QUANDO IL “FINE VITA” IMPONE UNA
PROFONDA
IMMEDESIMAZIONE E RISPETTO DELLA
LIBERTÀ DI SCELTA
La dignità della persona sofferente,
sia pur in extremis, assume un ruolo
primario che precede la decisione di porre
fine o meno all’esistenza
di Ernesto Bodini
Poco tempo fa, in
seguito al decesso (11 luglio) di Vincent Lambert, il paziente tetraplegico
divenuto simbolo del dibattito sul fine vita in Francia, con notevoli
ripercussioni anche in Italia, da una associazione onlus che da anni si occupa
di ricerca e studi sulla morte, mi è stato chiesto di esprimere qualche mia
considerazione in merito all’evento. Il tema è indubbiamente tanto delicato
quanto “impegnativo” nel volerlo affrontare e, per non venire meno a tale
richiesta, quale opinionista mi sono limitato ad alcune considerazioni sul
concetto della morte, tanto che sono state accolte e inserite nel sito di
quella associazione e che qui ripropongo fedelmente. «È sempre un atto di coraggio esprimersi sul tema della morte, e al
tempo stesso è di grande “responsabilità interiore”, ai quali ogni essere umano
prima o poi dovrà affrontare, fatta eccezione per i cosiddetti stoici
dell’esistenza, e magari anche degli atei e degli agnostici. Ma come in tutte
le esperienze della vita prima di esprimere un sereno parere e/o giudizio in
merito, bisogna trovarsi (previa coscienza) nel contesto di sofferenza-morte,
ancorché condizionati dall’angoscioso enigma: che cosa ci aspetta dopo la
morte? A mio modesto avviso non credo che si tratti di mera filosofia e di
prendere coscienza di quell’esistenzialismo ben espresso da Söeren Kierkegaard
(1813-1855), perché quando si tratta di decidere se porre fine alla
propria (o altrui) esistenza di fronte
ad un lungo periodo di estrema sofferenza, che quasi sempre “condiziona” coloro
che assistono questi pazienti come Vincent Lambert, l’impegno è oltremodo
immane tanto che nessun essere umano (se intellettualmente onesto) può
arrogarsi di agire per o contro. Ma tant’è. Le vie d’uscita sono sempre solo due,
e quindi deve prevalere quella forma istintiva o d’impeto della quale nessuno
può frapporsi, e questo al di là dell’etica medica o di una legislazione
favorente o di negazione. Lasciare il mondo biologicamente è un fenomeno
universale ed irreversibile e, in questi casi, il “movente” sofferenza la fa da
padrone ed è estremamente umano lasciar decidere in un senso o nell’altro
all’interessato. Personalmente, pur frequentando da molti anni il mondo medico
e in senso più lato quello della sofferenza, non mi sento in grado di
proseguire con ulteriori approfondimenti se non evidenziando il fatto che
l’uomo non dovrebbe mai arrivare a trovarsi a stabilire l’ora della propria
morte: una tale conoscenza, si recepisce da più parti, lo getterebbe (quando
nel pieno delle sue facoltà mentali) in uno stato di depressione tale da
privarlo di ogni volontà di agire o del desiderio di spravvivenza. E anche di
fronte all’esperienza della profonda ed irreversibile sofferenza, non sono le
persone deputate a giudicare e a darci ragione ma soltanto il tempo che ne ha
determinato l’exitus». Quest’ultimo episodio, in fatto temporale, ci
riporta alla memoria quello di Eluana Englaro, la giovane in stato vegetativo
per 17 anni (deceduta nel 1992), che divenne un “caso giudiziario” e un “caso
bioetico” perché il padre si rivolse alla Magistratura italiana per ottenere la
sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali che permettevano
alla paziente di continuare a vivere. E scorrendo un lungo articolo di un
periodico di area medica, a firma del prof. Adriano Pessina, cattedratico di
Bioetica all’Università Cattolica di Milano, l’autore pone in evidenza che la
giovane paziente non avrebbe mai voluto vivere in quelle condizioni, proprio
perché sembra ovvio che nessuno vorrebbe vivere senza sapere di vivere. Al
tempo stesso il cattedratico pone il seguente quesito: di fronte ad una persona
che è priva di coscienza abbiamo o no il dovere di prestare le cure ordinarie
che le permettono di vivere? La risposta da lui suggerita la si rileva dal
successivo capoverso: «Il fatto di tenere
conto dei desideri e delle volontà pregresse di una persona, non può minare due
doveri fondamentali della convivenza umana: il dovere del pronto soccorso e il
dovere di non uccidere, riconoscendo che la vita umana non è mai disponibile
alla volontà, propria ed altrui
Non è certo mia
intenzione pormi di fronte all’autorevolezza dei competenti, ma vorrei
rammentare che ogni qualvolta si parla di “dolce morte”, o di “morte
assistita”, un nugolo di esperti (politici a parte, che esperti non sono) in
varie discipline scende in campo, ma poca attenzione si dà ai filosofi e
studiosi (ante litteram) di notevole saggezza, alcuni dei quali ci hanno
tramandato importanti riflessioni sull’atto di porre termine, in modo
particolarmente “deciso”, a una vita di sofferenze e senza più ragionevoli
speranze. Fra questi l’inglese Ruggero Bacone (1561-1626), scienziato e uomo di
fede, il quale riteneva che fra i compiti della Medicina non ci fossero solo lo
studio e la cura delle malattie, ma anche il potere di mitigare il dolore. Infatti,
nella sua autorevole opera “Della
dignità e del progresso delle scienze”, precisava: «Questa mitigazione del dolore non serve soltanto quando può aiutare ad
arrivare alla fase della convalescenza; serve anche quando venga a mancare ogni
speranza di guarigione, per dare al paziente una morte più serena e placida».
Ma se oggi il segreto del morire è ancora ritenuto tale, il paziente che volge
al termine della sua vita, dovrebbe essere lasciato libero e nelle condizioni
di poter scegliere come meglio morire. E chi è cosciente può voler condividere
(parafrasando) Lucio Anneo Seneca (4-65 d.C.), il quale sosteneva: «La vita non sempre va conservata: il bene
infatti, non consiste nel vivere, ma nel vivere bene». Il dilemma, però, è
quando il paziente non è in grado di scegliere perché non cosciente; ed ecco
che allora scendono in campo moderni studiosi di bioetica, giurisprudenza,
teologia e magari anche di filosofia e antropologia; ma a mio modesto avviso
credo che nessuno di loro abbia (e debba
avere) il potere dell’ultima parola e… dell’ultimo atto. E questo perché dopo
Dio ci sono i famigliari del paziente che, talvolta, a seconda della cultura e
delle leggi di appartenenza, la loro voce è disattesa senza possibilità di
appello.
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