ESEMPIO DI DETERMINAZIONE AL
FEMMINILE PER IMPORSI NELL’ATTIVITÁ FORENSE
A settant’anni dalla scomparsa della prima donna laureata in
Italia in Giurisprudenza nella seconda metà dell’Ottocento
di
Ernesto Bodini
Delle professioni
al femminile i mass media (e l’opinione pubblica) quasi sempre
fanno riferimento alla donna medico, non solo perché emblematica figura dedita
alla tutela della nostra salute, magari con “un passo in più”, ma anche perché
il loro numero ha superato quello dei colleghi maschi. Meno citata, invece, è
la figura dell’avvocato donna, appartenente ad una categoria più che
inflazionata in fatto di presenze, sia in ambito civile che penale. In Italia
la prima donna laureata (con il massimo dei voti) in Giurisprudenza all’università
di Torino nel 1881 è stata la piemontese Lidia Poët (Pinerolo – To 1855-1949
nella foto), obiettivo accademico raggiunto con particolare determinazione come
riportò un giornale femminile dell’epoca “La Donna” nel… «superare tutti quegli ostacoli che ancora si oppongono alla donna,
perché ella possa, al pari del suo compagno, darsi quando la vocazione e
intelligenza superior ve la chiamino, agli studi scientifici, letterari, a
quegli studi, in una parola, che furono e purtroppo sono ancora esclusivamente
all’essere privilegiato che si chiama uomo». Precisazioni a conferma della
sua preparazione che andava oltre ad un certo numero di materie che, sia pur
con qualche variante, componevano il corso di Laurea in Giurisprudenza; come
pure alcuni suoi scritti quali la sua dotta relazione sui lavori proposti alla
riunione quinquennale di Roma del Consiglio Internazionale delle donne, che ha
tenuto a Torino il 4 aprile 1914. Proveniva da una famiglia benestante, e dopo
la laurea aveva svolto per un biennio il praticantato per il superamento degli
esami di procuratore legale. Superati gli esami chiese di iscriversi all’Albo
degli Avvocati e Procuratori Legali, richiesta che fu accolta il 9 agosto 1883.
A quell’epoca le donne non avevano il diritto di voto, ed era ancora in vigore
l’umiliante istituto dell’autorizzazione maritale e mai nessuna prima di allora
aveva osato accostarsi alla professione forense. Il dibattito all’interno del
Consiglio si concluse in favore dell’iscrizione, con 8 voti favorevoli e 4
contrari e con la motivazione che nessuna norma vietava alle donne l’accesso
all’Ordine, in forza del brocardo latino: “Ubi lex voluit dixit, ubi
noluit tacuit” (Dove la legge ha voluto ha detto, dove
non ha voluto ha taciuto"). Ma la richiesta fu revocata nel
novembre dello stesso anno su ricorso del Pubblico Ministero. L’allora
Procuratore Generale del Re non gradiva vedere quella signora in toga che
patrocinava le udienze, firmava gli atti e si confrontava con lui da
avversaria, e per questo prese l’iniziativa di denunciare l’anomalia di tale
presenza alla Corte d’Appello. La giovane avvocatessa si difese strenuamente
replicando e portando esempi di donne che, in altre nazioni europee, svolgevano
legittimamente la professione forense, e a nulla valsero le sue obiezioni: la
Corte d’Appello di Torino accolse le ragioni del procuratore e ritenne che
quello di avvocato fosse da considerarsi un ufficio pubblico e, in quanto tale,
la legge vietava espressamente che una donna potesse ricoprirlo. Di conseguenza
così i giudici motivarono la revoca: «L’avvocheria
è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono accalorarsi
in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado,
potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene
osservare: costretta talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le
buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto
alla presenza di donne oneste». Inoltre, la presenza di un “avversario” di
sesso femminile nelle aule di giustizia aveva l’effetto di disturbo più verso i
magistrati che i colleghi avvocati, in ragione del fatto, secondo loro, che la
presenza di una donna al banco della difesa avrebbe compromesso «la serietà dei giudizi e gettato discredito
sulla Magistratura stessa, perché se l’avvocatessa avesse vinto la causa, le
malelingue avrebbero potuto malignare che la vittoria sarebbe stata dovuta alla
leggiadria dell’avvocatessa più che alla sua bravura». Ciò nonostante Lidia
Poët non si arrese e presentò un dettagliato ricorso alla Corte di Cassazione,
ma con altrettanta coerenza la Suprema Corte confermò la decisione dei giudici
della Corte d’Appello, tanto che alla avvocatessa venne tolta la toga e non
poté più esercitare a pieno titolo la professione; ma questo non le impedì di
lavorare nello studio legale del fratello Enrico, che le aveva trasmesso
l’amore per il diritto e l’aveva convinta ad iscriversi a Giurisprudenza. Nel 1890
venne invitata come delegata a San Pietroburgo, alla quarta edizione del
congresso come segretariato del Congresso Penitenziario Internazionale,
rappresentando l’Italia come vice presidente della sezione di Diritto. Questa
attività si interruppe allo scoppio della Prima Guerra Mondiale e in tale
occasione divenne infermiera volontaria della Croce Rossa, venendo insignita
della medaglia d’argento al valore civile. Per i 37 anni successivi alla sua
imposta cancellazione dall’Albo, la Poët non interruppe mai l’esercizio della
professione, tanto che ebbe modo di specializzarsi nella tutela dei diritti dei
minori, degli emarginati e delle donne.
Ma si sa, il tempo
è galantuomo e proprio per la sua perseveranza nel voler restare iscritta
all’Albo forense, anche a costo di dare scandalo nell’ambito forense, ottene
ragione giuridica e nel 1919, il Parlamento approvò la Legge Sacchi che
autorizzava ufficialmente le donne all’accesso ai pubblici uffici, ad
esclusione della Magistratura, della politica e dei ruoli militari. L’anno
successivo poté finalmente ripresentare (con immediato accoglimento) la
richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati. Aveva già 65 anni quando
tornò ad indossare la toga che le era stata tolta e ad utilizzare il titolo di
avvocato. Una lotta per il diritto affrontata strenuamente e vinta grazie alla
sua coerenza e determinazione, cui ne seguì un’altra in quanto due anni dopo
divenne presidente del Comitato italiano pro-voto delle donne, ed anche per
questa conquista del voto femminile fu una battaglia ultra decennale, ma Lidia
Poët riuscì a vedere il frutto anche di questi suoi sforzi. Morì a 94 anni ma non prima di aver votato alle prime elezioni a suffragio universale in
Italia, nel 1946. Il suo contributo al superamento del mschilismo e del
pregiudizio dominanti è stato foriero di ulteriori sviluppi della emancipazione
femminile: cominciarono a diffondersi testi ed articoli pubblicati da autorevoli
commentatori e uomini politici dell’epoca, esprimendo la propria opposizione a
quel “malcostume” che voleva relegare la donna al concetto di… inferiorità.
Significativo, ad esempio, un lungo articolo pubblicato nel 1885 dal titolo “Lidia Poët e l’Avvocatura”, in cui
venivano analizzati tutti gli aspetti che la riguardavano. Quelli più
determinanti delle teorie avverse alla carriera delle donne in Avvocatura erano
prevalentemente di carattere medico e giuridico: dal punto di vista medico
cominciò ad affermarsi la supposizione secondo cui le donne, causa il ciclo
mestruale non avrebbero avuto, almeno in circa una settimana al mese, la giusta
serenità di giudizio nei casi di cui si sarebbero dovute occupare. Analizzando
questo aspetto veniva evidenziato che paradossalmente l’equilibrio fisico e
biologico della donna poteva essere considerato come una deficienza psicologica
a cui appellarsi per impedirne l’accesso all’attività forense; e come se non
bastasse il fascismo diede maggior risalto a questa “posizione fisiologica” predisponendo
normative severe tanto da impedire alle donne l’esercizio dell’attività
forense. Ed è solo con la nascita della Repubblica che ebbe termine questa
vessazione, e anche le donne poterono intraprendere senza ostracismi le
carriere professionali a loro precluse.
Al particolare
sostegno per l’ottenimento di questi primi risultati ha contribuito la rivista
“La Donna” le cui redattrici ebbero
toni di forte denuncia nei confronti di tali ostruzionismi, riportando molti
annunci in cui si dava notizia dell’avvenuta laurea in legge di molte donne che
volevano esercitare, prendendo a modello il caso Poët non ritenendolo
un’esperienza isolata, ma l’auspicio di un più ampio movimento. Il periodico
diede inoltre notizie della realtà in altri Paesi come la Scandinavia e la
Francia dove l’attività era aperta alle donne, che potevano diventare anche notaio.
In Belgio un’altra paladina ha dato il meglio di sè divenendo la prima donna
belga a laurearsi in Giurisprudenza. Si tratta di Marie Popelin (1846-1913),
presentandosi ai togati della Corte di Appello di Bruxelles per avere
l’abilitazione a svolgere la professione forense. Anche lei fece domanda per
essere ammessa all’Ordine degli Avvocati e poiché fu respinta, si appellò alla
Corte d’Appello nel 1888, e nel 1889 alla Corte di Cassazione che però non
ebbero successo, pur ampiamente riportati sulla stampa belga e straniera. (In
questo Paese le donne potevano esercitare solo come avvocati dal 1922, mentre
in Italia la legge n. 1176 del 17/7/1919 recava “Disposizioni sulla capacità giuridica della donna”). Un ostracismo molto
simile a quello subìto da Lidia Poët tanto che la rivista femminista ripropose
con le stesse parole e gli stessi argomenti degli articoli riguardanti la
piemontese Lidia, con lo scopo di dare alle donne la più ampia possibilità di
svolgere la professione di avvocato, e di modificare le leggi e i codici in
senso egualitario per rimuovere tutti quegli ostacoli di predominio maschilista
nel campo forense. Due paladine del diritto che hanno aperto la strada alla
“emancipazione professionale forense” delle donne. Un’ultima curiosità. Gli
avvocati e i magistrati indossano la toga perché nell’antica Roma la toga, una
sopravveste di panno indossata sulla tunica, era l’abito da cerimonia per
eccellenza, d’obbligo per comparire nel Foro e contrassegno degli uomini
illustri e in particolare di chi esercitava la magistratura. Pertanto, s’é
conservata fino a oggi come simbolo delle professioni forensi.
L'immagine in alto è tratta dal sito blog.ilcentro
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