L’INVERSIONE DELLA SOLIDARIETÀ CHE UMILIA CHI SOFFRE E CHI
ASSISTE
Il perpetuarsi dell’egoismo concentrato sulla venalità rende
ulteriormente povero un Paese, il cui progresso civile e culturale si va
frantumando dividendo sempre più i sofferenti dai benestanti. Un fenomeno che
chiama in causa anche il modo non coretto di sensibilizzare.
di Ernesto Bodini
Scorrendo
pagine di cronaca e filmati di
vari social network si leggono numerose storie di drammi umani che, dall’inizio
sino all’epilogo, spesso hanno dell’assurdo sia per quanto riguarda le vittime
di soprusi e sopraffazioni, sia per quanto riguarda persone colpite da calamità
naturali perdendo beni se non anche la vita. Ma vi sono anche i drammi che
coinvolgono persone che, avendo contratto malattie gravi, sono costrette a
richiedere alla collettività un sostegno per la loro sopravvivenza. Mentre nei
primi due casi ritengo che non si faccia abbastanza per prevenire e tutelare
chi incorre in eventi che possono mettere a rischio la propria incolumità, sul
secondo aspetto vorrei soffermarmi in modo particolare, non solo perché
l’elenco dei protagonisti non è meno breve ma anche e soprattutto perché il
dramma umano si raddoppia quando alla severità della malattia diventa
inevitabile attivare la cosiddetta catena della solidarietà. Una catena che
inizia con il diffondere la conoscenza del caso e quindi con l’atto del sensibilizzare,
per poi procedere attraverso varie iniziative volte alla raccolta fondi per
affrontare le spese di un ricovero (spesso all’estero) e implicitamente la
terapia. Si dice che il popolo italiano è notoriamente di indole generosa, e
questo in gran parte è vero; ma da come vanno le cose nel nostro Paese quella
generosità, a mio avviso, si va sempre più assottigliando o comunque si
manifesta con estrema difficoltà… Quello della generosità, quindi, è un
fenomeno in regressione per via della crisi politico-economica, oppure per
quella sorta di rivisitazione della locuzione latina “mors tua vita mea”? È un quesito tremendamente emblematico che coinvolge
la coscienza di tutti, e dare una risposta equivarrebbe ad anticipare una
evoluzione socio-culturale dalle prospettive a dir poco inquietanti, probabilmente
con scarse possibilità di un ritorno all’ottimismo. In contrapposizione a ciò
c’è chi si propone per partecipare ai
giochi a premi, chi per mero appagamento di due ore alla settimana frequenta
stadi (non certo gratuitamente) contribuendo ad arricchire i loro beniamini;
chi ancora insegue il miraggio del benessere e della notorietà magari spendendo
notevoli risorse; ed ancora, c’é chi si arricchisce alle spalle dei poveri con
varie iniziative ed espedienti… quasi sempre illeciti; tutto questo condito
unicamente dalla venalità.
A costoro vorrei rammentare una
osservazione-invito di Don Carlo Gnocchi (1902-1956, nella foto), padre dei
mutilatini e dei poliomielitici: «Molti si
preoccupano di star bene, assai più che di vivere bene. Per questo finiscono
anche per vivere molto male. Cerca di fare tanto bene nella vita e finirai
anche tu per stare tanto bene». Ma
intanto, tumori gravi e malattie degenerative (spesso rare) colpiscono sempre
più persone e, i “casi limite”, stentano a sopravvivere aggrappandosi ai
sacrifici dei propri famigliari e alla bontà del prossimo. Ma perché nonostante
un’era in cui primeggiano mezzi e competenze ogni volta che una persona versa
in gravi condizioni di salute, deve umiliarsi (come pure i suoi famigliari)
invocando il sostegno con una raccolta fondi e che, guarda caso, chi vi
aderisce generalmente non è un benestante? È un quesito altrettanto inquietante
e forse la risposta è da ricercarsi nella parabola del ricco Epulone (dal
Vangelo di Gesù), meglio nota come la Parabola
del ricco e del mendicante Lazzaro; un riferimento cristiano-evangelico ma
che non colma una carenza e nemmeno acquieta l’animo del sofferente. Ed è un
dato di fatto che viviamo in una società sempre più priva di valori morali ed
etici, e sempre più ingorda perché oltre a non considerare la vita altrui, per
certi versi molti non considerano nemmeno la propria… Da sempre si dice che chi
può non fa e chi vorrebbe fare non può; sembra una frase fatta intrisa di
retorica, ma che rispecchia la quotidianità non solo italiana ma un po’
ovunque; e questo, non fa che ingigantire il problema dei molti casi che si
appellano al “buon cuore” del vicino della porta accanto, del parente, dell’amico,
del collega e anche dello sconosciuto. Ma va anche detto che quando si fa un
appello per iniziative di solidarietà come ad esempio con la raccolta fondi, i
promotori non dovrebbero “imporre” la cifra da versare e la durata di tale
gesto («… se versate 9.00 euro al mese,
potrete…»), come viene pronunciato dagli speaker in questi giorni
attraverso alcuni spot televisivi. Un malcostume che non può che inficiare le
buone intenzioni di chi pensa di poter offrire: imporre, sia pur sotto forma di
invito, l’entità di una richiesta, non solo è indice di indelicatezza ma è
anche preludio ad una errata sensibilizzazione.
Commenti
Posta un commento