UNA GIORNATA CON I VOLONTARI AMICI DELLA F.A.R.O.
Operatori sociali dell’umana
solidarietà senza confini di tempo
accanto ai pazienti ricoverati
nei due hospice torinesi
di
Ernesto Bodini
La
vita frenetica di una attività clinica non conosce soste, in particolar modo
dove l’espressione della sofferenza spesso raggiunge il culmine, sia per il
fisico che per la psiche. Al centro di questa realtà subalpina non vi sono
soltanto gli operatori sanitari (medici oncologi, palliativisti, infermieri,
psicologi, fisioterapisti, ausiliari, assistente sociale e Oss), ma anche un
gruppo di volontari (coordinati dalla tutor Barbara Slataper) che operano
accanto ai pazienti (e ai loro famigliari) ricoverati nei due hospice gestiti
dalla Fondazione F.A.R.O. Onlus (direttore sanitario Alessandro Valle), situati
nel verde della collina torinese. Una “famiglia in più” costituita da alcune
decine di persone di ogni età (particolarmente motivate) che quasi quotidianamente
si alternano tra i due hospice intitolati ai benefattori “Ida e Sergio Sugliano” al
terzo piano con 14 posti letto (responsabile dott. Alessandro Valle), e “Ida Bocca” al secondo piano con 20 posti
letto (responsabile dott.ssa Gloria Gallo), intrattenendoli con varie
iniziative ludiche e di dialogo, a sostegno e conforto per tutta la durata
della loro permanenza. Conosco la realtà della F.A.R.O. da molto tempo, ma ho
desiderato affiancarmi ad un gruppo di volontari che mercoledì 15 maggio alcuni
di loro (unitamente al personale sanitario) mi hanno accolto per condividere
parte del loro operato. Verso le ore 10.30
al secondo piano si tiene il quotidiano breefing, ossia una riunione coordinata
dalla dott.ssa Gallo con tutti gli operatori dell’hospice, volontari compresi,
per informare ed aggiornare le condizioni cliniche e/o psicologiche di ciascun
paziente, ed eventualmente predisporre ulteriori terapie e/o mantenimento delle
stesse. Molta attenzione viene posta anche alle risposte emozionali sia del
paziente che del suo famigliare, che generalmente convive nella sua stessa
stanza; come pure a quelle piccole ma significative esigenze che, per certi
versi, quando soddisfatte possono alleviare (sia pur di poco) la permanenza e
la presa in carico. Ecco che l’interazione tra i sanitari e i volontari prende
corpo dando “viva voce” a ciascuno per meglio comprendere bisogni ed emozioni,
tanto semplici quanto importanti per un paziente che nel suo stato di
sofferenza non chiede di più se non l’essere preso per mano e ascoltato… nella
mutua complicità del silenzio. Alle 11.25
raggiungo sulla terrazza la volontaria Titti, che fa compagnia alla paziente
Maddalena, una signora avanti con gli anni, in carrozzina, che volentieri ama
conversare non tanto della sua vita personale o della patologia di cui è
affetta, quanto invece delle cose più banali con l’ormai consolidato “supporto”
della sigaretta. Apparentemente è serena e affabile, sa che i suoi famigliari
ogni settimana vengono a farle visita, legata da un rapporto affettivo che a
volte commenta con la volontaria Titti (ed oggi anche con me presente, avendomi
accolto volentieri), la quale ora, sono da poco passate le 12.00, le va a prendere il vassoio con il pranzo che consuma sulla
terrazza con la complicità di un sole tiepido ma luminoso. Al termine viene
riaccompagnata in reparto “allietata” da un buon caffè che la volontaria le
procura. Alle 13.35 incontro i
volontari Rosanna e Mario, la cui esperienza operativa dura rispettivamente da
17 e 12 anni. «Qui i pazienti – spiega Mario – sono
tutti ricoverati con la massima attenzione non solo clinica ma anche
psicologica e sociale, e per tutti ci riteniamo a disposizione nel rispetto
della loro privacy e delle loro esigenze… Uno dei casi un po’ più “emblematici”
che ho conosciuto e anche seguito, è stato un clochard, probabilmente solo al
mondo; una persona di mezza età che non aveva particolari esigenze se non il
desiderio di libertà e di fumare qualche sigaretta… È spirato con in mano
l’emblema del suo vizio, raggiungendo con la nostra “amorevole complicità” quel
traguardo ultimo che non ha mai orizzonti: la libertà, appunto».
Altrettanto
significative, e molteplici, le testimonianze di Rosanna che ama raccontare
con fare più “materno” la sua vicinanza a questi pazienti, per lo più affetti
da patologie oncologiche, neurodegenerative e polmonari all’ultimo stadio. «Nel corso di questi anni – racconta – diverse sono state le esperienze un po’ sui
generis, come ad esempio l’organizzazione di un
matrimonio con un paziente, una prima comunione del nipote di un
ricoverato. Alcuni pazienti amano raccontare episodi di vicende vissute, altri
amano farsi portare accanto il proprio cane (per therapy) e trovare nella sua presenza
quel conforto che hanno sempre avuto prima di ammalarsi; altri ancora, ma sono
davvero pochi, quasi spontaneamente desiderano affrontare con noi volontari
anche il tema della morte; ma quasi tutti farsi tenere la mano non certo per un
saluto o un addio, ma per quel senso di vicinanza che semplicemente significa
non essere soli… soprattutto in assenza
di un loro famigliare. Una sorta di attenuazione della fase ultima di un
lento percorso esistenziale, la cui “complicità” non solo integra la terapia in
atto come la palliazione, ma probabilmente ne rafforza lo spirito rientrando in
quella dimensione che ci induce a pensare che solo chi ci vuole bene veramente
è portato a comprendere tre cose di noi: il dolore dietro il nostro sorriso,
l’amore dietro la nostra rabbia, le ragioni dietro il nostro silenzio. Ma la
permanenza in hospice per alcuni pazienti è qualcosa di più, ossia avere la
possibilità di occupare il tempo dedicandosi a piccole e “stimolanti” iniziative, come ad esempio
frequentando qualche ora “artistica” con la piacevole guida dell’arteterapeuta
Katia Trinchero, una giovane professionista (consulente della F.A.R.O.) che sa
intrattenere e stimolare quei pochi pazienti (in genere donne) che tra
pennelli, colori e ritagli amano creare disegni e ninnoli forse utili a
rievocare, in qualche modo, la loro infanzia o adolescenza. Oggi erano presenti
in laboratorio tre donne dalla frequentazione più consolidata, che l’artista ha
intrattenuto con pazienza certosina, alternandosi tra l’una e l’altra con
suggerimenti e aiutini per realizzare un disegno dal tema domestico, un piccolo
braccialetto o una collanina come piccole perline colorate: vezzi di antica
memoria da rivivere sia pur per qualche attimo di… spensieratezza. Prima di
lasciare questo mondo ovattato (ma non troppo) di garbato silenzio ma ricco di
significato esistenziale, varco la soglia della cosiddetta “stanza del
silenzio”, un tranquillo angolo di quiete per la meditazione e la preghiera a
disposizione dei ricoverati, dei famigliari, del personale ed anche dei
volontari. «L’obiettivo – spiega la
psicologa Claudia Bert – è quello di avere
un angolo dove raccogliersi in intimità, con i propri pensieri e le proprie
angosce come una sorta di atto “liberatorio”, e magari lasciare una propria
riflessione o anche una semplice poesia (da parte di chiunque) che vengono
raccolte in una apposita cassettina». Un bacino di commoventi messaggi
testimoniali a disposizione dei posteri… ma soprattutto di chi non ha mai
conosciuto la sofferenza! Prima di congedarmi, sono ormai le 16.15, la tutor Barbara mi fa omaggio
del libro Storie dalla FARO (edito nel 2017 a cura della F.A.R.O.
stessa), una raccolta di racconti e testimonianze di alcuni pazienti seguiti
dall’équipe della Fondazione ricoverati nei due hospice; toccanti frammenti del
loro vissuto con all’interno i loro cari e chi li ha curati, dedicati a chi li
ha ascoltati e a quanti intendono avvicinarsi a questo piccolo mondo dove la
sofferenza è di casa, e magari decidere di donare un poco del proprio tempo
anche tenendo semplicemente la loro mano con il semplice calore della bontà e
dell’altruismo. Queste poche storie, scritte in modo semplice e con spontaneità
(che ho letto con pieno coinvolgimento), sono altresì la testimonianza di
grandi sofferenze che l’amore dei protagonisti ha contribuito a superarle, e
renderle pubbliche ha messo in luce il valore della reciproca dedizione,
parimenti a quella degli operatori sanitari e volontari che li hanno avuti in
cura.
Nella
foto in alto: una gigantografia riproducente l’emblema degll’hospice “Ida
Bocca” con accanto le immagini di tutti gli operatori dell’hospice stesso;
nella foto in basso: la dott.ssa Gallo con una paziente anzitempo ricoverata.
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