L’EVOLUZIONE
DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Tra
cronaca, giurisprudenza e opinione pubblica, il concetto di giustizia
è
talvolta oggetto di discrezionalità rasentando così l’effetto paradosso
di
Ernesto Bodini
Non è
certo mia intenzione stancare i lettori richiamando la loro attenzione su fatti
e misfatti quotidiani che turbano la nostra esistenza, come quelli relativi
alla cronaca nera e giudiziaria. Ma purtroppo gli eventi ci stanno travolgendo
e ormai non c’è giorno che le cronache non ci informino su tali eventi. È
indubbio che stiamo vivendo in una era che potrei definire di “moderna
barbarie”, a causa della quale la nostra incolumità è sempre più a rischio; e
pare che non ci sia legge o volontà politica (almeno in Italia) che riesca a contenere
il problema se non addirittura a prevenirlo. Uno degli innumerevoli atti di
assoluta prevaricazione da parte dell’uomo nei confronti della donna riguarda il
delitto compiuto tre anni fa a Bologna da un napoletano nei confronti della
propria compagna (peraltro conviventi da solo un mese) per motivi di gelosia,
ritenendola una sua “proprietà” assoluta, e per questo condannato in primo
grado a trent’anni di carcere per omicidio volontario aggravato da motivi
futili e abbietti. Oggi (3 marzo, nda), come riportano alcuni quotidiani, la
sentenza in appello è stata ribaltata dimezzando la pena: 16 anni per il 57enne
(reo confesso) con la motivazione: «… una
soverchiante tempesta emotiva e passionale», oltre ad una serie di
attenuanti, così come si è espressa la perizia psichiatrica. Ma lo scandalo
pare non centrare l’attenzione sulla concessione delle attenuanti, perché
secondo la Corte l’imputato avrebbe agito sotto effetto di un raptus. E su
questa affermazione, riportata dal quotidiano La Stampa, vorrei rammentare che
dovrebbe essere dominio comune che i raptus omicida non esistono, soprattutto
dal punto di vista psico-patologico. «Spesso
– ha dichiarato nel 2016 in una intervista al sito Ofcs.Report, lo psichiatra e
neuroscienziato prof. Claudio Mencacci – ne
viene fatto un ricorso del tutto inappropriato. E cosa ancora più grave è che
spesso se ne fa un uso giustificazionista e assolvente. Normalmente c’è una
lunga preparazione e un’attitudine alla violenza e all’aggressività, che trova
un momento culminante già precedentemente manifestato». Ma anche sul
termine femminicidio ci sarebbe da rivedere la definizione, in quanto quella più
comune e ricorrente indica l’omicidio della donna perché donna, e
nell’ordinamento penale italiano sono comparse (con il decreto legge n. 93 del
14/8/2013) le Nuove norme per il
contrasto della violenza di genere per prevenire il femminicidio e proteggere
le vittime, «ma più appropriatamente
anziché di femminicidio – secondo il prof. Mencacci – si deve parlare di omicidio
di genere e si deve tornare a parlare di sopraffazione, prepotenza e violenza».
Ecco che le non appropriate definizioni dei termini dal punto di vista
semantico, ma soprattutto dal punto di vista concettuale, risultano essere “fuorvianti” in particolare per i non addetti
ai lavori. Ma tornando al caso di cronaca su citato la riduzione della pena
dell’imputato sta facendo molto discutere in diversi ambiti, sia politici che nella
pubblica opinione e, ovviamente, nei famigliari della vittima tanto che, a mio
avviso, non si può non invocare il concetto di giustizia e conseguentemente la
certezza della pena.
Per
non “scomodare” per l’ennesima volta il giurista, filosofo e illuminista Cesare
Beccaria Bonesana (1738-1794), può essere indicativo prendere in considerazione
l’esauriente volume del costituzionalista Gustavo Zgrebelsky, “Intorno
alla legge – Il diritto come dimensione del vivere comune” (Ed. Einaudi,
2009, pagg. 409, € 22,00), il quale dedica proprio un capitolo sulla Giustizia.
In particolare, pone il quesito: «La
società giusta non è quella dove vigono leggi giuste?» E più avanti si
legge: «… se non esiste una giustizia
obiettiva e assoluta alla quale ci si possa aggrappare come a un’ancora salda
nelle vicissitudini della vita, è pensabile almeno che una comune idea di
giustizia possa essere, per così dire, scovata, rintracciata attraverso un
retto percorso di ricerca, protetto dalle perturbazioni degli egoismi, degli
interessi e delle prepotenze particolari? Ed è lecito pensare che in questo
modo sia possibile uscire dall’incubo di un potere che si appropria della
giustizia come di un mezzo per farsi assoluto?». Quesiti che in qualche modo
a mio avviso possono avere attinenza con l’opinabilità delle ragioni che hanno
indotto la Corte alla riduzione della pena del su citato caso. Ma se la società
persevera nell’ingiustizia vi è ragione di pretendere che chi deve farla
rispettare non pecchi di eccessiva discrezionalità. Ma tant’é. Chi è deputato a
giudicare e a comminare pene è sempre l’uomo, ed è sempre l’uomo che sbaglia… o
può sbagliare. E va da sé che gli errori di giudizio possono lenire
eccessivamente le pene, così come possono comminarle (anche pesantemente) ad
innocenti. E, proprio questi, ricordiamolo, nell’ultimo ventennio sono stati
oltre ventimila. Detenuti innocenti che non hanno bisogno di “sconti”, bensì di
essere liberati con tanto di indennizzo e di scuse da parte dello Stato!
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