IN VISITA AL CENTRO
PER LA RICERCA E LA CURA DELLA SLA
Sinergia e organizzazione finalizzate alla ricerca clinica e di
base, e quindi alla terapia,
di una patologia neurologica a tutt’oggi sempre più
ingravescente. Ma uno spiraglio di ottimismo non deve venire meno, a fronte di
un maggior sostegno della ricerca
di
Ernesto Bodini
L’équipe al completo del CRESLA
Descrivere
le attività medico-sanitarie dalle caratteristiche specifiche come quelle
attinenti al Centro Regionale Esperto per la Sclerosi Laterale Amiotrofica (CRESLA)
della Città della Salute e della Scienza presso il presidio Molinette di Torino,
richiede un minimo di “coinvolgimento” e di partecipazione nel seguire il lavoro
di clinici e ricercatori, comprese le visite ambulatoriali. In questo Centro le
attività sono molto variegate e comprendono essenzialmente la clinica (diagnosi
e terapia), la ricerca, la
programmazione e la didattica agli studenti e agli specializzandi. «L’attività clinica – spiega Andrea
Calvo, professore associato di Neurologia – comporta
la fase della prima diagnosi o la seconda opinion. I pazienti giungono al
nostro Centro perché segnalati dal loro medico di famiglia o dai nostri
colleghi neurologi, e non di rado provengono anche da altre Regioni. Se di un
paziente non è possibile stabilire sin dall’inizio la diagnosi lo si prende in
carico organizzando direttamente le prenotazioni per gli approfondimenti
clinico-diagnostico-strumentali. In seguito, dopo eventuale diagnosi, viene
sottoposto ad un programma terapeutico che comprende sia i farmaci che gli
ausilii ortesici di supporto, ed eventualmente anche il sostegno psicologico».
Solitamente la comunicazione della diagnosi richiede molto tempo, soprattutto
per l’impostazione del trattamento. Come si svolge l’attività quotidiana in
questo Centro? «Al mattino – spiega
il clinico – sono previsti i trattamenti
in day service con particolare dedizione alla clinica e alla ricerca, il cui
protocollo individuale comporta la firma del consenso da parte del paziente, i
prelievi per infusione, la somministrazione dei farmaci, e il dialogo per
spiegare in cosa consiste la sperimentazione; inoltre, le periodiche visite di
controllo programmate. Tra queste, anche quelle più specifiche di
neuropsicologia per attestare il grado di cognitività, e di psicologia sia per
il paziente stesso che (eventualmente) anche per i suoi famigliari. Il
pomeriggio solitamente è dedicato alle visite ambulatoriali, ai colloqui e al
briefing, un incontro in équipe
finalizzato a trasmettere informazioni, passare consegne,
affrontare problemi e conflitti cercandone la soluzione». Il rapporto tra il Centro e i medici di famiglia non è
molto frequente, ma a questi viene sempre rilasciata una relazione del loro
paziente preso in carico dal Centro; mentre i medici del Territorio sono già
informati per via della richiesta di esenzione del ticket come malattia rara
fatta dagli specialisti del Centro. Inoltre è disponibile presso il Centro un servizio
di assistenza sociale che si rapporta con le Asl del Territorio, al fine di
ottenere eventuali contributi di sostegno economico e/o assistenziale.
In ambulatorio con medici e pazienti
Si dice che la
relazione tra medico e paziente è vera cura, e ciò richiede un tempo dedicato
(al di là di ogni esigenza economico-gestionale imposta dal sistema), proprio
perché il paziente ha bisogno di comprensione, attenzione e riconoscimento
della propria individualità, oltre alle proprie aspettative di vita… Ed è per
queste ragioni che al Centro Cresla alle visite e alle diagnosi si dà tutto lo
spazio possibile ai pazienti che vi si rivolgono, sia essi per la prima visita
o per i successivi controlli di follow-up. Il pomeriggio di martedì 26 febbraio
ho seguito in qualità di “ospite-visitatore” alcune visite ambulatoriali,
coordinate dal prof. Calvo. In uno di questi ambulatori alle ore 14,20 entrano due coniugi anziani, la
paziente è la moglie (75enne) i cui test neuropsicologici risultano essere normali.
Ma da un po’ di tempo è affetta da disfagia (difficoltà di deglutizione) e da
disartria (disturbo della fonazione), ma anche da disturbi respiratori, anche
se non accentuati. Il prof. Calvo le rivolge molte domande (proprio perché
solitamente dall’esordio dei sintomi alla diagnosi solitamente intercorrono
11-12 mesi) in collaborazione con il dottor Luca Solero per fare una accurata anamnesi in base
ad una serie di informazioni, completata da una visita neurologica, al fine di
poter confermare la diagnosi ed eventualmente una terapia per “rallentare” il
decorso della malattia. La paziente appare apprensiva ma psicologicamente ben
sostenuta dalla vicinanza del marito, che a volte interviene per tradurre
qualche espressione della moglie a causa della sua disartria. Interviene poi
l’assistente sociale Martina Arcari per informarla di quanto può ottenere dai
Servizi sociali dal punto di vista assistenziale (prestazioni erogate dalla
Regione Piemonte), come ad esempio l’iter per la domanda di invalidità. Questa
visita ha richiesto oltre un’ora di tempo, che si è rivelata necessaria
soprattutto secondo le aspettative della paziente. Verso le 15.45 fa capolino un uomo di 57 anni
(di professione autotrasportatore, ex fumatore ed in trattamento per l’ipertensione),
accompagnato dalle figlie. Giunge al Centro su indicazione del proprio medico
di famiglia, a causa di un inizio di difficoltà labiale (movimento della bocca
con breve impedimento della parola). Il dottor Solero procede ad una accurata
anamnesi rivolgendogli molte domande, alle quali il paziente risponde a volte
con qualche precisazione da parte delle figlie che convivono con il padre.
Precedenti esami strumentali fatti in esterno hanno dato esito negativo, ma il
medico sottopone comunque il paziente ad una accurata visita in seguito alla
quale apparentemente non riscontra nulla di particolarmente “significativo”;
ciò nonostante ritiene di approfondire l’indagine clinica prescrivendo
ulteriori esami come la registrazione dei muscoli che controllano il movimento
della bocca… e della parola. Anche questo consulto ha richiesto quasi un’ora di
tempo, a riprova che il buon dialogo e il coinvolgimento sia del paziente che
dei famigliari, contribuisce ad una maggior empatia e quindi comprensione
reciproca…
Verso le 16.35 viene accolto in ambulatorio
dalla dott.ssa Cristina Moglia (nella foto) un paziente (“storico”) di 80 anni
sulla sedia a rotelle, accompagnato dalla moglie. È malato da oltre un decennio
dal punto di vista neurologico: si alimenta artificialmente con l’ausilio della
PEG (Gastrostomia Endoscopica
Percutanea, una tecnica che consente la nutrizione enterale); è anche affetto
da un tumore alla vescica in attuale trattamento. Durante la visita lamenta di avere da qualche
tempo difficoltà respiratorie e affaticamento neuromuscolare, una condizione
ingravescente che la dottoressa rileva senza difficoltà tant’è che, in
previsione di un ulteriore peggioramento, gli prospetta l’ipotesi di una
possibile necessità di essere sottoposto a tracheotomia e conseguente
ventilazione assistita permanente. Il paziente, dopo aver compreso la
prospettiva, e qualche attimo di esitazione, acconsente al consenso (che al
momento opportuno dovrà firmare). Dopo il colloquio viene visitato anche dal
dottor Alessandro Bombaci, che conferma la sintomatologia in evoluzione e ne
aggiorna la terapia. Paziente e coniuge si congedano con l’intesa, da parte dei
medici, che in caso di peggioramento il successivo controllo avverrà a
domicilio. Anche in questo caso la visita è durata oltre 40 minuti, ma gli
effetti sono stati positivi soprattutto dal punto di vista della comunicazione
che, nonostante la sofferenza, il paziente si è mostrato collaborante… sia pur
di fronte ad una prospettiva che lascia poco spazio alla immaginazione. Nel
corso di queste tre visite ho potuto rilevare che la sinergia tra clinici e psicologi e l’aspetto organizzativo vanno
di pari passo con le esigenze dei pazienti e i loro famigliari che, a mio
avviso, possono essere se non determinanti sicuramente di grande sostegno. Un
valore aggiunto che nei malati gravi può fare la differenza… In effetti il
ruolo principale di questi specialisti ha come obiettivo oltre alla ricerca e
la clinica, anche quello di spiegare al paziente non solo l’entità della
malattia di cui soffre, ma anche quali saranno le conseguenze sulla vita sua e
della sua famiglia; ed è comprensibile che il malato voglia sapere a quali
difficoltà andrà incontro e in che modo si presenteranno, quando comparirà
eventualmente e come andrà gestito. Ecco che i “fatidici” tempi relativi alla
durata di una visita non devono essere fini a sé stessi, ma andare oltre per
raggiungere il massimo per il bene del paziente.
La mattina di mercoledì 13 marzo sono tornato negli
ambulatori del Cresla per seguire la continuità delle visite a pazienti in follow-up
al seguito del dott. Antonio Ilardi. Sono le 9.05 quando, accompagnato dalla moglie e dalla figlia, entra un
paziente 83enne affetto da questa patologia da circa tre anni, e attualmente in
trattamento domiciliare dal punto di vista fisioterapico e logopedico. Il
paziente, che è sulla sedia a rotelle, da qualche tempo lamenta difficoltà
nell’eloquio, e nella mobilità di alcune funzioni quotidiane e per questo è
aiutato dai famigliari. Il medico aggiorna la cartella clinica rilevando altri
particolari e quindi lo sottopone a visita medica, in seguito alla quale si
delinea una condizione generale invariata; ma al tempo stesso ritiene di
prescrivere alcuni esami ematici e per la valutazione della funzionalità
epatica, oltre a suggerire il mantenimento della terapia in corso. In caso di
aggravamento le successive visite mediche avverranno gratuitamente a domicilio.
Nonostante l’età, il paziente appare sereno e nella piena consapevolezza delle
sue condizioni di salute, ma non per questo rassegnato, forse perché ben
seguito dai famigliari e del rispetto delle indicazioni terapeutiche e
comportamentali. Verso le 10.50 fa
capolino una paziente 67enne, accompagnata dal marito, anche lei sulla sedia a
rotelle. Il medico mi spiega che è affetta dalla patologia da alcuni anni, e
che ha avuto una reazione negativa al momento della diagnosi; ma in seguito
ad un supporto psicologico ha “imparato” a convivere con la malattia ponendosi
di fronte alla realtà in modo più “filosofico” e razionale. Appare di buon
umore e collaborativa esponendo alcune modificazioni sopravvenute negli ultimi
tempi, tant’è che il dott. Ilardi ritiene utile prescrivere cicli di
fisioterapia domiciliare almeno una volta alla settimana per facilitare la
mobilità degli arti superiori e inferiori; ma predispone anche l’adozione di un
ausilio per il controllo della tosse e, dopo una visita accurata, aggiorna la
cartella clinica programmando fra tre mesi il prossimo controllo. Sono le 12.10 e, la visita successiva a cura
della dott.ssa Moglia, riguarda una paziente 70enne, sulla sedia a rotelle
accompagnata dalla figlia e da una nipote. È una donna molto apprensiva e di
pessimo umore in quanto sta constatando l’evoluzione del suo quadro clinico:
ridotte le funzionalità degli arti inferiori, difficoltà a tenere la stazione
eretta della testa, e di una ormai limitata mobilità anche notturna. Il medico
spiega in modo molto chiaro e con delicatezza il perché di tale declino e,
nell’aggiornare la terapia, suggerisce alcuni ausilii ortesici per una migliore
gestione della mobilità, oltre ad aggiornare la terapia farmacologica. La
paziente continua a manifestare sconforto, anche perché non può avvalersi di
alcun sostegno soprattutto per la notte, ed è anche per questo che la dott.ssa
Moglia predispone sul momento un incontro con la psicologa del Centro, la
dr.ssa Enza Mastro che, d’accordo con i familiari, mette a calendario un primo
appuntamento a domicilio per i prossimi giorni. Anche questa visita è durata
quasi un’ora e, come in tutti gli altri casi, si è resa necessaria e
particolarmente utile una linea colloquiale univoca basata sull’ascolto, la
comprensione e la condivisione (che non è assecondare) sia dei programmi
terapeutici che nel rispondere in modo diretto e il più adeguato possibile alle
domande di questi pazienti. Una impostazione di cura che i malati di SLA sono
in grado di accettare… lasciando loro quel minimo spazio non di illusione ma di
speranza!
INTERVISTA
AL PROF. ADRIANO CHIÓ, RESPONSABILE DEL CRESLA
La
ricerca sta avanzando, sia pur lentamente, e i grandi numeri riferiti
all’attività
dei
Centri stanno dimostrando una grande sinergia e un motivo in più di speranza
Prof. Chiò, a che punto è la ricerca sulla SLA?“
La ricerca clinica si sta sviluppando, sia pur
gradualmente, e mi riferisco ai grandi numeri in quanto ogni Centro di Ricerca
in Italia sta raccogliendo informazioni, in particolare sinergia con i Gruppi
europei. Ciò permette di capire meglio alcuni aspetti della malattia sinora non
molto chiari”
Ossia?
“Una delle aree che si sta sviluppando rapidamente è come procede la malattia a livello lesionale, quindi come avviene la progressione nel sistema nervoso. Attualmente le informazioni derivano sia dai dati neuropatologici che dai referti autoptici, ma soprattutto su dati clinici e di neuroimmagine. Questi dati fanno capire che la malattia si propaga attraverso dei canali molto precisi che sono quasi prevedibili, o quanto meno si stanno individuando determinati algoritmi di precisione”
“Una delle aree che si sta sviluppando rapidamente è come procede la malattia a livello lesionale, quindi come avviene la progressione nel sistema nervoso. Attualmente le informazioni derivano sia dai dati neuropatologici che dai referti autoptici, ma soprattutto su dati clinici e di neuroimmagine. Questi dati fanno capire che la malattia si propaga attraverso dei canali molto precisi che sono quasi prevedibili, o quanto meno si stanno individuando determinati algoritmi di precisione”
Può fare un esempio?
“Esiste un algoritmo europeo sulla predizione
della prognosi della malattia (algoritmo ENCALS), che ha riunito le casistiche
di 14 Gruppi europei (14 mila pazienti); quindi oggi è possibile prevedere la
prognosi sin dal momento della diagnosi, peraltro a “nostro uso e consumo” ma
non ancora estensibile ai pazienti. Ma sono studi che stiamo sviluppando con gli
ingegneri che ci permetteranno di stabilire le tappe della malattia, come ad
esempio quando un paziente sarà “destinato” all’uso della sedia a rotelle,
aspetto importante per meglio organizzare la propria esistenza dal punto di
vista personale e assistenziale”
Qual è l’età media dei soggetti a cui
viene fatta la diagnosi di SLA, e quale mediamente il periodo di sopravvivenza?
“L’età media della diagnosi è intorno ai 68
anni, mentre la sopravvivenza media è di circa tre anni; ma quest’ultima varia
perché più i soggetti colpiti sono giovani e più lungo è il decorso della
malattia. Un caso tra i più rari che abbiamo potuto osservare per una “seconda
“opinion”, ha riguardato una paziente di 11 anni la cui forma genetica
presentava un gene molto aggressivo.
Nel vostro Centro si fanno molte nuove
diagnosi?
“In realtà nel nostro Centro si fanno diagnosi
in pazienti che provengono un po’ da tutta Italia: diagnosi mirate non sempre
facili, ma talvolta più semplici e sofferte... Per la “seconda opinione” i
pazienti ci vengono inviati da colleghi di altri Centri, non solo consultando
la documentazione clinica ma visitando e prescrivendo ulteriori esami ematochimici
e strumentali, sia pur considerando quanto espresso dai colleghi sino a quel
momento”
Qual è attualmente l’incidenza di questa
malattia?
“In Piemonte è di 3 casi per 100 mila abitanti (circa
140 nuovi casi all’anno). In Europa i malati di SLA sono circa 50 mila, nel
mondo circa 1 milione, e nessuna etnia è esente da questa patologia. Il
rapporto prevalentemente è di 5 maschi – 4 femmine: nelle donne sta aumentando
probabilmente per fattori ambientali (stili di vita diversi, oltre alla
componente genetica responsabile del 30% dei casi; e su questo si sta lavorando
molto)”
Parliamo di immunoterapia. Quale ruolo
può, o potrebbe, avere nel trattamento della SLA?
“Allo stato attuale non molto in quanto la SLA
non è una malattia su base immunitaria come, ad esempio, la sclerosi multipla
(SM); tuttavia, alcuni aspetti delle cellule del sistema immunitario possono
avere un ruolo nell’aggravare o
ritardare il decorso della malattia, ma non causarla. Quindi, è possibile che
lavorando su queste cellule si possa ottenere
un effetto di miglioramento della malattia ma non di guarirla... Quella
immunitaria non è una componente predominante, e per questo si sta cercando di
capire quale ruolo può avere come regolatrice di gravità. Noi puntiamo molto
sulla genetica, una strada che pare essere promettente per ottenere dei
risultati, anche per quanto riguarda la terapia”
Quali sono i sintomi principali della
SLA?
“In particolare astenia muscolare e disfunzioni
bulbari. Le fascicolazioni non devono necessariamente preoccupare perché se non
si ha perdita di forza neuromuscolare certamente non si tratta di SLA; infatti
le fascicolazioni sono presenti anche in
condizioni del tutto fisiologiche. Altri disturbi possono essere disartria e
disfagia, e i pazienti con questi disturbi giungono prima alla nostra
osservazione”
Si può parlare di diagnosi precoce?
“In futuro si potrà intervenire sulle forme
genetiche perché se un soggetto ha una mutazione genetica una parte dei figli
probabilmente svilupperà la malattia, in quanto sono i cosiddetti “portatori
sani” o pre-sintomatici della malattia. E su questi ci si sta orientando
proprio in vista delle non lontane terapie geniche”
Attualmente è possibile intervenire solo
sulla sintomatologia?
“Si. Allo stato attuale terapie che “modificano”
la malattia riguardano l’ormai noto Riluzolo, e più recentemente è stato
introdotto l’Edaravone che in Italia è ammesso in via compassionevole (in
quanto non ancora approvato dall’EMA), il cui effetto è quello di determinare unicamente
un rallentamento della progressione della malattia, in modo molto simile al
Riluzolo”
Quanti sono i Centri in Italia che si
dedicano alla Ricerca sulla SLA?
“Sono circa una ventina, e l’eccellenza è tanto
al nord quanto al sud”
Quale è la componente psicologica dopo la
diagnosi in questi pazienti?
“La componente psicologica è particolarmente
importante soprattutto al momento della diagnosi, ed altrettanto di sostegno
durante il decorso. La figura dello psicologo nell’ambito multidisciplinare è
essenziale sia al paziente che ai suoi famigliari, e credo non sia ipotizzabile
un Centro per la SLA senza questo tipo di supporto, anche se taluni pazienti lo
rifiutano”
Nella cosiddetta “fase terminale” della
malattia, questi pazienti vengono ricoverati in hospice?
“Le prospettive sono due: la terapia palliativa
domiciliare e il ricovero in hospice. Noi favoriamo la terapia perché riteniamo che il “fine vita” tra i
propri famigliari e a contatto con i propri effetti personali, la risposta è
sicuramente migliore. Ciò, senza nulla togliere alle Strutture molto ben
organizzate degli hospice, soprattutto quando è carente il sostegno della
famiglia”
Quanto conta la sinergia tra voi
neurologi e i palliativisti oncologi?
“Il nostro lavoro è spesso di concerto con
questi colleghi, una sinergia che è condivisione per una continuità univoca di
cura e assistenza”
Qual è la realtà dell’associazionismo per
questi pazienti?
“Vi sono diverse associazioni che operano a
sostegno di questi pazienti, come ad esempio l’AISLA, che opera sia a livello
nazionale che regionale, e diverse altre associazioni”
Quali le criticità?
“Lo zoccolo più duro è la logopedia, i cui
specialisti (non strutturati) sono pagati con fondi del Centro. La figura “più
storica”, peraltro molto competente, dopo anni si è dimessa per assumere
analoga occupazione in altra Struttura con prospettive più “sicure” e
definitive. Per contro, uno dei nostri tre biologi sino a poco tempo fa
precario (ex art. 19), è oggi strutturato grazie anche all’Università che lo ha
fatto assumere per effetto della nota “Legge
Madia”. Ma altra criticità è la carenza di fondi per la ricerca, sia pur
ottenendo donazioni da privati che spesso ci aiutano chiedendo di mantenere l’anonimato”
Nella foto in alto: l'équipe
al completo del CRESLA
Nella foto in basso: il
Gruppo dei giovani Ricercatori
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