale della
Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato». A tutto ciò
si potrebbero aggiungere molte incongruenze, una per tutte: in non poche
Istituzioni pubbliche (ad esempio gli ospedali) il volontariato sopperisce alla
carenza di organico (generalmente sostituendosi agli Operatori Socio Sanitari), mentre ciò non sarebbe lecito… Infatti, attualmente sono circa 5 milioni i cittadini volontari
impegnati su vari fronti, e tanti altri versano contributi (in denaro) per la
ricerca scientifica perché lo Stato in questo ambito non investe nemmeno l’1%
del PIL. Ora, pur volendo considerare l’evoluzione dei tempi in fatto di
rivisitazione del concetto di educazione civica, sarebbe utile (se non
indispensabile) trasmettere al cittadino comune qualche nozione inerente la
burocrazia, spiegando etimologia, origini e processi evolutivi, ma soprattutto
dare i più “genuini” suggerimenti sul come affrontare la tracotanza di
determinati burocrati (in divisa e non), che proprio per il potere assunto
dietro e fuori da una scrivania spesso e volentieri ledono i diritti e soprattutto la
dignità del cittadino, che il più delle volte ha anche ragione… Purtroppo il
burocrate non si rende conto (o chissà per quali ragioni non vuole) di essere a
sua volta un cittadino della stessa Patria
ed anche suddito del sistema, una “dimenticanza” che il più debole
(anziani e disabili in primis) a volte paga a caro prezzo… Quindi, ben vengano
innovazioni, ma tra queste sono da annoverare l’abolizione tout court di ogni
sistema burocratico (sia pur mera utopia) perché, in caso contrario, non si può
parlare di progresso civile e tanto meno di… reale democrazia.
Origini e terminologia
Il termine
burocrazia, che in realtà non è da intendersi osceno e tanto meno offensivo, è
ormai noto ai più che non ha sinonimi letterari e per questo si presta a mille
interpretazioni, soprattutto quando si tratta di rivendicare diritti e
prestazioni nell’ambito della P.A. di qualunque ordine e grado, ed è composto
dal francese Bureau (ufficio) e dal
greco Kràtos (potere), con cui si
indicano, per lo più in senso di “poco apprezzamento” gli Uffici Pubblici. È stato introdotto intorno al 1750 dall’economista francese Vincent
Jean-Marie De Gournay (1712-1759), per indicare colui che si occupa della P.A.
Ma non tutti, forse, conoscono le origini di questo “fenomeno”. Da notare che
all’inizio non aveva valenza negativa, ma tale divenne negli anni successivi e
la parola impronunciabile anche grazie a una declinazione peggiorativa
attraverso aggettivi che vanno da farraginosa, abbondante, disordinata,
confusionaria; a macchinosa, assurda, ottusa, etc. Il termine, inteso come apparato della
amministrazione statale, fu quindi coniato in Europa verso la metà del XVIII secolo,
quando ormai era concluso in tutto il Continente occidentale il processo di
costruzione dello Stato moderno, segnato dalla formazione di apparati di
ufficiali e funzionari. Ma già alla fine del XVI secolo veniva elaborata una
teoria dello “Stato burocratico”, che ebbe nel filosofo e giurista francese
Jean Bodin (1529-1596), il suo più autorevole rappresentante e uno dei massimi
teorici e sostenitori dell’Assolutismo monarchico, evidenziò nella sua
pubblicazione “Sei libri della Repubblica”
la funzione svolta dagli “ufficiali” nella vita dello Stato e ne sottolineò la
collegialità nel lavoro e la gerarchia delle funzioni. Nel corso del XVIII
secolo lo Stato, in alcuni Paesi europei, venne visto come un organismo avente
per fine il conseguimento del bene pubblico, alla testa del quale si poneva il
monarca primo burocrate a capo di una gerarchia di servitori dello Stato. Si
trattava di una concezione soprattutto di Giuseppe d’Asburgo (1741-1789) e Federico
II di Prussia (1712-1786), venata di tinte etiche e religiose che passò anche
nelle “monarchie amministrative” dei primi decenni dell’800. Ed è anche in
virtù di questa considerazione che gli esperti, già verso la fine dell’800,
vedevano la burocrazia in crescita sino a stabilire legami sempre più stretti
con la classe politica, dove le lotte avvengono “per influire sul potere tanto da condizionare la stessa classe politica
e la burocrazia pubblica”. Il sociologo ed economista tedesco Max Weber
(1864-1920) definiva la burocrazia come un sistema di norme e regolamenti
impersonali, che governano l’attività all’interno della quale vi sono relazioni
gerarchiche tra le diverse funzioni e i diversi poteri. Un modus operandi costituito da
norme di condotta, di doveri e procedure che vincolano ciascun operatore, per
cui tale impostazione garantisce un massimo di efficienza agendo sulla base
della divisione scientifica del lavoro. Ciò implica direttamente la gestione
soprattutto degli esseri umani i quali devono essere organizzati per conseguire
finalità specifiche . Secondo Weber s’impone così una situazione di potere il
quale non è altro che la capacità di predire, con la massima precisione, i
comportamenti altrui. Inoltre, all’inizio del ‘900, Weber pensava alla
burocrazia come a una “gabbia d’acciaio” che avrebbe alla fine prodotto la
pietrificazione delle società occidentali, ne avrebbe prosciugato ogni energia,
ne avrebbe svuotato l’anima. In quei termini, la sua profezia non si è ancora
realizzata. In Italia, però, i segnali ci sono da tempo e permangono tuttora.
Tra
pragmatismo e inefficienza della burocrazia in Italia
In Italia, quello che si
potrebbe definire “comportamento burocratico”, o “modus operandi”, era
inizialmente gestito dal pragmatismo piemontese dello Stato Sabaudo, ed era
indice di attività produttiva al servizio del cittadino in quanto i tempi di
produzione di un documento erano rigorosamente programmati e rispettati, come
testimonia una “Circolare interna” di
un capo sezione ministeriale dell’ottobre 1966. Da tale modalità risalta,
quanto a derivazione, il termine “burocratese” che indica un linguaggio, una
maniera di esprimersi attenta alla forma, all’interpretazione letterale, invece
che al contenuto… deve parlare poco (troppo se con finalità diverse…) e, se lo
fa, deve usare i termini del Regolamento, il burocratese, appunto, perché sa
bene che in questo modo non si fa capire, ma è esattamente quello che vuole
raggiungere! «Parlare oscuramente lo sa
fare ognuno, ma chiaro pochissimi» (Galileo
Galilei, 1564-1642). Paradossalmente, un tempo (sino agli inizi del ‘900) il
burocrate impersonava il massimo dell’efficienza. Ad esempio, per redigere il “Decreto di Concessione” di un sussidio
il tempo impiegato era di 20 minuti, per la relativa copiatura 15 minuti, per
la redazione stessa 5 minuti, e 1 minuto per la registrazione del documento.
Inoltre, per l’esecuzione di ben 15 operazioni amministrative complessivamente
non si doveva superare 1 ora e 17 minuti, in considerazione del costo per lo
Stato (nel dettaglio: carta, inchiostro, illuminazione degli uffici, tempo
degli impiegati rapportato al loro stipendio, etc., per un totale di 1 lira e
12 centesimi). Oggi, queste operazioni richiederebbero giorni, settimane o mesi
a costi proporzionalmente incalcolabili. Infatti, persiste tuttora un mondo di
carte bollate (un po’ meno, forse, quelle protocollate) e soprattutto di
e-mail; uno “stile” che si porta nella vita, almeno quella di ufficio, e
questo, nonostante il progresso tecnologico-informatico e la costante tendenza
al risparmio, mentre bisogna fare i conti con lo spreco e le evasioni… ma
questo è un altro capitolo. L’impiegato pubblico del 1861, e quindi soprattutto
nel primo ventennio dello Stato unitario, è lo specchio fedele dell’Italia
Sabauda e piccolo borghese: piemontese, monarchico, moderato, sostenitore degli
ideali risorgimentali. La sua carriera si apre con un lungo periodo di
apprendistato durante il quale deve sostenere sacrifici economici in proprio.
La legge del 1853, oltre a disciplinare i rapporti tra i vari uffici e
nazionalizzare l’organizzazione amministrativa, istituisce il protocollo
d’archivio: il protocollo è la registrazione di atti dove la comunicazione
scritta sostituisce quella orale; l’archivio è la memoria storica
dell’amministrazione e serve a consultare i casi precedenti. Per la sua
conformazione sociale, culturale e politica la burocrazia appare per dei valori
sui quali costruire l’Italia borghese e moderata: il senso dello Stato, il
rispetto dell’autorità costituita, l’organizzazione gerarchica dei rapporti tra
gli uomini. È su questo terreno che le
fratture interne alla burocrazia post-umanitaria si ricompongono e nasce la
classe dirigente amministrativa nazionale e si afferma la lingua dei burocrati
(il burocratese). Lo scambio tra carriere politiche e carriere amministrative è
la norma per una classe dirigente che garantisce al Paese competenza tecnica
nel governo e sensibilità politica nell’amministrazione, salvando così la moralità
pubblica. L’identità culturale e sociale con il personale politico appare senza
residui. E fin verso la fine dell’800, come si deduce dai regolamenti
ministeriali dell’impiegato modello, si sono imposti valori fondamentali:
religione, modestia, attività, solerzia, serietà, lealtà, probità, fedeltà
illibatezza, incorruttibilità, morigeratezza, zelo, abnegazione, sacrificio,
merito o valore civile, cavalleria, affetto alle Istituzioni, ai colleghi
(cameratismo), ai Superiori, al Capo dello Stato, alla sua famiglia, alla
Patria, loro difesa, amore dell’ordine, condotta irreprensibile, vestire
decente, studio e lavoro indefessi. La fine del secolo rappresenta per il mondo
burocratico una svolta decisiva. Vengono meno le condizioni che avevano reso
possibile i legami tra carriere politiche e carriere burocratiche. Il burocrate
italiano scopre definitivamente una propria identità culturale distinta e
distante dal mondo della politica, il rapporto politica-amministrazione cambia,
non c’è più l’osmosi degli anni precedenti ma vi è una burocrazia che muta al
mutare della domanda politica e sociale. La burocrazia, ovvero questo modo di
lavorare del dipendente della P.A., funzionò decorosamente fino all’inizio del
‘900, anche in ragione del fatto che la qualifica di addetto al pubblico impiego era considerata un
“onore” malgrado la modesta retribuzione; questi impiegati avevano un senso di
appartenenza quasi di “devozione” per lo Stato poiché il senso del dovere era
un requisito non richiesto, bensì scontato. Il posto statale assumeva così un
significato di compensazione tanto che l’impiegato statale si sentiva un
privilegiato e quindi legato alla classe politica da un rapporto di
subordinazione. Ma dove ha avuto inizio l’inversione di questo “modus operandi”
del burocrate? E quale è stato il punto di deterioramento della P.A. fino a
farla divenire quella che è ancora oggi, almeno in parte, la vergogna di un
Paese (l’Italia) che si reputa democratico, efficiente e competitivo in molti
settori ed il cui apparato statale è invaso da clientelismo, nepotismo e
assenteismo (vedi l’emergente fenomeno dei cosiddetti “furbetti del
cartellino”) contro la P.A. (infedeltà), e con un livello di produttività che
talvolta lascia a desiderare?
Come
si è evoluta l’Amministrazione in Europa
La
Francia di Napoleone III aveva ereditato del periodo napoleonico una burocrazia
corposa e ben distribuita sul territorio, una organizzazione ben definita,
composta da migliaia di funzionari di ceto medio o piccolo borghese. Tale
apparato costituiva già allora un motore centrale della piccola borghesia
francese. Anche la Germania, in prossimità della conclusione del suo processo
di unificazione nazionale, attraverso i modelli organizzativi di stampo militare,
l’ideologia del servizio di Stato, l’identificazione delle qualità del
funzionario avrebbe segnato il modello della burocrazia imperiale. La Gran
Bretagna poteva vantare da oltre un secolo le performances di un’amministrazione formatasi all’interno della
tradizione imperiale. Si stava instaurando la rivoluzione del governo
amministrativo dell’Età vittoriana (‘800/’900). Il Regio Decreto del 1904 tolse
il controllo sulle “piante organiche” dei Ministeri alle Direzioni
Amministrative per affidarlo invece al Parlamento; provvedimento che segnò lo
sfascio dando adito ad un incontrollato processo di assunzioni clientelari con
cui i parlamentari si garantivano un bacino notevole di “voti di scambio”… Nel nostro Paese, alla fine
del 1861, a seguito dell’Unità d’Italia, su circa 25 milioni di abitanti, i
dipendenti pubblici erano 3.000 o poco più, tra impiegati amministrativi in
genere e dipendenti dei Ministeri, collocati negli apparati centrali. Sono
diventati 11.000 nel 1876 e circa 90.000 alla fine del secolo, e nel 1999,
quasi 3,5 milioni: in 138 anni sono aumentati complessivamente di 1.200 volte,
con una crescita di 7 volte l’anno. Nello stesso periodo la Francia e la Gran
Bretagna avevano già corposi apparati pubblici.
Secondo Eurostat, in Italia la percentuale di dipendenti pubblici
sul totale occupati era nel 2016 del 14%, contro la media Ue del 16%. Il dato
italiano, in forte diminuzione dal 2000, è fra i più bassi d’Europa. Quando non
era possibile l’assunzione in pianta stabile, si faceva massiccio ricorso al
precariato, che di li a poco rivendicava la stabilizzazione (l’assunzione a tempo
indeterminato), incrementando gli organici di gran lunga oltre il necessario.
L’impiego pubblico diventava un mezzo per stabilizzare la società ed il numero
degli impiegati pubblici cresceva notevolmente e, nel periodo giolittiano, sono
soprattutto due i fenomeni da sottolineare: la meridionalizzazione e la
sindacalizzazione della P.A.
Inoltre
si insinuò la piaga della inefficienza e della lentezza che nacque nel 1900
quando, con il fiorire degli studi giuridici del momento, nella mente dei
governanti si insinuò l’assurda convinzione che alla base della P.A. dovesse
esserci, più che la fattiva esperienza maturata sul campo, la non conoscenza
del diritto amministrativo: non c’era popolazione più dedita alla speculazione
fine a se stessa di quella meridionale (mi si perdoni, ma è realtà storica).
Gli impiegati meridionali della P.A. avevano una formazione soprattutto
filosofica, giuridica, umanistica tanto da “soppiantare” il pragmatismo
piemontese con una cultura astratta. Laddove prima prevaleva il burocrate che
si formava sul campo, ora invece prevale la formazione
scolastico-universitaria. La P.A. fu così invasa da eserciti di laureati e
diplomati semplici studenti meridionali che, una volta entrati nella
“cittadella statale”, aprirono le porte come uscieri, fattorini, archivisti,
segretari, portaborse più o meno definibili come tali, etc., a un esercito di
parenti (nepotismo) e amici (clientelismo) “meridionalizzando”, per così dire,
in modo irreversibile la burocrazia. Tale sistema da allora è diventato
sinonimo di macchinosità, lentezza, ritardi, complicazione, ossequio (e anche
servilismo) ai potenti, e arroganza verso i deboli
(cittadini-utenti-contribuenti); caratteristiche della maggior parte dei pubblici
impiegati in quanto retaggio mediterraneo. Il burocrate è quindi colui che fa
per non concludere mai (o quasi), e la “pratica” esiste per essere spostata e
sempre demandata ad altri; anche se il passare sul proprio tavolo è essenziale:
essenziale ma inutile al fine della sua conclusione. L’Italia, uscita stremata
dalla guerra, stava cominciando a risollevarsi: negli anni ’50 si profilò
infatti quel boom economico che
sarebbe poi esploso nel decennio successivo e da più parti emersero richieste
di modernizzazione dell’apparato burocratico dello Stato in modo da favorire la
ripresa del Paese. Qualcosa in effetti si mosse: nel 1950 fu istituito, presso
la Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Ufficio per la riforma burocratica,
destinato a diventare negli anni ’80, dopo fasi di intenso lavoro e altre di
stasi, il Dipartimento della Funzione Pubblica. Alla metà degli anni ’50 le
parole d’ordine che ispiravano l’azione dell’Ufficio erano tre: semplificazione dei procedimenti
amministrativi, modernizzazione degli
uffici attraverso l’introduzione di nuove tecnologie (che per l’epoca erano, ad
esempio, le macchine fotocopiatrici), e attenzione
alle “relazioni pubbliche e umane”, dove per relazioni umane si intendevano
quelle interne e per relazioni pubbliche quelle fra amministrazione e
cittadini. Il “silenzioso” pragmatismo dei piemontesi si sostituì alla più
ciarliera e pigra indole dei campani e dei romani, noti pianificatori di quel
vezzo noto come “pausa”, elemento distintivo della mentalità prevalentemente
meridionale: pausa caffè, pausa giornale, pausa spesa, pausa salottiera, pausa
sigaretta, per poi trascendere nell’assenteismo sfacciatamente riferito ai
furbetti del cartellino, etc. Ma anche il Fascismo ebbe le sue colpe:
nell’intento di assicurarsi la fedeltà della categoria che era già cresciuta di
diversi milioni che, con le famiglie, rappresentava un terzo del consenso
nazionale ed esautorando (mi si passi questo termine) nel contempo i sindacati,
assoggettando il pubblico impiego con privilegi e garanzie in cambio della
fedele adesione al regime. Si potrebbe affermare che la funzione della
burocrazia è di amministrare il comportamento pubblico secondo regole imposte
dal potere, qualsiasi esso sia: totalitario o democratico. Per esempio,
l’orario spezzato con una pausa lunga trasformato in orario unico: dalle 9.00
alle 16.00 con intervallo per il pranzo dalle 12.30 alle 13.30, poi anticipato
dalle 8.00 alle 14.00 tutti i giorni dal lunedì al sabato per un totale di 36
ore lavorative. Ciò ha favorito l’immenso fenomeno (nemmeno tanto sommerso) del
secondo lavoro (in nero) degli statali, causa non secondaria della
disoccupazione e dell’evasione fiscale. Oggi, per rispondere alle esigenze
sempre più impellenti del cittadino-utente, gli orari di sportello al pubblico
della maggior parte degli Enti pubblici e di molti servizi sono accessibili
anche nel pomeriggio, solitamente sino alle ore 16.00; in altri casi (per la verità
più rari) le prestazioni vengono erogate anche al sabato mattino; ma questa
disponibilità è molto disomogenea. In questi ultimi decenni nei concorsi
pubblici la disciplina fondamentale era quella del diritto amministrativo e la
P.A. proprio quando diventava una forma di compensazione sociale assumeva un
corpo dominato da logiche assolutamente corporative da cui derivava il grande
mutamento dell’epoca: la sindacalizzazione. Grande responsabilità la ebbero,
infatti, anche i sindacati che, per imporre la propria egemonia nell’ampio
scenario dell’impiego pubblico, oltre a perpetuare i tradizionali privilegi
(garanzia perenne del posto di lavoro, con impossibilità di licenziamento,
facilitazioni per ottenere trasferimenti nell’ambito del lavoro e residenziali,
pensione anticipata, etc.). Negli anni successivi le cose non sono migliorate… «Ancora negli ’80 l’impiegato pubblico –
spiega Guido Melis, docente di Storia della Amministrazione Pubblica – continuava a rappresentare un ruolo
pressoché esclusivo meridionale, il che si traduceva nella tendenza a disertare
gli uffici al Nord per avvicinarsi alla provincia d’origine; continuava ad
avere una preparazione di tipo giuridico formale, il che si risolveva nella
scarsissima propensione per l’innovazione e nella rigidità degli schemi
culturali; continuava infine ad essere scarsamente produttivo, da cui derivava
un ostacolo per lo sviluppo del sistema economico. Se le retribuzioni erano
decisamente inferiori a quelle del settore privato, i carichi di lavoro medio
apparivano in vistoso calo e l’orario in pratica limitato a 6 ore effettive
giornaliere su sei giorni, tant’è che molti dipendenti pubblici avevano
un’altra occupazione». A questo proposito fece scandalo il periodo delle
“baby pensioni” tra il 1973 e il 1992 (per le donne sposate e con figli erano
sufficienti 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi; per i lavoratori statali
erano sufficienti 20 anni di contributi, per i dipendenti di Enti locali erano
sufficienti 25 anni di contributi), che hanno costantemente elevato barricate
contro la meritocrazia, livellando tutto verso il basso e coprendo anche i
comportamenti più censurabili come l’assenteismo e la scarsa produttività oltre
alla inefficienza… Per non parlare poi della “emarginazione” o della scarsa
considerazione dei non titolati, ossia dei cosiddetti autodidatta… e degli
invalidi. Ed è anche per queste ragioni che il burocrate trova nei Partiti,
soprattutto nella D.C. e nella maggioranza del Governo, validi protettori, e
oltre che nell’opposizione, lo scontento dei pubblici impiegati non trova
orecchie sorde. Negli anni ’50 inizia una nuova fase di interventismo statale:
dal Fascismo si ereditano Enti ed Uffici e si viene a consolidare il potere
all’interno della P.A. In questo periodo fallisce, però, ogni tentativo di
modernizzazione dello Stato sino a vanificarsi ogni suo sforzo e quindi di
dotarsi di una amministrazione che proceda con scioltezza tra i vari settori. I
dipendenti continuano a crescere e questi incrementi dipesero anche dal
tentativo non riuscito di non assumere gli avventizi (coloro che pur entrando
come precari diventano impiegati statali a tutti gli effetti dopo un certo
periodo di tempo). È
nella memoria di tutti la battuta di Antonio De Curtis (1898-1967), in arte
Totò: «Siamo uomini o caporali?». Una
gag diventata di dominio comune con la quale il “principe della risata”
stigmatizzava la cattiveria, quella elargita a titolo gratuito da parte di chi
avendo poco potere si arroga il diritto (e se ne compiace) di esercitare tale
potere su chi ritiene a lui inferiore, inerme, o comunque più debole… I
caporali, in senso lato, sono persone a loro volta “deboli”, che umiliano altre
persone loro pari, supportati da quel po’ di vigliaccheria ritenendosi più
forti, il cui ruolo, però, si inverte di fronte ad altri più forti e potenti…
Sovente li troviamo attivi nel territorio della burocrazia, regno incontrastato
dal quale dominano, a volte “dettando” legge e imposizioni… Prendeva così piede il fenomeno del mobbing.
Contro
la raccomandazione
Anche
se suona come retorica, di tanto in tanto nel nostro Paese c’è chi leva una
crociata contro le raccomandazioni. E questo da più parti: mass media, opinione
pubblica, esponenti politici (rari), associazioni, opinionisti, etc.; ma dopo
poco tutto tace e la battaglia contro questo malcostume che tale è perché in
molti casi è eccessivamente “mal riposto”, è ancora una volta sopraffatta. In
Italia farsi raccomandare in ambito pubblico è sempre stata una “regola” per
ogni circostanza: un posto di lavoro, lo snellimento di una pratica,
avanzamento di carriera, etc. A volte, soprattutto se il caso è di una certa
importanza, la “spintarella” fa ottenere il risultato sperato, magari a scapito
di chi ne avrebbe veramente bisogno per diritto, per urgenza o per mera
meritocrazia. Anche se abbiamo raggiunto le pari opportunità questo “allegro”
fenomeno non tende a ridimensionarsi, tanto da confluire nella corruzione ad ogni pie’ sospinto, e le obiezioni si perdono nel vuoto… Farsi raccomandare
solitamente significa scomodare una persona importante, o in qualche modo
influente, e per avvicinarla a volte è necessario mettersi in coda e, una volta
avvicinata, spogliarsi della propria umiltà e scendere a compromessi. Ma chi
ricorre ad una raccomandazione non è detto che sia umile, anzi l’egoismo e la
sfacciataggine non hanno limiti… In altri casi, non è detto che si raggiunga
l’obiettivo, allora si torna sui propri passi, delusi ma decisi a riprovare
individuando un’altra fonte. Ma sarebbe comunque saggio ed onesto porre fine a
questo malcostume sociale che non arricchisce nessuno ma, al contrario,
penalizza libertà e diritti dei più meritevoli (che non intendono scendere a
compromessi, ossia al noto agire “do ut
des”), il cui rispetto può essere garantito dall’etica e dal buon senso
civico di tutti… influenti e non. Da qui in poi la cosiddetta "fuga dei cervelli e degli eterni disoccupati e precari... Moltissimi gli aforismi in merito, ma uno
vale per tutti, nell’ambito del lavoro, a firma dello scrittore Michele Acanfora: «Diritto a tutti di lavorare dignitosamente? Penso che oggi questo diritto
sia garantito solo a chi ha la strada spianata per mezzo di conoscenze e
favoritismi. Tutto il resto che rimane è destinato a tanti poveri sfortunati,
dotati di talento e volontà, che purtroppo per loro sfortuna non conoscono
politici o altri come loro che hanno potere ma non dignità».
Il
“macchinoso” funzionamento del Governo
Tralasciando
le frasi storiche, il cui riferimento è sempre attinente alla realtà dei tempi
successivi, viene ora da porsi un quesito: ci siamo mai chiesti cosa fa
funzionare i Governi? I motori sono infiniti. Ma ve n’é uno però che
costituisce il comune denominatore: la carta, fatidico e inalienabile (anche se
oggi un po’ meno con l’avvento dell’informatica, della digitalizzazione e delle
varie opportunità telefoniche) strumento del burocrate. Montagne e quintali di
carta per emanare leggi, decreti, normative, procedure, protocolli e
quant’altro, anche se in questi ultimi anni sono state mandate al macero
centinaia di leggi concettualmente e giuridicamente superate. Da notare il
perpetuarsi delle leggi è dato dal fatto che per applicarne una, ad esempio, si
debba fare riferimento ad altre, e per la relativa applicazione, spesso un
testo legislativo enuncia una “formula” di questo tipo: premesso che, dato atto che, accertato che, verificato che, riscontrato
che, rilevato che, richiamato il/i, considerato che, ritenuto che, valutato
che… (finalmente) promulga/delibera
la seguente legge… E questa impostazione nonostante l’effetto della legge
59 del 15/3/1997 sulla Delega al Governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle Regioni ed Enti Locali, per la Riforma della P.A. e per la
semplificazione amministrativa (“Legge Bassanini”), la cui interpretazione è
solitamente demandata agli “addetti ai lavori”, ossia i dipendenti della P.A.
(i burocrati preposti, appunto), alcuni ottimi esecutori, altri meno, delle
disposizioni emanate dalla P.A. e, a monte, dal legislatore. Ma non sono mai
mancate (e non mancano) le difficoltà interpretative ed applicative che sono
dovute soprattutto a quello che si può definire “elefantiasi legislativa”,
ossia l’innumerevole messe di legge: nel 1997 ne erano attive poco meno di 200
mila, a fronte delle poco più di 7 mila della Francia, 5 mila della Germania e
3 mila della Gran Bretagna), che si susseguono, modificando peraltro quelle
appena emanate il giorno prima… «Un
considerevole numero di leggi – ebbe a dire tempo fa il magistrato, e già
procuratore di Venezia, Carlo Nordio – non
può coesistere e per rispettarne una si finisce immancabilmente per violarne
un’altra». Una constatazione lapidaria ma obiettivamente reale, tanto che richiama
alla memoria quanto sosteneva Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu (1585-1642): "Promulgare
una legge e non farla rispettare, equivale ad autorizzare ciò che si vuole
proibire". Di fronte alla “insoddisfazione” per la
mancanza di leggi o per la non applicabilità di alcune di esse (anòmia
legislativa), verrebbe da citare l’avvocato statunitense Clarence Darrow
(1857-1938) il quale sosteneva: «Le leggi
dovrebbero essere come gli abiti: dovrebbero adattarsi perfettamente alle
persone per le quali sono state fatte». Per quanto riguarda la
pletora legislativa negli ultimi anni sono stati presi alcuni provvedimenti.
Con il Decreto Legge n. 112 del 2008, convertito con modificazioni nella Legge
n. 133 del 6/8/2008, si è prodotto un taglio di circa 7.000 leggi tra
abrogazioni espresse (3.370) e abrogazioni implicite concernenti disposizioni
obsolete, inutili o già di fatto abrogate. Il testo, inoltre, contiene numerose
misure di semplificazione della normativa a favore dei cittadini e delle imprese.
Il Decreto Legge n. 200 del 2008, convertito nella Legge n. 9/2009, ha abrogato
circa 29.000 leggi ritenute ormai obsolete. In particolare, sono state abrogate
tutte le norme primarie del Regno d’Italia che erano ancora vigenti. Altre
consistenti riforme che si sono avute nella P.A. hanno visto la luce a partire
dal 1990 con la Legge n. 142 sul “Riordino
delle autonomie locali”, con la Legge n. 241 sul “Procedimento amministrativo” e con la Legge n. 223 sul “Sistema radiotelevisivo pubblico e privato”
rimangono ancora oggi i punti di riferimento della P.A. Il contenuto
della trasparenza amministrativa può essere individuato in quelle norme
dell’Ordinamento che regolano la partecipazione al procedimento amministrativo
con le relative forme di controllo, l’accesso alle informazioni che riguardano
tutte le attività svolte dalle amministrazioni e le forme di comunicazione tra
Amministrazione e cittadini. Con il Decreto n. 29 del 1993 è stato introdotto
l’obbligo di istituire apposite strutture per l’informazione ai cittadini, ed
al fine di garantire la piena attuazione della Legge n. 241 del 1990 ("Nuove
norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi") per la creazione degli Uffici di relazione con il pubblico
(URP). Gli Urp sono chiamati a provvedere al servizio dell’utenza per i diritti
di partecipazione e alla formulazione di proposte per il miglioramento relativo
agli atti e allo stato dei procedimenti. La “non professionalità” (e quindi
incompetenza) degli operatori, è data verosimilmente dalla scarsa attitudine
alla comunicazione, oltre al fatto che non sempre vengono attivati i corsi di
formazione previsti dalla Legge 150/2000 (“Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle
pubbliche amministrazioni” ). Nel nostro Paese, uno dei mezzi di
comunicazione dello Stato è la Gazzetta
Ufficiale (G.U.) che viene pubblicata tutti i giorni (meno i festivi) in
ossequio al principio giuridico secondo il quale ogni Atto avente forza di legge deve essere reso pubblico. Dall’1
gennaio 2013 il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha messo a
disposizione gratuitamente la Gazzetta Ufficiale in formato digitale. Il
servizio, tradizionalmente rivolto perlopiù agli addetti ai lavori del ramo
giuridico (e politico), cambia con il preciso obiettivo di avvicinare i
cittadini alla legge dello Stato. Tutte le nuove edizioni, le serie storiche e
la banca dati a partire dal 1946 saranno rese disponibili sul sito www.gazzettaufficiale.it. Quasi sempre, però,
l’interpretazione di leggi, decreti, emendamenti, normative, etc. (soprattutto
in ambito fiscale, sanitario e socio-assistenziale) è “solo” accessibile agli
addetti ai lavori; ma a volte, anche ai cittadini più “intraprendenti” e
“determinati” nel perseguire le finalità: la conoscenza dei doveri e il
rispetto dei propri ed altrui diritti. Non sono pertanto da sottovalutare i
princìpi della nostra Costituzione (entrata in vigore l’1 gennaio 1948) che
consta di 139 articoli e XVIII Disposizioni finali.
Cultura dei diritti e dei doveri
È difficile, se non impossibile,
concepire che l’uomo possa vivere al di fuori di una stabile organizzazione
collettiva, capace di assicurargli il conseguimento di quei fini che non
potrebbe raggiungere se vivesse isolatamente. La storia della civiltà umana è un
susseguirsi di convivenze collettive, dalle più semplici alle più complesse che
si evolvono fino allo Stato democratico e di diritto per l’affermazione dei
princìpi di libertà e di giustizia, patrimonio dell’umanità. Per il rispetto di
questa sono necessarie quelle regole di convivenza che, previste
dall’Ordinamento Giuridico, diventano diritti e doveri, diritti riconosciuti al
singolo come tale e diritti che il singolo acquisisce in funzione della sua
appartenenza alla collettività. Concetti, questi, che sono esplicitati dalla
nostra Costituzione nei princìpi fondamentali (12 articoli), dei diritti e dei
doveri (42 articoli), ordinamento della Repubblica (85 articoli), che sono
raggruppati in rapporti civili, etico-sociali, economici e politici. In una
libera collettività l’uomo non può ignorare che ai diritti si accompagnano
sempre i doveri: il diritto nasce dalla consapevolezza del dovere compiuto. Ma per essere in grado di
affrontare la burocrazia non è sufficiente (dimostrandolo) di essere
dalla parte della ragione, è necessario avere delle basi culturali
(l’istruzione in senso accademico è relativa). La cultura, si sa, è un
complesso di cognizioni che ciascuno possiede (o dovrebbe possedere); ma è
anche il complesso della vita intellettuale di un popolo in una determinata
epoca. Lavorare ed impegnarsi per il miglioramento della propria cultura,
significa contribuire al miglioramento della società; un preciso dovere nostro,
di uomini e cittadini, senza per questo privarci della nostra libertà. In
effetti, in ogni uomo trasferiamo la somma della nostra conoscenza e della
nostra capacità di pensare. Poiché la capacità di apprendimento è soggettiva il
valore acquisito in cultura è un patrimonio personale inalienabile, che deve
essere possibilmente tramandato come utile confronto. Non esistono diritti a
cui non corrispondono altrettanti doveri, né viceversa. Anzi, si può affermare
che se in ogni campo (famiglia, scuola, lavoro, società, affari, etc.) questi
due concetti venissero sempre rispettati congiuntamente, la vita sarebbe
migliore per tutti sotto ogni aspetto; ma purtroppo questa è utopia. E a questo
riguardo, c’è ragione di credere che il rapporto fra diritti e doveri subisce
nel tempo una evoluzione lenta ma costante, anche se non siamo ancora vicini a
quel tipo di società ideale in cui i cittadini vedono tutti i loro diritti
rispettati e assolvono (se onesti e coerenti) tutti i loro doveri senza
eccezione. È quindi opportuno che
ogni individuo riconosca lealmente i propri obblighi e li adempia con senso di
responsabilità morale, per contribuire in modo efficace al progresso della
società alla quale appartiene. E poiché tutti gli uomini nascono liberi e uguali
in dignità, come si afferma all’art. 1 della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, l’appartenenza a
una collettività organizzata politicamente non può peggiorare questa
sostanziale condizione dell’uomo, il quale facendo parte dello Stato si aspetta
il riconoscimento di determinati diritti, e quindi la determinazione di mezzi
idonei ad assicurarne il godimento accettando limitazioni, obblighi e doveri
nel rispetto armonico degli interessi generali con quelli particolari; anche se
non mancano eccezioni come il diritto-dovere (dovere civico) di recarsi alle
urne che, di fatto, non è però un obbligo e pertanto si ha il diritto di
astenersi. A questo proposito è
utile precisare che dovere civico significa che l’esercizio del diritto di
voto, ad esempio, è un dovere morale e politico del cittadino: la blanda
sanzione prevista dalla legge per chi si astiene senza motivo dal voto
(l’iscrizione per un periodo di cinque anni sul certificato di buona condotta,
ormai non è più necessario per la partecipazione ai pubblici concorsi, con la
dizione “non ha votato”) non è praticamente applicata, ormai da molti anni. Ma
il cittadino-utente compie sempre i propri doveri, o antepone i diritti a
questi ultimi? Anche se il concetto di diritto implica un ricco complesso di
norme, è bene conoscere alcuni elementi del Diritto stesso. Per diritto quindi,
si intende un complesso di regole (o norme) la cui efficacia, per essere tale,
significa due cose: che le norme siano osservate e, quando queste sono violate,
intervenga il meccanismo delle sanzioni il cui riferimento è al Codice Civile e
al Codice Penale. Il rapporto fra diritti e doveri in questi decenni ha subito
una evoluzione costante, anche se non siamo ancora vicini a quel tipo di
società ideale in cui i cittadini vedono tutti i loro diritti rispettati e
assolvono tutti i loro doveri senza eccezione. É bene però che i rappresentanti della P.A. diano il
buon esempio. Un diritto è tale solo quando si può trovare una parte che ha
l’obbligo di realizzarlo spontaneamente e che è obbligata coattivamente, ossia
anche con imposizione (in forza di legge) della Magistratura ad attuarlo,
qualora non adempia agli obblighi che la legge prescrive. Un diritto è
esigibile quando la normativa individua chi deve fare cosa: solo in tal modo
garantisce (o dovrebbe garantire) attuazione concreta, in modo spontaneo o
attraverso intervento giuridico richiamante l’obbligo.
Diritti essenziali
È noto che in fatto di diritti
civili l’Italia non è tra i Paesi più brillanti, e ciò è imputabile ai mali
antichi della P.A. (oltre ad una serie di leggi che andrebbero rivedute o
abolite, come alcuni articoli del Codice Civile e del Codice Penale), della giustizia,
mal costumi generalizzati (clientelismi, nepotismi, raccomandazioni, rapporti
di potere a diversi livelli, corsie preferenziali, etc.); come pure la scarsa
sensibilità sull’argomento della cultura giuridica e non, ed infine le
innumerevoli evoluzioni in materia giurisprudenziale. Pertanto è forse utile un
ripasso della conoscenza dei vari tipi di diritto. Diritto privato: insieme delle norme
che regolano i rapporti fra i privati, siano essi personali o atti di
commercio. Diritto pubblico:
insieme delle norme che hanno per oggetto l’organizzazione dello Stato, di
tutti i suoi organi, dei politici e dei rapporti tra tali organi e i privati; è
suddiviso in Diritto internazionale:
comprende tutte le norme che regolano i rapporti fra gli Stati, e Diritto interno: che si occupa dei
rapporti fra i cittadini e lo Stato, e dell’organizzazione che regge tali
rapporti, a sua volta è suddiviso in vari diritti: amministrativo, commerciale,
finanziario, penale, etc. Diritto
costituzionale: include i princìpi fondamentali e riguardano diritti
personali e costituzionali come il diritto di agire, di capacità, di arte e
scienza, di libertà, assicurazioni sociali obbligatorie, di assistenza sociale,
di associazione, atti di disposizione del proprio corpo, di atti politici, di
autodeterminazione, di azione civile, di beni culturali, di bilinguismo, di
capacità giuridica, di certezza di diritto, di libertà di circolazione e
soggiorno, di cittadinanza , di competenza del giudice, di consuetudine, di
decenza pubblica, di difesa, di diritto soggettivo, di domicilio, di principio
di eguaglianza, di elettorato attivo, di elettorato passivo, di emancipazione,
di identità personale, di immigrazione, di inabilitazione, di incapacità di
intendere e di volere, di integrità fisica, di integrità morale, di
interdizione, di intimità privata, di principio di legalità, di libertà
personale, di manifestazione di pensiero, di nascita, di nome, di parità di
trattamento, di parità uomo-donna, di persona giuridica, di petizione, di residenza,
di diritto alla vita, di volontariato, etc. La garanzia del riconoscimento dei
propri diritti dipende soprattutto dal comportamento e dal grado di civiltà (e
onestà) di ciascuno; come pure dalla capacità individuale di agire in difesa di
quelli che ripetutamente definiamo “diritti”, nei confronti dei quali ognuno di
noi agisce come può, come sa, come quanto e crede di sapere… Ma spesso si perde
di vista il fatto che per ottenere il rispetto di un proprio diritto, bisogna
battersi con costanza e coerenza attraverso la conoscenza del problema che si
vuole risolvere, con un continuo aggiornamento (le fonti non mancano) e
“allenamento” sulla interpretazione delle leggi e delle relative disposizioni
per far fronte al proprio interlocutore, sia esso burocrate o rappresentante di
ente privato. Tutti elementi che devono rammentarci che viviamo all’interno di
uno Stato: ordinamento
giuridico che esercita il proprio potere su un dato territorio e sulle persone
che si trovano in esso (ma la sovranità appartiene
concretamente al popolo,
che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione?), al cui interno opera un Governo: organo
costituzionale al vertice del complesso di organi che costituiscono il potere
esecutivo; tale Stato è formato da Regioni: enti autonomi con una
propria popolazione, un proprio territorio e propri poteri, che esercita
secondo le norme dettate dalla Costituzione; ogni Regione ha più Province:
enti autonomi che rappresentano una Circoscrizione di decentramento statale e
regionale (nonostante quello che si afferma da più parti) non sono state abolite in quanto l’abolizione
avrebbe comportato una riforma costituzionale non solo per eliminare
l’organo, ma anche per rivedere l’intero sistema delle autonomie locali per la
conseguente ridistribuzione delle funzioni ora in capo alle Province, sic!);
ogni Provincia è formata da più Comuni: enti locali che possono
essere definiti come l’unità elementare dell’organizzazione che la Regione e la
Provincia risultano dall’insieme di più Comuni. In ogni Provincia è presente la
Prefettura:
organo del Governo preposto alle funzioni relative a tutti i settori
dell’Amministrazione locale.
Giustizia e responsabilità
Ancora oggi,
sia pure in forma minore, la P.A. soffre di molti mali come la sua difficilmente controllabile
(e spesso arzigogolata) elefantiasi legislativa, anche se in questi ultimi anni
c’è stato qualche segnale di snellimento, e le condizioni di insoddisfazione
di gran parte del personale appaiono fra le cause più dirette della crisi… Ne
sono eclatante esempio le procedure e l’iter delle pratiche che spesso
procedono lentamente (fin troppo), come pure la “diversa” e “insufficiente”
cultura del burocrate stanno a significare che il lavoro è mal distribuito, che
non c’è idonea ripartizione dello stesso e quindi delle rispettive competenze.
A questo proposito Oscar Wilde (1854-1900) sosteneva: «La maggior parte degli uomini e delle donne è costretta ad assumere un
ruolo per il quale non ha nessuna attitudine: il mondo è un palcoscenico sul
quale le parti sono assai mal distribuite». Una sentenza che si è protratta
nel tempo, e ciò, anche per il fatto che nella cultura italiana la meritocrazia
(in ogni ambito professionale, socio-culturale e del non profit) non ha mai
prevalso. Nel nostro Ordinamento è facile imbattersi in infiniti “tipi” di
giustizia fra i quali sono fondamentali quello infallibile e quello fallibile… «Sfido chiunque – scriveva nel 2004 la
storica firma del giornalismo, Vincenzo Tessandori – a trovare un solo addetto ai lavori, avvocato, giudice o pubblico
ministero, che sia soddisfatto del nuovo Codice
di Procedura Penale (C.P.P.). Ne dicono tutti male, è un coro generale
di avvocati e di giudici. Avrebbe dovuto snellire ed abbreviare, e invece
appesantisce (ancora oggi, nda) il
funzionamento con steccati inutili, come l’udienza preliminare, che serve solo
a burocratizzare l’ambiente». E a questo riguardo va ricordato che l’art.
28 della Costituzione, relativo ai Diritti e Doveri dei cittadini, testualmente
recita: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici
sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative,
degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità
civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Una delle più frequenti responsabilità dei dipendenti
della P.A. è l’omissione che può essere dolosa o amministrativa. E c’è ancora
la tendenza, frutto di desiderio del “quieto vivere”, di accettazione
fatalistica ed acritica della realtà come essa si presenta, di princìpi
acquisiti di irresponsabilità, di senso di impotenza, volta a non cercare quasi
mai colpevoli singoli, a non individuare specifiche responsabilità, a
colpevolizzare tutti, e quindi nessuno, coinvolgendo in un giudizio negativo
tutta la burocrazia, specie romana, assommata al potere politico. In
particolare, per quanto riguarda la responsabilità civile dei magistrati, la
stessa esiste dal 1865 nel Codice di Procedura Civile (C.P.C.) e questo
significa che, da quando esistono i Codici, è previsto che quando il magistrato
sbaglia si proceda al pagamento della “riparazione per la ingiusta detenzione”.
La persona offesa dall’azione o dall’omissione potrà avanzare le sue lamentele
soltanto nei confronti dello Stato che poi, se lo riterrà opportuno, agirà
contro il magistrato attivando una causa (un’ipotesi che non si è quasi mai
verificata). Il magistrato è un soggetto munito di un potere incisivo, non
risponde di ciò che fa neppure nei casi di colpa grave; risponderà nell’ipotesi
di dolo solo se il fatto costituisce reato. Ma non bisogna dimenticare che in oltre
mezzo secolo di Repubblica, oltre 4 milioni di cittadini italiani hanno subìto
una detenzione che si è poi rivelata ingiusta: erano innocenti! A questo
riguardo vale la pena rammentare la Riforma del Codice di Procedura Penale
(C.P.P.) del 25 ottobre 1989, che tanto fece (e fa) discutere cittadini e
addetti ai lavori. Significativo il contributo del penalista Agostino Viviani
(Siena 1911-Milano 2009), che a quell’epoca scrisse due volumi “La degenerazione del processo penale in
Italia” (Ed. Sugarco) e “Il nuovo
codice di procedura penale: una riforma tradita” (Ed. Inf. & Commenti).
Pubblicazioni (che ho recensito più volte) che avevano il sapore di una vera e
propria denuncia della disfunzione del nostro sistema giudiziario, un atto di
“coraggio” supportato da una lunga esperienza e da un paziente lavoro di
indagini e ricerche tra gli Atti penali nei vari tribunali d’Italia: una sorta
di “scarnificazione” del processo, tant’è che il titolo del secondo volume non
lascia dubbi sul giudizio dato dallo scrittore-avvocato sul sistema penale
italiano. Convinto sostenitore del seppur tenue ma intramontabile diritto
della “difesa sociale” (quella dei poveri, per intenderci), questo che è stato
il principe del Foro milanese per oltre mezzo secolo, ha ricevuto molti
consensi per le sue opere letterarie. Il previsto impoverimento degli “effetti
giustizia”, allora come oggi (come ho
avuto modo di precisare più volte) sta a sottolineare come il legislatore (per
alcuni versi burocrate per “eccellenza”), quando promulga una nuova
disposizione di legge, fa come quell’elefante che calpestata una quaglia, cercò
di rimediare sedendosi sulle uova dell’uccello per tenerle calde! Nel 1990
l’avvocato Viviani fu invitato a Torino per tenere una conferenza sul tema: “Il pentito: questo sconosciuto”. Un
incontro-dibattito che ha contribuito a meglio illustrare la somma delle
inefficienze della nostra legislazione che, per ordinamento e vizi burocratici,
non è da ritenere tra le più garantiste per un Paese che si autodefinisce
democratico. Una legislazione che, per non smentirsi, non risparmia neppure la
“categoria” dei pentiti: non certo priva di fratture e debolezze al suo
interno, tant’é che a Lucca corre un vecchio detto: “Se i pentimenti fossero camicie, uno avrebbe un bel guardaroba”.
Nel corso della sua appassionata esposizione, quasi come se fosse una arringa
in una Corte di Assise il penalista, senza mezzi termini precisò: «Tra questi individui non c’è quasi mai
chiarezza per stabilire la sincerità del pentimento; una condizione, questa,
che non di rado trascende in veri e propri atti d’accusa e di delazione per
salvarsi o trarne qualche tipo di vantaggio». Un problema che “condiziona”
non poco il sereno corso della giustizia che, se si specchia nel tanto
decantato C.P.P., vede sempre più allontanarsi la possibilità di adeguarsi alle
convenzioni internazionali ed allo sviluppo della cultura giuridica. «Ma c’é chi sostiene – concluse Viviani –
che la Costituzione sia da modificare,
tutta o in parte; in realtà basterebbe semplicemente applicarla». E se si
dà per scontato che ogni riforma era in precedenza un’opinione personale, si
può dedurre quanto sosteneva il giurista, critico letterario, e uno dei padri
della Costituente, Piero Calamandrei (1889-q956): «Quando per la porta dell Magistratura entra la politica, la giustizia
esce dalla finestra». Come dire anche che, quando (ancora oggi) per la
porta della Legge entra la burocrazia, l’efficienza esce dalla finestra… se non
addirittura dalla porta stessa.
Mobbing: un “nemico” che si può affrontare. A volte basta
volerlo
È un fenomeno
di grande rilevanza sociale, in continua ascesa prevalentemente in ambito
lavorativo privato, ma poiché interessa anche i lavoratori della P.A. che viene
in conflitto proprio con il burocrate, necessita di essere meglio conosciuto
(sia pure in sintesi) per prevenirlo o affrontarlo. Il “segreto” di una
soluzione non è sempre l’azione legale, in quanto a volte sono sufficienti una
buona cultura, una grande determinazione e padronanza di sé…, senza
ripensamenti. Se ne parla da molto tempo ormai di vessazioni e soprusi sul
posto di lavoro, fin troppo ma non abbastanza per capire quali sono le cause
che originano il fenomeno definito mobbing. Ma cosa significa esattamente
questo termine, moderno, ormai diventato purtroppo di moda? E quanti sanno di cosa
si tratta e magari ne sono coinvolti? È una parola che deriva
dal sostantivo “mob” che in inglese
significa “folla disordinata, rumorosa e aggressiva”, e in tedesco “plebaglia”
o “branco”, nell’accezione sociologica con cui questo termine viene usato in
italiano. In pratica sta ad indicare tutte le sopraffazioni, le violenze
gratuite di tipo psicologico (e non sempre sono i superiori a metterle in atto)
che molte persone devono sopportare soprattutto sul posto di lavoro, sia in
ambito pubblico che privato e in quasi tutti i settori. Il mobbing può essere
orizzontale, ossia quando la persecuzione è diretta contro un pari grado,
all’interno di un ambiente relativamente chiuso; verticale dal basso verso
l’alto della gerarchia, o viceversa. Dal basso quando per esempio un docente
viene “bersagliato” e delegittimato dagli allievi, o un dirigente dai suoi
dipendenti. Molto più frequente (secondo Sandra Carrettin e Nino Recupero,
autori della pubblicazione “Il mobbing in
Italia. Terrorismo psicologico nei rapporti di lavoro”) è il mobbing
verticale dall’alto: nel caso di un ambiente gerarchico dove i superiori
scatenano l’ostracismo contro un dipendente che per una qualsiasi ragione è
diventato scomodo. Questa forma di mobbing viene chiamata tecnicamente “bossing”. Si tratta di una vera e propria
patologia sociale le cui cause sono molteplici che vanno dalla flessibilità
alla ristrutturazione in ambiente lavorativo, dal modo di intendere i rapporti
umani, sempre più negativo in qualunque contesto sociale… e che in Italia pare
essere molto diffusa: oltre un milione di lavoratori (ma la cifra è
probabilmente sottostimata). Ma a parte le cifre chi, in particolare, è colpito
da mobbing? Sicuramente chi dimostra maggiore professionalità, chi denuncia
guasti e ritardi nell’organizzazione aziendale del lavoro, chi propone
interventi e soluzioni (regolarmente respinte), chi acquisisce una
professionalità o un grado culturale tanto da evidenziare (sia pur
indirettamente) debolezze, inefficienza, ingiustizie… e reati nei vari gradi
gerarchici, come pure chi non è gradito per mera antipatia… Paradossi?
Sembrerebbe di si, ma questa è la realtà, oltre a sottomettere coloro che non
sanno o non hanno il coraggio di reagire; compresi i disabili che sono stati
assunti (sia in ambito pubblico che privato per “imposizione” di legge, la
quale è ritenuta dai datori di lavoro una sorta di coercizione; e questo,
nonostante la legge dell’1/3/2006 n. 67
relativa alle "Misure per la tutela giudiziaria delle
persone con disabilità vittime di discriminazioni". Tutte queste ed altre
situazioni provocano tensioni, stati d’ansia, paure e condizioni di stress che
con il passare degli anni diventano insopportabili tanto da causare nei
soggetti “più deboli” una condizione patologica di competenza
medico-psicologica e/o psichiatrica, e magari anche legale. Per quanto riguarda
la responsabilità il Dlgs 38/2000 relativo al danno biologico e al suo
risarcimento economico, ribadisce le responsabilità penali del datore di
lavoro, che dovrebbe pagare di tasca propria quanto commesso o ingiustamente
tollerato. A questo riguardo la Cassazione, con la sentenza n. 16148, ha
accolto il ricorso di due impiegati che per quasi dieci anni hanno subito
minacce, aggressioni, lesioni personali da parte dei colleghi (ma il datore di
lavoro non ha fatto nulla per aiutarli nonostante le richieste), delineando
anche una responsabilità del datore di lavoro, che non aveva vigilato sul comportamento
dei dipendenti che vessavano la coppia. Il tribunale ha riconosciuto che per la
prescrizione del reato non conta la data di inizio delle minacce ma la data
della sentenza che proscioglieva i colleghi. Ma come provare la persecuzione e le relative
responsabilità? Indubbiamente in non pochi casi non è sempre facile. Oltre a dover
dimostrare con prove concrete quanto si è subìto (dichiarazioni verbali e
scritte, testimonianze di colleghi, eventuali registrazioni, etc.) è molto
importante che la persona colpita da mobbing (gravi ricatti “non dimostrabili”
a parte) sia dotata di una forte determinazione e costanza nel perseguire i
propri interlocutori responsabili della sua condizione psicofisica. Ma è
altrettanto importante raggiungere un grado culturale (e magari anche
giuridico, per quanto possibile) che può essere di grande sostegno per
“spiazzare” in alcuni casi certi arroganti e despoti, evitando spiacevoli e
lunghe, oltre che costose, azioni legali; mentre sarebbe sufficiente (almeno
inizialmente) fare una formale diffida e/o denuncia cautelativa, impostandola
in un certo modo senza il timore di eventuali ritorsioni… Sul territorio sono
oggi presenti associazioni e patronati (oltre naturalmente a studi legali): la
legislazione e le sentenze non mancano, ma molto dipende anche dagli stessi
interessati oggetto di mobbing.
Come comportarsi quando si ha bisogno delle prestazioni di un
Ente Pubblico
Può capitare
che ogni cittadino (buon contribuente e talvolta suddito del sistema…) si trovi
a dover frugare tra paragrafi e postille di leggi dimenticate o disapplicate…,
spesso incomprensibili; o scrivere senza posa dettagliate e perentorie lettere
e/o e-mail per esposti, denunce, querele, diffide, etc. Ma anche a far
anticamera, bussare alle porte più resistenti a schiudersi per essere ricevuto
da questo o quel burocrate per esporre un disservizio o il mancato rispetto di
una procedura al fine di ottenere il rispetto di un determinato diritto, o più
semplicemente per l’approfondimento e/o ulteriore spiegazione di una norma; ma
il più delle volte, però, senza ottenere un apprezzabile risultato perché il
burocrate di riferimento (o chi per esso) non sa come porsi e quali procedure
adottare. Per non parlare poi dell’andamento attuale che consiste nel fatto che
molti burocrati (assessori, dirigenti e funzionari) tendono a non ricevere a
colloquio un cittadino, pregandolo di far domanda per un incontro formale
motivando tale richiesta; ma poi, se al suddetto “conviene” dà udienza,
diversamente accampa una qualunque scusa per non ricevere… Quindi è bene che
ogni cittadino, prima di intraprendere una “azione” o un dialogo con il
burocrate, dipendente di una qualunque struttura pubblica, acquisisca la
conoscenza del Diritto e l’importanza della informazione, considerando nel
contempo i significati di Cultura e Istruzione. Su queste basi, e non
sottovalutando che la burocrazia è sinonimo di potere e che la Legge non
ammette ignoranza (“ignorantia legis non
excusat”), oltre ad agire con razionalità, tolleranza ed un pizzico di
diplomazia (buon senso e tatto), il cosiddetto cittadino-utente-contribuente
può pretendere una maggiore considerazione e rispetto dei propri (ed altrui)
diritti, dopo aver espletato, bene inteso, i propri doveri. È quindi necessario informare e
comunicare in modo comprensibile, esaustivo e possibilmente in tempo reale. Per
evitare di essere confinati in un limbo senza speranza, sovente percorso da
delusioni, è opportuno non fermarsi davanti al muro di gommapiuma della
burocrazia, senza aggirarlo per le italiche vie traverse, tanto meno scendere a
compromessi neppure quando ci fanno capire, strizzando l’occhio che, suvvia, una
mano lava l’altra e che tutto si può “arrangiare” (il compromesso è un ottimo
ombrello, ma un pessimo tetto!). Un manuale pratico di “autodifesa” civile in
taluni casi potrebbe essere considerato una sorta di preparazione, un
“salvacondotto” per chiunque (basta acquistarlo), ossia uno strumento di
conoscenza delle possibilità di godere dei diritti specie quando si è in condizione
di svantaggio sociale: tutti possono aver bisogno dei servizi erogabili dalla
P.A. e di dover superare ostacoli burocratici (indifferenza, ignoranza,
prepotenza, arroganza, etc.); e questo proprio perché la categoria, come
avviene in ogni settore, è composta anche da pessimi dirigenti e funzionari che
non muovono un dito anche se c’è la immancabile circolare interpretativa, magari
opponendosi con una personale ed arbitraria interpretazione… Anche per queste
ragioni c’è da credere a chi sostiene che il miglior burocrate è colui che, partendo
da una soluzione, riesce a trovare il maggior numero di problemi… Tuttavia, è
un diritto del cittadino essere ricevuto, e un dovere (ma non obbligo) di
questo o quel burocrate riceverlo, nel rispetto reciproco del proprio tempo (in
alcune situazioni anche in tempi brevi). Ma non è insolito per il cittadino
comune dover bussare alle porte della P.A. per essere ricevuto e ascoltato dal
burocrate di turno, talvolta assente o poco puntuale, tal’altra sostituito ”improvvisamente”
da un collega non preposto per quel servizio, o in comoda posizione di “riposo”
per sentirsi dire una serie di lapidarie affermazioni o giustificazioni (spesso
banali), come queste:
“L’abbiamo sempre fatto così – Non sapevo che
fosse urgente – Non è di mia competenza – Nessuno mi ha dato l’ok! – Come
facevo a saperlo, secondo lei/voi? – Lavoro suo, non mio – Aspettiamo che torni
il capo (o il titolare della pratica) e sentiamo lui – Non ci capita spesso di
fare errori – Non sapevo che fosse importante – Ho tanta di quella roba da fare
che non riesco proprio a fare anche questo – Pensavo di averlo fatto – Non sono
stato assunto per questo – Le procedure non consentono deroghe – La legge non
l’ho fatta io – Se non le conviene si rivolga a chi di dovere – É
indispensabile rispettare l’iter burocratico – Non sono pagato per perdere
tempo…”.
Per meglio affrontare
il burocrate e superare relative ed eventuali difficoltà è bene, ad esempio,
conoscere la Legge n. 241 del 7/8/1990, G.U. del 18/8/1990 n. 192 (la
cosiddetta legge della trasparenza), relativa alle “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di
accesso ai documenti amministrativi” con la quale si è prefisso l’obiettivo
di “segnare” la strada degli Atti amministrativi, con il diritto-dovere di
individuare in ogni momento le responsabilità e definire le competenze dei
pubblici amministratori. Il regolamento di attuazione della legge ribadisce che
«il diritto di accesso è esercitato nei
confronti di tutte le P.A. e dei concessionari di pubblici servizi da chiunque
vi abbia interesse personale e concreto per la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti». La legge sul procedimento amministrativo e sul
diritto di accesso agli atti ha costituito un importante momento di
codificazione di regole e principi amministrativi frutto di decenni di
elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria. La lunga gestazione della legge
di riforma (Legge 15/2/2005) testimonia la difficoltà di intervenire su un
tessuto normativo fondamentale per la disciplina dei rapporti tra le P.A. e i
cittadini ed anche nella fase di riforma il legislatore ha tratto spunto dalla
consistente opera interpretativa dei giudici amministrativi per incidere sugli
strumenti già esistenti, al fine di renderli più efficaci, e ne ha introdotti
di nuovi. Riguarda perciò, non solo i Ministeri e le Amministrazioni centrali
dello Stato, ma anche tutti gli altri Enti pubblici purché non economici (ad
esempio l’INPS, AGENZIE, CONSORZI, COMITATI, etc). In pratica il cittadino può, anche da solo, intimare agli
Uffici pubblici di risolvere il suo problema amministrativo, avere notizie
(entro 30 giorni) sul corso dello stesso, leggere gli Atti che lo riguardano,
conoscere il nome del funzionario responsabile. Il funzionario o l’incaricato
della P.A., che senza giustificato motivo rifiuta un Atto del suo ufficio, o in
subordine di dare una determinata informazione al cittadino richiedente,
commette il reato di omissione di Atti di ufficio (art. 328 del Codice Penale),
perseguibile d’ufficio. Questa esigenza, ossia le richieste di prendere visione
degli atti amministrativi non sono insolite, ma spesso il cittadino è rinunciatario
nel pretendere tale diritto e il più delle volte non sa del diritto di
perseguire tale violazione per via legale. Ma la “categoria”, come avviene in
ogni settore, è composta anche da ottimi funzionari, spesso preparati ed
attenti; altre volte invece da pessimi operatori: incapaci, non aggiornati,
svogliati e insofferenti al loro ruolo e talvolta anche offensivi nel confronti
dell’utenza. Dietro ad una inefficienza pubblica (di ogni ordine e grado) c’è sempre una “regia”: il burocrate, vero e proprio regista di “film” i cui attori
protagonisti involontari sono i cittadini-utenti, ossia i contribuenti o
sudditi del sistema… grazie a questa incapacità addestrata, tanto che Weber
sosteneva che la burocrazia è tra le strutture (o sistemi) più difficili da alienare.
Ma non meno importante è da sottolineare il comportamento del cittadino che ad
essi si rivolge, non solo allo sportello ma anche e soprattutto a colloquio con
il dovere civico di porsi secondo una procedura comportamentale razionale e non
priva di umiltà. Pertanto sarebbe utile adottare una serie di consigli pratici
ogni qualvolta si intende contattare un esponente della P.A. per avanzare una
qualsivoglia richiesta, o la segnalazione di un disservizio dopo aver
(inutilmente) contattato l’URP. Ecco, dunque, una sorta di vademecum per come
porsi nei confronti del burocrate. Una verità che si va perpetuando e sembra
essere irreversibile tanto che gli aforismi si sprecano tra fantasia, ironia e
cruda realtà con le quali bisogna fare i conti ogni giorno. Dunque, sarebbe
bene agire in questo modo:
ü Presentarsi sempre
in modo chiaro (nome e cognome, ruolo…)
ü Quando l’esigenza lo
richiede fissare l’appuntamento con l’interlocutore che si vuole avvicinare
(alcuni burocrati gradiscono o pretendono di essere preavvisati…); è lecito
farsi rappresentare da persona o Ente privato (o Associazione) di propria
fiducia
ü Esporre in modo
completo ma sintetico il problema in questione (la dispersione dei concetti
spesso spazientisce l’interlocutore, specie se in presenza di terze persone
ü Dimostrare di essere
a conoscenza dei fatti che si intende esporre
ü Essere coerenti e
non dispersivi: incertezze e imprecisioni favoriscono la conclusione affrettata
del colloquio
ü Essere a conoscenza
delle destinazioni degli Enti e possibilmente delle competenze dei rispettivi
responsabili (farsi ripetere più volte ruoli e destinazioni può “indisporre”
l’interlocutore)
ü Essere educati e
rispettosi, ma non servili (un comportamento civile e riguardoso invoca stima e
considerazione)
ü Essere tolleranti
(spazientirsi è controproducente: non bisogna dimenticare che siamo sempre noi
“cittadini-utenti” ad aver bisogno del burocrate…)
ü Essere dotati di un
minimo di diplomazia (quando è il caso è utile riconoscere i meriti e
“gratificare” quel tanto che basta senza incensare nessuno).
ü Ringraziare (senza
ossequiare) sempre chi si presta per noi, soprattutto se questi non è tenuto a
soddisfare le nostre richieste.
ü Mai fare nomi di
persone od Enti se non è strettamente necessario (o giustificatamente richiesto) in quanto riferimenti o citazioni inopportune, specie se di fatti o
persone assenti, possono indurre l’interlocutore a giudizi e considerazioni
negative nei nostri confronti.
ü Annotare con
“discrezione”, durante o dopo i colloqui, i dati che interessano, compreso il
nome del nostro interlocutore (ciò può essere utile in futuro)
ü Rilasciando
documenti originali (soprattutto se firmati) all’Ente o al burocrate,
pretendere sempre una fotocopia o copia conforme all’originale. Quando è il
caso, con data, timbro e firma per ricevuta. In taluni casi è bene trattenere
gli originali (se non espressamente richiesti) e rilasciare fotocopia al burocrate
Purtroppo, alla luce dei
fatti, non sono pochi i cittadini che piuttosto che assumere un atteggiamento
di difesa dei propri diritti (pur avendo espletato i propri doveri), vi
rinunciano passivamente e, per questo, sono oggetto di quanto sosteneva
Alessandro Manzoni (1785-1873): «Noi
uomini siamo fatti così: ci rivoltiamo sdegnati contro i mali mezzani, e ci
curviamo in silenzio sotto gli estremi». Constatazioni che rispecchiano la
realtà quotidiana, e questo vale nei Paesi liberi (come il nostro), dove la
libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono, ma purtroppo di fare
anche ciò che si vuole; e poiché anche la conoscenza è potere, nessuno conosce
le proprie possibilità finché non le mette alla prova. Non di rado capita di
subire torti, ingiustizie, soprusi, violazioni, e quant’altro sia nei rapporti
con il privato che con il pubblico; ed è saggio rigettare ogni pensiero di
“vendetta” e tendere al perdono… Non si perdona qualcuno perché lo si accetta:
si perdona chi ha commesso un torto inaccettabile… Quando si perdona qualcuno
non è necessario tollerare ciò che ha fatto perché lo si può perdonare anche
rifiutando di tollerare le sue azioni. Bisogna fare in modo che le relazioni
sociali in qualunque contesto (anche in ambito pubblico) e i discorsi siano
migliori del proprio silenzio; al contrario, piuttosto, è conveniente tacere. «Ma sbagliare è umano – sosteneva la
scrittrice statunitense Ann Landers (1918-2002) – perché tutti i giorni ognuno di noi prende delle decisioni capaci di
cambiare il corso della nostra vita. Nessuno, per quanto avveduto ed esperto,
può prendere ogni volta la decisione più giusta. Sbagliare non è una vergogna. È vergogna non imparare dagli errori, non risollevarsi dalle cadute, non
scuotersi la polvere di dosso e tentare di nuovo». È quindi doveroso proporsi nei confronti dei nostri concittadini più
“penalizzati”, trasmettendo loro nozioni e consigli pratici per aiutarli a superare
(per quanto possibile) ostacoli e difficoltà causate dalla burocrazia o dalla
semplice ignoranza… E, come sosteneva il filantropo e premio nobel per la Pace,
Albert Schweitzer (1875-1965): «L’esempio
non è la cosa che influisce di più sugli altri: è l’unica cosa». Del resto
la speranza sostiene la nostra capacità di vivere nel periodo e nelle
difficoltà senza esserne sopraffatti; la speranza (ma c’è chi la chiama fede) è
la volontà di lottare contro gli ostacoli anche quando appaiono insuperabili. È l’incoraggiamento a tenerci in
vita, senza di esso moriamo lentamente, fra la tristezza e la rabbia. Tali
suggerimenti di saggezza alludono in qualche modo alla saggezza che dovrebbe
essere “padrina” delle nostre, spesso, incontrollate pulsioni soprattutto
quando ci troviamo a dover affrontare un’ingiustizia…
L’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP)
È dell’allora ministro per i Beni e
le Attività Culturali (dal 2003 al 2005), Giuliano Urbani, la decisione di
istituire gli Uffici Relazioni con il Pubblico (URP), ma vi sono realtà in cui tale
realizzazione pratica è assente o poco operativa. Il Dlgs n. 29/93, art. 12,
prevede l’obbligo per tutte le P.A. di aprire l’URP e la legge dell’11/7/1995 n.
273 stabiliscono che tali uffici svolgano le seguenti funzioni:
ü Garantire ai cittadino la
partecipazione, l’accesso ai documenti ed, in generale, all’informazione sulle
attività dell’Amministrazione di cui alla Legge 7/8/1990 n. 241 e successive
modificazioni;
ü Rilevazione delle esigenze dei cittadini,
con relative proposte per il miglioramento dei rapporti tra Amministrazione e
collettività;
ü Promozione e realizzazione di interventi
di comunicazione per assicurare la conoscenza delle norme dei servizi erogati,
dei diritti dei cittadini;
ü Proposte, alla propria Amministrazione,
di procedure più snelle, nel caso in cui quelle adottate risultino poco
efficaci;
ü Attuare, mediante l’ascolto dei cittadini
e la comunicazione interna, i processi di verifica della qualità dei servizi e
di gradimento degli stessi da parte degli utenti;
ü Garantire la reciproca informazione fra
l’ufficio per le relazioni con il pubblico e le altre strutture operanti
nell’Amministrazione, nonché fra gli URP delle varie Amministrazioni.
L’informazione e la comunicazione nella P.A.
La Legge n. 150 del
7/6/2000 Disciplina le attività di informazione e comunicazione delle P.A. Per
la prima volta (grazie a questa legge) la comunicazione è “protagonista della
scena normativa”. L’informazione e la
comunicazione vengono definitivamente
legittimate e riconosciute come costanti delle azioni del governo nella P.A.
Tale legge riconosce inoltre la valorizzazione delle competenze necessarie per
gestire attività e funzioni di comunicazione (art. 4) come momento
fondamentale. Vengono altresì identificate (art. 6) per la realizzazione di
queste funzioni. Al 4° comma si evince: “nel rispetto delle norme vigenti in
tema di segreto di Stato, di segreto d’Ufficio, di tutela della riservatezza dei
dati personali e in conformità ai comportamenti richiesti dalle carte
deontologiche”, sono considerate attività di informazione e di comunicazione
istituzionale quelle poste in essere in Italia e all’estero dai soggetti di cui
al comma 2 e volte a conseguire:
l’informazione ai mezzi di comunicazione di massa, attraverso
stampa, audiovisivi, e strumenti telematici
la comunicazione esterna rivolta ai cittadini, alla
collettività e ad altri enti attraverso ogni modalità tecnica ed organizzativa
la comunicazione interna realizzata nell’ambito di ciascun
ente
Le attività di informazione e di comunicazione interna sono
finalizzate soprattutto a:
illustrare e
favorire la conoscenza delle disposizioni normative al fine di facilitarne
l’applicazione,
illustrare le
attività delle Istituzioni e il loro funzionamento,
favorire l’accesso
ai servizi pubblici promuovendone la conoscenza,
promuovere
conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e
sociale,
favorire processi
interni di semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli apparati
nonché la conoscenza dell’avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi;
promuovere
l’immagine delle Amministrazioni, nonché quella dell’Italia, in Europa e nel
mondo, conferendo conoscenza e visibilità ad eventi d’importanza locale,
regionale, nazionale e internazionale.
L’art. 2 evidenzia
che le attività di informazione e comunicazione si esplicano anche attraverso
la pubblicità, le distribuzioni e le vendite promozionali, le affissioni,
l’organizzazione di manifestazioni e partecipazione a rassegne specialistiche,
fiere e congressi. Inoltre, sono attuate con ogni mezzo di trasmissione idoneo
ad assicurare la necessaria diffusione dei messaggi anche attraverso la
strumentazione grafico-editoriale, le strutture informatiche, gli sportelli,
etc. l’Art. 6, comma 1 precisa che le attività di informazione si realizzano
attraverso il “Portavoce” e l’Ufficio Stampa, e quelle di comunicazione
attraverso l’Ufficio per le Relazioni con il Pubblico, nonché attraverso analoghe
strutture quali gli sportelli per il cittadino, gli sportelli unici della P.A.,
gli sportelli polifunzionali, gli sportelli in genere, etc. L’art. 7 stabilisce: “l’organo di vertice della P.A. che può essere coadiuvato da un
Portavoce, anche esterno all’Amministrazione, con compiti di diretta
collaborazione ai fini dei rapporti di carattere politico-istituzionale con gli
Organi di informazione”. Relativamente ai limiti dell’attività del
Portavoce, incaricato dal medesimo organo, non può, per tutta la durata del
relativo incarico, esercitare attività nei settori radiotelevisivo, del
giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche. Il comma 2 è relativo al
compenso e stabilisce che al Portavoce è attribuita una indennità determinata
dall’organo di vertice nei limiti delle risorse disponibili appositamente
iscritte in bilancio da ciascuna Amministrazione per le medesime finalità.
Gli Uffici Stampa (art. 9 Legge n. 150)
Comma 1. Le Amministrazioni Pubbliche
possono dotarsi anche in forma associata di un Ufficio Stampa, la cui attività
è in via prioritaria indirizzata ai mezzi di informazione di massa. Comma 2.
Gli Uffici stampa sono costituiti da personale iscritto all’Albo nazionale dei
giornalisti. Tale dotazione di personale è costituita da dipendenti della P.A.
anche in posizione di comando o fuori ruolo, o da personale estraneo alla P.A.
in possesso di titoli individuati. Comma 3. L’Ufficio stampa è diretto
da un coordinatore, che assume la qualifica di capo ufficio stampa il quale,
sulla base delle direttive impartite dall’organo di vertice
dell’amministrazione, cura i collegamenti con gli organi di informazione,
assicurando il massimo grado di trasparenza, chiarezza e tempestività delle
comunicazioni da fornire nelle materie di interesse dell’amministrazione. Comma
4. I coordinatori e i componenti dell’ufficio stampa non possono
esercitare, per tutta la durata dei relativi incarichi, attività professionali
nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni
pubbliche. Va da sé che tali figure preposte all’informazione rientrano nella
Carta dei doveri del giornalista degli Uffici stampa, che prevedono il rispetto
delle Istituzioni di informare il cittadino, rispetto del diritto dei cittadini
di essere informati, rispetto delle carte deontologiche, evitare situazioni di
confusione tra il dovere di informare e esigenze di informazione
personalistica, favorire il dialogo tra Ente e utente anche attraverso nuove
norme di comunicazione, rispetto delle norme sulla privacy.
Il Patronato e le Associazioni di Volontariato
I patronati sono
costituiti e gestiti da associazioni nazionali dei lavoratori (solitamente dai
sindacati). Hanno il compito di assistere il cittadino nella impostazione e nel
prosieguo delle pratiche burocratiche (pensione, posizione assicurativa Inps,
malattia/invalidità, maternità, disoccupazione, etc.) Le Associazioni hanno in
comune un art. del loro Statuto: “… non a
fini di lucro”, ma a mio avviso sono veramente poche quelle in grado,
attraverso i loro componenti, di affrontare situazioni di particolare impegno
in difesa dei cittadini, spesso loro stessi associati, simpatizzanti… Il “vero”
volontario deve essere un convinto sostenitore dell’intramontabile diritto
della “difesa sociale”, e disponibile ad ogni iniziativa (senza sostituirsi
alle Istituzioni) per il “recupero” dei diritti umani. Nel “non profit” bisogna
orientarsi sempre in una direzione e non in ogni direzione. Si ritiene che
l’Italia sia l’unico Paese europeo che abbia al suo attivo il maggior numero di
associazioni di volontariato, parte delle quali svolgono azioni di intervento
che spetterebbero alle Istituzioni pubbliche. Da ciò ne deriva che tale forza
operativa tende a voler “sanare” (direttamente o indirettamente) il Welfare
state. Una incongruenza davvero inconcepibile se si pensa, tra l’altro, che
tale presenza potrebbe essere occupata da cittadini (“vera” forza lavoro) in
cerca di un’occupazione, e che probabilmente ben si adatterebbero a ricoprire
ruoli di utilità sociale. Ma è risaputo che l’obiettività e la razionalità,
come la meritocrazia, sono atteggiamenti mentali e culturali in continuo
declino.
Il Difensore Civico: chi è e cosa fa
Il difensore civico
ha origini lontane. Nasce in Svezia nel 1807 e si chiama Ombudsman che significa “uomo che fa da tramite”, ossia mediatore.
Nel nostro Paese questa figura compare per la prima volta nel 1974 in Toscana,
ma solo nel 1990, con la Legge n. 142 sull’Ordinamento delle autonomie locali,
dà la possibilità a Province, Comuni e Regioni di averne uno, definendone
compiti e funzioni. «Il Difensore Civico
– recita l’art. 8 – svolge un ruolo di
garante dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione
comunale, provinciale, regionale segnalando, anche di propria iniziativa gli
abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi dell’amministrazione nei
confronti dei cittadini». Per ottenere
la nomina a questo incarico occorre essere iscritti nelle liste elettorali
di un qualsiasi Comune ed avere 18 anni di età. La legge non richiede altri
requisiti, mentre alcune Regioni e/o Comuni richiedono, oltre al titolo di
Laurea in Giurisprudenza, od altri titoli, anche una peculiare competenza
giuridico-amministrativa e la garanzia di indipendenza, obiettività e serenità
di giudizio. Anche un autodidatta potrebbe potenzialmente ricoprire tale
incarico… se dotato di sufficienti basi di cultura generale. Il D.C. è una
figura istituzionale che si colloca come strumento di tutela (pur non avendo
particolari poteri…) di quegli interessi del cittadino spesso lesi da quei
comportamenti diffusi nelle P.A., che si manifestano con lentezze,
indifferenze, scorrettezze, negligenze, formalismi eccessivi, soprusi e
talvolta anche abuso di potere. In Piemonte, ad esempio, l’idea di fornire ai
cittadini uno strumento per difendersi dagli errori e dai soprusi delle P.A.,
ossia l’istituzione dell’Ombudsman piemontese, è una realtà dal 1981, anno
in cui la Giunta Regionale con la Legge n. 50 ha istituito il D.C. ed è
operativa dal 1982. Il Comune di Torino lo ha insediato nell’aprile del 1983
con la seguente motivazione: «A garanzia
dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione comunale e per
assistere i cittadini e gli utenti dei servizi nella tutela dei loro diritti».
In sintesi questo “burocrate” è titolare di un servizio gratuito per il
cittadino, solitamente è eletto da una Commissione composta da magistrati e
presieduta dal presidente del Consiglio Regionale e Comunale; generalmente può
essere un avvocato, un magistrato, un politico (ufficialmente attivo). Per
quanto riguarda la Città di Torino la Legge nr. 42 del 26/3/2010 ha previsto la
soppressione della difesa civica comunale. Sul territorio restano attivi gli
uffici del D.C. regionale.
Perché “riabilitare” l’autodidatta
L’obiettività (e
l’onestà intellettuale) ci porta ad affermare che nel nostro Paese tra i
diplomati e i laureati vi sono individui di indubbia validità intellettuale;
altri invece, oltre a far pesare il loro titolo accademico alla prova dei fatti
non valgono il titolo acquisito. Per contro, esiste una schiera di persone
autodidatta che, per le più svariate ragioni, non hanno potuto (o voluto)
proseguire gli studi, ma che tuttavia si distinguono per “vivacità”
intellettuale, esperienza e predisposizione naturale per questa o quella
disciplina. Spesso queste ultime sono persone poco conosciute, emarginate e
pertanto “mal distribuite” in ambito lavorativo e socio-culturale. Il loro
mancato (ed obiettivo) riconoscimento da parte di accademici, burocrati e
responsabili di Istituzioni pubbliche od Enti privati, suona come una sorta di
ghettizzazione relegando gli autodidatta nel limbo dei “perdenti”, degli
“inferiori”, degli “emarginati” o dei mobbizzati. Un atteggiamento, questo, che
evidenzia la grave mancanza di obiettività con il rischio di “compromettere” la
crescita sociale, culturale e professionale di quelle persone che sono in grado
di dimostrare in qualunque momento di contribuire al PIL del proprio Paese; ma
soprattutto di meglio “sacrificare” il proprio tempo, la propria salute, i
propri affetti familiari, e a volte anche la propria dignità a garanzia di un’ottima
risposta alle esigenze umane, culturali e professionali e… di mercato. Anche le
persone autodidatta (come tutti i comuni mortali) sono dotate di una
ragionevole dose di individualismo, proprio perché non si ritengono inferiori
ad altre, pur essendo coscienti dei propri limiti. La convinzione di essere in
grado di avere un preciso ruolo, di poter esercitare una determinata mansione,
così come la capacità di esprimere i propri bisogni (impegnandosi a fondo) e
nello stesso tempo anche i propri dubbi, e di accettare l’aiuto di altri, senza
per questo sentirsi incapaci, nell’insieme sono caratteristiche che evidenziano
in loro una buona autostima. Solitamente un’ottima risorsa che le aiuta a
raggiungere i propri obiettivi e, a volte, anche ad autoaffermarsi. Ma non
sempre è così per taluni “arroganti titolati” (ancor peggio se insigniti
indebitamente di una laurea honoris causa)
che, nel nostro Paese, sono in egual misura alcuni pseudo laureati e millantatori tanto da “favorire” il degrado di
una società che avrebbe più bisogno di predisposizione piuttosto di una
“imposizione”, sia accademica che professionale. Da notare che per partecipare
ai concorsi pubblici, secondo le vigenti leggi italiane, quasi sempre tra i
requisiti è richiesto il Diploma di Laurea; ma poco importa, una volta vinto il
Concorso (per questa o quella disciplina) se il candidato ha, oppure no, la
necessaria predisposizione per esercitare la mansione richiesta. Molto discutibile, poi, è il fatto che alcuni nostri ministri non possedevano un Diploma di Laurea, e ciò in contraddizione con la richiesta di un titolo di studio di Scuola Superiore da parte un cittadino comune che intende partecipare ad un concorso pubblico!
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Un saggio di aforismi sulla figura del burocrate
Burocrazia: un gigantesco meccanismo
azionato da pigmei (Honoré de Balzac)
Se qualcosa può andar male, lo farà in
triplice copia (Arthur Bloch)
La menzione delle noie burocratiche tra i
motivi che giustificano il suicidio, mi sembra la cosa più profonda che Amleto ha
detto (Emil Cioran)
Una delle radici della cattiva amministrazione,
della burocratizzazione intesa in senso deteriore, consiste proprio nella
pretesa di molti cattivi funzionari di limitarsi al “applicare” le norme: essi
così facendo esercitano la loro discrezionalità in maniera non consapevole e
comunque non orientata alla risoluzione dei problemi che sono appunto di
competenza dell’amministrazione e sono la ragione stessa della sua esistenza,
bensì orientata unicamente all’illusorio e mistificante adempimento delle
disposizioni ricevute dall’alto (Massimo Corsale)
Un’organizzazione burocratica è
un’organizzazione che non arriva a correggersi in funzione dei propri errori (Michel Crozier)
Scopo della burocrazia è di condurre gli
affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo
possibile (Carlo Dossi)
Gli presentano il progetto per lo
snellimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modulo
H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio
competente, che sta creando (Ennio Flaiano)
Più burocratica è un’organizzazione, più
grande è la misura in cui il lavoro inutile tende a rimpiazzare il lavoro utile
(Milton e Rose
Friedman)
I ceppi dell’umanità tormentata sono
fatti di carta bollata (Franz Kafka)
La burocrazia è lo Stato immaginario
accanto allo Stato reale, è lo spiritualismo dello Stato (Karl Marx)
L’unica cosa che ci salva dalla
burocrazia è l’inefficienza. Una
burocrazia efficiente è la più grande minaccia della libertà (Eugene Carthy)
Ciò che la gente rifiuta non è la
burocrazia come tale, quanto piuttosto l’intrusione di essa in tutte le sfere
della vita e delle attività umane (Ludwig von Mises)
Burocrazia: una difficoltà per ogni
soluzione (Herbert Samuel)
Vi sono in cielo e in terra assai più
cose di quante ne sogni la vostra burocrazia (Giovanni Soriano)
Burocrazia: l’incapacità addestrata
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Come tutelarci di fronte ad ingiustizie e
soprusi?
Sono trascorsi secoli ma il genere umano continua a subire, nelle
molteplici realtà, soprusi e ingiustizie di ogni ordine e grado da parte delle
Istituzioni pubbliche (oltre che da privati) e, per quello che riguarda la realtà italiana, uno dei principali
“nemici” da affrontare è proprio la burocrazia. É bene precisare che oltre ad
essere intellettualmente onesti nell’asserire di aver ragione nei confronti
della P.A., quando si incontrano ostilità e “chiusura” da parte della stessa
bisogna armarsi di pazienza, tolleranza e diplomazia e anche un po’ di cultura
giuridico-amministrativa. Ma poiché questi requisiti a volte non sono sufficienti (e sono di pochi) per far valere le proprie ragioni, un tentativo che possa essere in qualche
modo utile a sostegno delle fasce deboli (disabili gravi, anziani, clochard, disoccupati,
precari, etc.), è quello di fare riferimento alla filosofia-comportamentale
dell’antico Ordine dei Templari, che come sappiamo per lungo tempo si dedicò
alla difesa dei deboli. E per come vanno le cose in Italia in tema di
ingiustizie e vessazioni a vari livelli e in diversi ambiti, mi consta che le
molteplici realtà associative, per quanto votate al bene comune, non sono
impostate (fatte le debite eccezioni) con l’intento della forte
determinazione per difendere il cittadino-suddito dei sistemi perversi, quali
la politica e la burocrazia, tanto che a volte deve ricorrere alla consulenza
legale… A mio modesto parere sarebbe una ipotesi di iniziale soluzione ideare
un corpus di “Moderni Templari”, votati a combattere le ingiustizie della
quotidianità; e ciò può sembrare anacronistico o una provocazione (ovviamente
non sovversiva) ma, nello stesso tempo, sostengo essere un’azione di carattere
umanitario e quindi di solidarietà per ridare valore ai concetti di dignità e
giustizia della persona offesa dal “nemico” burocrate; un’azione che
personalmente da anni espleto in modo concreto (e non profit), sia pur con dei limiti…
Concretizzare questo corpus formato da più persone è assai problematico, sia
perché potrebbe non essere condiviso sia perché sarebbero rari i soggetti da
individuare dotati di competenza, dedizione, determinazione e abnegazione. Ma al
di là di questa che potrebbe essere una proposta definibile blasfema da molti,
non mi pare esistano altre possibilità per superare i muri di gommapiuma, ossia
le vere e proprie fortezze della Burocrazia. In attesa di veder nascere questo
corpus di concreta solidarietà rammento che ogni giorno la paura bussa alla
porta e, purtroppo, quando il coraggio va ad aprire, quasi sempre non c’è nessuno. E sta in
questo aforisma che la maggior parte dei cittadini subisce le angherie e le
sopraffazioni della burocrazia. Quindi, ben venga quel templare senza spada, scudo e
destriero, ma dotato dei migliori intendimenti di uguaglianza e giustizia.
Bibliografia
“La burocrazia italiana: cultura, uomini e compiti dall’Unità al 1980”, di
Davide Callegari; Università di Milano
“Il dottore è fuori stanza”, Libro bianco sull’assenteismo ministeriale; da
il Movimento Diritti e Doveri; supplemento
al n. 34 de’ Il Duemila, 10/11/1988
“Adesso si può sapere il nome di chi tratta una pratica e in quanto tempo
deve concluderla”, da Difesa Legittima, de’ Il Duemila, 15/10/1990
“I tuoi diritti”, il primo manuale pratico dell’autodifesa civile, di
Amedeo Santosuosso; edizione Hoepli, 1991
“La Legge 241: finalmente un altro passo avanti”, da “Il Duemila,
5/10/1992
“Quando l’archivio è strumento di trasparenza”, da Aspe, 27/6/1994
“Il terzo libro di Murphy”; Ed Longanesi, 1994
“Cento volte ingiustizia. Innocenti in manette”, di B. Lattanzi e V.
Maimone; Ed. Mursia, 1996
“La burocrazia”, di Guido Melis; Ed. Il Mulino, 1998
“Dizionario di educazione civica. Italiana e cittadini d’Europa”, di
Alberto Sensini; Armando editore, 1999
“Storia della Pubblica Amministrazione in Italia”, da Globalizzazione
2000 (internet)
“Burocrazia fuori legge. Peripezie di cittadini e imprese assediati dal gigante di carta bollata”, di
Marco Rogari; Ed. Sperling & Kupfer, 2001
“La follia del mondo. Per una psichiatria della storia”, di Vittorino
Andreoli; Ed. Marietti, 2003
“La Corte si ritira. Storie controverse di controversa giustizia”, di
Vincenzo Tessandori; Ed. Boroli, 2004
“La costruzione di una burocrazia unitaria”, di Guido Melis, 2004
“La normativa sulla comunicazione pubblica”, da Corso di Laurea in
Scienze della Comunicazione, di Alessandro Lovari; Università degli Studi di
Siena, maggio 2007
“De jure condendo. Ammissibilità della perizia criminologica in sede
processuale”, di Ernesto Bodini, da tavola rotonda sul tema: “Author and victim
of Crime” al congresso internazionale di Criminologia e Psichiatria; Mantova
4-7 marzo 2010
“Il mobbing, un “nemico” da combattere: a volte basta volerlo”, di Ernesto
Bodini, da ilmiogiornale.org, 27/11/2012
“Il peso abnorme della burocrazia e la ragnatela del non fare”, di Angelo
Panebianco; Corriere della Sera, 14/7/2013
“La raccomandazione”, di Donatella, da Enigmistica n. 289, luglio 2013
“Dall’Educazione civica alla Cittadinanza e Costituzione, di Ernesto
Bodini; da ilmiogiornale.org, 19/10/2015
“Dall’utopia al pragmatismo facciamo nascere i nuovi “Templari” della
dignità umana”, di Ernesto Bodini; da ilmiogiornale.org 24/2/2018
“I templari oggi? In versione moderna per porre un limite alle pene di
chi subisce ingiustizia”, di Ernesto Bodini; da ilmiogiornale.org 17/9/2019
“Sintesi di Educazione Civica. Ad uso della Scuola Secondaria Superiore,
di Giuseppe Parisi
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