SINO A QUANDO IL SSN GARANTISCE
UN MINIMO DI TUTELA DELLA NOSTRA SALUTE?
Più correttezza e trasparenza da
ambo le parti invocando un dialogo verbale con le Istituzioni preposte per
meglio comprendersi e facilitare la soluzione di un problema
di Ernesto Bodini
Forse mi ripeto, tanto da diventare
“impopolare”, ma quando si tratta di salute per tutti è bene mantenere alto il
livello di attenzione se non si vuole essere ulteriormente penalizzati… Mi
riferisco al SSN che la nostra politica ha creato 40 anni fa e che ora, la
stessa, rischia di distruggerlo o quanto meno di impoverirlo riducendolo
all’osso, facilitando così il proliferare dell’attività privata (sia pur in
parte in convenzione o in accreditamento) al cui accesso si è in parte
costretti o rinunciatari per motivi di impossibilità economiche. Una vera e
propria inversione del diritto (altro che decantare la Costituzione… che di
questo passo si rasenta la blasfemia), e questo perché, tra le diverse ragioni,
la politica quasi sempre si impone sulle competenze con la conseguenza che ogni
sua “non logica” sconfina nella irrazionalità, penalizzando così il cosiddetto
cittadino-paziente fruitore, specie se non abbiente. Pertanto ritengo utile
ribadire che lo stato di salute di un individuo o di una popolazione è
determinato da molteplici fattori, strettamente correlati tra loro come
l’istruzione (e la cultura), l’assistenza sanitaria, il reddito, l’occupazione,
la tipologia dell’abitazione, la situazione familiare, gli stili di vita, etc.
Le società, come la nostra, sono attraversate da un gradiente di salute e il
posto occupato da ciascun individuo in relazione alla collettività, è a dir
poco rilevante; e ciò significa che chi si trova ad di sopra di un certo
livello della scala sociale gode di una salute migliore, chi invece si trova al
di sotto soffre di condizioni peggiori, se non anche umilianti! Ed è noto che i
problemi di salute sono diffusi soprattutto nelle società con maggiori
disparità socio-economiche e tra questi sono da evidenziare Italia, Irlanda,
Australia, Grecia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna, Portogallo USA. Nel nostro
Paese, tanto per dare qualche dato significativo, il 50% degli anziani (circa 7
milioni di persone) over 65, è affetto da almeno una malattia cronica, in
particolare cardiopatie, diabete, asma, depressione, osteoporosi, artrosi,
artrite reumatoide e glaucoma; sia pur in parte ben controllate da adeguate
terapie. Ma purtroppo non sono pochi i pazienti che non aderiscono ai
trattamenti o vi rinunciano dopo un breve periodo e, a riguardo, si stima che
solo la metà dei pazienti assuma i farmaci in modo corretto (OMS); i “non
osservanti” superano il 70% fra gli anziani, che spesso sono colpiti da diverse
patologie (in parte invalidanti) e affrontano maggiori difficoltà nel seguire
le indicazioni del medico; mentre un altro dato di rilievo indica che l’11%
degli anziani (circa 1,5 milioni di persone in Italia) deve assumere ogni
giorno 10 o più farmaci.
Sino ad oggi si è sostenuto che sono
gli italiani il popolo più sano al mondo grazie anche ai sistemi sanitari di
cui ha goduto, tanto da sfidare lo stereotipo della cosiddetta “malasanità”,
degli sprechi, della corruzione, delle inefficienze e inappropriatezze che ogni
giorno arricchiscono le cronache. Ma dove nasce lo stereotipo? Si prenda ad
esempio il fatto che tra i trentini e i campani ci sono tre anni di differenza,
relativamente pochi ma sufficienti da evidenziare una diseguaglianza che
riguarda il parametro per definizione
più importante: la lunghezza stessa della nostra esistenza; per non parlare poi
dei posti letto (pl) nelle strutture socio-sanitarie: al sud 2 pl per 1.000
abitanti, al nord 8 pl per 1.000 abitanti. Potrei citare ulteriori dati come
segno di decadimento di quel garantismo che oggi è sempre più affievolito,
tanto che il concetto di uguaglianza sta assumendo il valore di un’ipocrisia
(sia pur in presenza di qualche realtà più virtuosa a macchia di leopardo
presente al centro-nord), perché non si tiene conto che uguaglianza non
significa essere identici, ma ridurre le disparità dei tenori di vita dei membri
della società, soprattutto se versano in condizioni di particolari esigenze.
Pur non volendo fare del disfattismo, che non è certo mio costume, è evidente
che la frattura fra le due Italie è quella fra nord e sud: efficienze ed
inefficienze dipendono da precise responsabilità, non solo di chi ha invocato
la Riforma del Titolo V della Costituzione (e che probabilmente non si è ancora
pentito), ma anche di chi la Sanità la gestisce, la programma e la finanza.
Ammalarsi nelle Regione calabra con la prospettiva certa di non potersi curare
(soprattutto in oncologia), e vedersi costretti ai cosiddetti “viaggi della
speranza” con tutto ciò che ne consegue, è un quadro a dir poco allarmante che
grida vendetta al cospetto di Dio!
Ecco allora la necessità di
rivendicare il concetto del diritto che, come è noto, si intende la libertà che
è attribuita al singolo, inteso come persona; mentre il dovere implica il
concetto di obbligo, ovvero un comportamento imposto dalla norma. Quindi in
tema di salute i due termini non sono in antitesi in quanto sia il
cittadino-paziente che il prestatore d’opera sanitario sono tenuti a
rispettarli reciprocamente e, in questo contesto, ad esempio, le ricorrenti
liste di attesa possono essere superate, o ridotte al minimo, se i politici si
degnassero di prendere i provvedimenti del caso, a cominciare dal ripristino
dell’organico medico e infermieristico dalla cronica carenza, e ad una azione
di maggior (e concreto) controllo di come deve essere gestita la conduzione dei
servizi sanitari. Ma se si chiamano a propria difesa i concetti di spending review e gli obiettivi da raggiungere, a mio avviso
non si va da nessuna parte… E quel che è peggio, ritengo che l’Italia del
“malaffare” getta discredito sulle molte persone oneste e professionalmente corrette,
alle quali riconoscere questo distinguo e, contestualmente, rilevando che determinati
pazienti (non proprio corretti) talvolta sono coloro che “tradiscono” il nostro
SSN. Ma un’altra conseguenza si va sempre più delineando, che consiste nel
fenomeno della “autodiagnosi” (circa 9 milioni di italiani), formando un popolo
di improvvisati “curanti” (di se stessi) dai rischi immaginabili. Come sempre
l’equità sta nel mezzo e per meglio bilanciare una determinata situazione,
ciascuno di noi dovrebbe attivarsi attraverso la competente informazione
instaurando il più possibile un dialogo empatico con il proprio medico di
famiglia, e invocando le Istituzioni preposte ad essere più disponibili con
consulenze verbali dirette…, e non obbligando il cittadino a scrivere e
chiedere appuntamenti per e-mail senza ottenere riscontro e tanto meno udienza:
eludere il proprio dovere è un ulteriore “incentivo” ad allontanare sempre più
il cittadino dal servizio sanitario. E per dirla con il poeta e scrittore
spagnolo Francisco de Quevedo Villegas (1580-1645): «Il ricco mangia, il povero si nutre».
Le immagini sono tratte, rispettivamente, da Il Fatto Quotidiano, Popular Science e Redattore Sociale
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