IN VISITA AL CENTRO ONCOLOGICO ED EMATOLOGICO DELLA CITTÀ
DELLA SALUTE E DELLA SCIENZA - OSPEDALE MOLINETTE DI TORINO
La costante
dedizione alla cura e all’assistenza del paziente oncologico, fa di questa
struttura una delle eccellenze di riferimento regionale e nazionale. Sinergia e
organizzazione nelle prestazioni a garanzia di un miglior approccio con le
terapie, oltre a meglio affrontare l’attesa di un referto e del colloquio
di
Ernesto Bodini
Razionale
e al passo coi tempi, da quando è stato istituito nel giugno 2001, oggi il
Centro Oncologico ed Ematologico Supalpino (COES) della Città della Salute e
della Scienza (Ospedale Molinette) è una struttura di assistenza e ricerca
multidisciplinare in stretta collaborazione tra ospedale e università per la
prevenzione, la cura e la ricerca dei tumori. Dal punto di vista logistico è
molto esteso in quanto consta di un ampio ingresso dotato di capiente sala
d’attesa, diverse postazioni per la registrazione dei nuovi arrivi, un
accogliente back office (nella foto in alto) con due operatori preposti per le
informazioni al pubblico, una segreteria e lo studio del direttore responsabile.
Il percorso si snoda con ampi corridoi per accedere ai vari ambulatori e servizi
per le pratiche amministrative interne, ed altri per esigenze comuni, oltre ad
un accogliente angolo dotato di televisore per superare l’attesa, sia dei
pazienti stessi che dei loro famigliari. Il D.H. di Oncologia Medica del Coes,
diretto dal dott. Libero Ciuffreda (direttore del Dipartimento di Oncologia
prof. Umberto Ricardi), da ambulatori per visite delle diverse patologie
neoplastiche, un servizio farmaceutico centralizzato, comprende un settore
dedicato alla ricerca di base, in stretto collegamento con il Centro di
Prevenzione Oncologica (CPO) – Unità di Epidemiologia e del Coordinamento della
Rete Oncologica della Regione Piemonte. Dedicati all’Oncologia Medica vi sono
14 ambulatori al piano terreno, 12 stanze con 30 posti tra letto e poltrone per
le terapie infusionali e/o orali, che vengono effettuate dal lunedì al venerdì dalle 7.00 alle 19.00, ad opera di 14 medici e 18 infermieri, questi ultimi
coordinati da Silvana Storto. Ad accogliere i pazienti per la prima visita è il
Centro Accoglienza Servizi (CAS) coordinato dalla dott.ssa Patrizia Racca e
dott.ssa Silvana Storto che, attraverso un gruppo di professionisti con una
formazione professionale specifica (oncologi, infermieri e amministrativi),
attiva il Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA), informando il
paziente e i parenti anche sui diritti in ambito socio assistenziale, attivando
il Gruppo Interdisciplinare Cure (G.I.C.) per la valutazione collegiale. Il Centro è sempre più innovativo, sia dal
punto di vista dell’eccellenza clinica che per la relazione medico-paziente,
un’attenzione per un’accoglienza mirata attraverso l’individuazione di spazi e
percorsi dedicati alla presa in carico di persone con problemi oncologici. «Il D.H. – spiega Ciuffreda – include le terapie antiblastiche per la cura
dei tumori solidi, trattamenti integrati con la radioterapia, manovre
diagnostico-terapeutiche invasive o chirurgiche, le opportune terapie per il
controllo degli effetti collaterali della chemio e radiotrerapia, il controllo
del dolore e sintomi lamentati dal paziente nelle fasi più avanzate della
malattia, e i trattamenti con farmaci sperimentali nell’ambito di protocolli di
ricerca. Nella stessa sede è
situato il D.H. di Ematologia 1 e Ematologia 2 per il trattamento di tutte le
patologie neoplastiche del sangue (leucemie, linfomi e mielomi) e non
neoplastiche, come pure le malattie della coagulazione”.
Nell’ambulatorio con
la dottoressa Rosella Spadi
È martedì 13 novembre il giorno di una mia
visita in qualità di “ospite-osservatore” (a scopo divulgativo) dell’organizzazione
e attività operativa al D.H. del Coes. Mi riceve nell’ambulatorio 3 la
dottoressa Spadi, una giovane oncologa con oltre due lustri di esperienza, sia
dal punto di vista diagnostico che terapeutico. Diversi sono i pazienti da
tempo in trattamento e prenotati per gli esami e la visita di controllo che
precede sempre l’infusione della chemioterapia. Sono le 9.20 quando entra un paziente di 43 anni (accompagnato dalla madre),
affetto da carcinoma al pancreas metastatico, il cui decorso “lento ma
inesorabile”, pare non lasciare speranze..., ciò nonostante il clinico
prescrive la cosiddetta presa in carico da parte delle cure palliative, ultimo
sostegno e conforto che gli viene spiegato con voce sommessa, ma ferma e
sicura, accompagnata da un tenero sorriso che non è compassione, ma
comprensione. Il paziente si congeda senza commentare per una sua propria dignità...
e consapevolezza. Ore 9.40, entra un
anziano di 72 anni affetto da adenocarcinoma gastrico, in terapia adiuvante da
sei mesi; la dottoressa accenna un sospetto di metastasi che sarà eventualmente
confermato dall’esame Tac prescritto prima di congedarlo. Sono le 10.02 ed ha circa 60 anni la donna (accompagnata
dal marito) che varca la soglia dell’ambulatorio. Operata nei primi mesi dell’anno
per neoplasia al pancreas, è in trattamento chemioterapico. Di fronte al medico
appare serena in quanto sembra stare un po’ meglio dopo l’ultimo ciclo di
terapia, e segue attentamente le sue indicazioni che prevedono, al termine del prossimo
ciclo, una Tac; acconsente senza particolari commenti, ancorché ben supportata
psicologicamente dal marito. «L’incidenza
del tumore al pancreas – mi “confida” la dottoressa – è in aumento, ed è in calo l’età media dei pazienti che ne sono colpiti».
Alle 10.20 fa capolino un paziente
di 56 anni, affetto da tumore delle vie biliari e, al momento, appare in
discrete condizioni per effetto della chemioterapia; la dottoressa, dopo
essersi accertata della sua stabilità fisica e sul procedimento della terapia,
gli conferma che al termine dell’attuale ciclo dovrà fare una Tac di controllo.
Sono le 10.37 quando marito e moglie
entrano in ambulatorio, lei è affetta da
diabete e carcinoma del pancreas, la quale riferisce al medico di avere
disturbi in genere, probabilmente per gli effetti collaterali della
chemioterapia al quarto ciclo (che ha appena terminato) a seguito di intervento
di duodenocefalopancreasectomia, e le viene prescritto un successivo ciclo di
chemioterapia. Nonostante la gravità della situazione, i coniugi si congedano
ringraziando, celando apparente serenità... Sono le 10.55 e viene accolta una donna 61enne (accompagnata dal figlio)
affetta da un tumore delle vie biliari (più precisamente colangiocarcinoma con
metastasi epatiche, nda), la quale dovrebbe iniziare il primo ciclo di terapia.
Proprio perché perfettamente conscia della sua patologia, che pare avere un
decorso evolutivo, mostra una evidente apprensione tanto da necessitare un
consulto psichiatrico, oltre al quale il medico prescrive un programma di
chemioterapia e, con fare pacato e molto chiaro, le spiega la procedura che avrà
tale percorso terapeutico e cosa esso comporta. Il colloquio, in questo caso si
protrae un po’ di più rispetto ai precedenti, anche perché la paziente fa molte
domande non solo sulle modalità della terapia ma soprattutto sugli effetti
collaterali... oltre alla prognosi della patologia.
Dopo quasi un’ora, sono le 11.45 quando varcano la soglia dell’ambulatorio due coniugi
anziani. La moglie, 72enne, è affetta da carcinoma gastrico e relativa
disfagia, alla quale il medico le pone alcune domande su come si alimenta e
quali problemi comporta la deglutizione, condizione che la paziente afferma
avere persistente difficoltà nella digestione, e questo, nonostante (o forse a
causa) della chemioterapia in corso. Attualmente per questa paziente è stata
attivata l’ADI (assistenza domiciliare integrata) per l’apporto nutrizionale artificiale.
Si rende necessario, come per quasi tutti i casi, un successivo controllo con
esito della Tac. Alle 11.57 sono
ancora due coniugi che afferiscono nell’ambulatorio della dottoressa Spadi; il
marito, 67enne, è affetto da un tumore allo stomaco metastatico, e da circa un
anno che è sottoposto a cicli di chemioterapia; una realtà non molto dissimile
da altre precedenti. Sono le 12.11 e
una coppia di marito e moglie (di origini egiziane), con fare timoroso e un po’
“incerto”, entrano in ambulatorio; la donna, 33enne, da tempo è affetta da
tumore delle vie biliari ed è tuttora in corso di chemioterapia. Il colloquio è
breve e avviene tra il medico e il marito che comprende (e parla)
sufficientemente in italiano, mentre la moglie, rimane in silenzio esprimendosi
solo con qualche breve cenno del capo, e con evidente espressione di “composta”
rassegnazione...ma collaborativa. La coppia ha cinque figli minori che vivono
in Egitto, ma per la pratica continuità della terapia preferiscono restare in
Italia facilitando il percorso della stessa in sede. Alle 12.20 fanno ingresso due coniugi di origini cubane; la moglie, 56
anni, è affetta da cancro del pancreas con metastasi; è perfettamente cosciente
del suo quadro patologico in evoluzione; una sorta di razionalità che sembra
“disarmare” non solo il marito ma anche il medico, che le conferma la
continuità del programma terapeutico e i successivi controlli al termine del
ciclo. Dopo questi primi casi mi permetto di condividere con il medico qualche
riflessione, dalla quale nel corso delle visite mediche e dei colloqui è emerso
un costante modo di porsi, nei confronti pazienti, intriso non solo di mera
passione per la professione di oncologo, ma anche e soprattutto di “trasporto”
verso l’Essere sofferente, senza lasciar trasparire una personale emozione; al
contrario, il sorriso e la voce calma e non priva di quel pizzico di
affettuosità che vorrebbero essere di supporto terapeutico. «È importante saper ascoltare questi pazienti
– mi conferma la dott.ssa Spadi – dando
spazio al loro desiderio di narrare, e magari anche sfogarsi, poiché il loro
modo di voler colloquiare è anche una richiesta di aiuto... Spesso, però, durante
i colloqui e le visite è più apprensivo il coniuge o il genitore che si
frappone, tra il congiunto e il medico, facendo molte domande e a volte non
prive di personali deduzioni...». Ecco che, a mio avviso, il poter vivere “in
diretta” esperienze come l’operatività di un oncologo, può contribuire a
riflettere un tantino di più sulle potenzialità e i limiti non solo della
Medicina, ma anche del medico la cui scelta di dedizione per lenire le
sofferenze dei suoi simili, va oltre la comprensione dell’esistenza umana e con
essa quanto ancora molto resta da fare per raggiungere quel traguardo che si
chiama sconfitta di tutte le malattie oncologiche.
Intervista alla
dott.ssa Rosella Spadi
Oncologo per predisposizione sapendo
ascoltare il vissuto di malattia dei pazienti, riconoscendo i propri limiti e
far fronte alle decisioni con razionalità e sentimento umano. Far narrare e
ascoltare spesso è anche terapia...
Dott.ssa Spadi, come viene impostata una
giornata tipo per le visite ambulatoriali al D.H. del Coes?
“I pazienti giungono all’accoglienza e prendono
il numero per ordine di arrivo, vengono sottoposti al prelievo per gli esami
ematochimci nel caso debbano fare terapia; subito dopo vengono visitati dagli
oncologi presenti nei dodici ambulatori e, se le condizioni cliniche e
laboratoristiche lo consentono, segue la prescrizione della chemioterapia come
da programma. Nel caso di visite di controllo, invece, il paziente accede
direttamente all’ambulatorio del medico dopo essersi registrato
all’Accoglienza”
È previsto un “tempo medio” per ogni
visita medica?
“Il tempo medio è di circa 15-20 minuti per le
visite preterapia, mezz’ora per le rivalutazioni e un’ora per le prime visite. In
ogni caso, la tolleranza per un tempo ulteriore è sempre prevista”
Quali sono le patologie più ricorrenti
che necessitano una prima visita e successivi controlli?
“In ordine di incidenza i tumori della
mammella, del colon e del polmone, seguono le neoplasie dello stomaco, del
pancreas e vie biliari, e del tratto uro-genitale”
Quali sono gli aspetti psicologici che
questi pazienti manifestano maggiormente?
“Le situazioni sono le più disparate: dalla
negazione totale della malattia alla prima visita, e anche alle successive.
Talora i pazienti a cui è ripetuta più volte la diagnosi, la prognosi e
l’appropriato programma terapeutico, manifestano un costante rifiuto,
verosimilmente per un meccanismo di negazione; in altri casi i pazienti sono
più “presenti verso la loro situazione clinica conclamata. Altri ancora, hanno
un atteggiamento che varia da momenti di disperazione a momenti di speranza e
quindi di ripresa...”
Come viene vissuto dal paziente il
momento della comunicazione di un referto alla visita periodica di controllo,
dopo aver predisposto un programma terapeutico?
“In ogni caso con un carico di ansia e di
angoscia, quasi come fosse tutte le volte una sentenza... In taluni casi
sconfinano nella depressione che, il più delle volte, il clinico riesce a
contenere nel corso del colloquio”
Vi sono casi in cui un paziente nel tempo
rifiuta la terapia e i successivi controlli?
“Questi casi sono una minoranza perché decidono
di sottoporsi a terapie alternative; altri, invece, presi dallo sconforto per
quanto riguarda la patologia specie se a prognosi infausta, decidono di non
sottoporsi al trattamento indicato, ma possono essere aiutati ad avere un
“ripensamento” in seguito ad uno o più colloqui per accettare una terapia che
ha ancora un senso fare; se invece l’indicazione è più palliativa, il loro
rifiuto è pressoché scontato”
Quanto è utile per un paziente l’essere
accompagnato da una famigliare alla visita di controllo?
“Generalmente è molto utile perché i famigliari
rappresentano una risorsa fondamentale, anche se alcuni casi essi stessi mettono
in essere un meccanismo di difesa con mancata accettazione della malattia
diagnosticata al loro congiunto; altri riescono a contenere le ansie del loro famigliare
supportandolo in questo difficile percorso”
Ed è altrettanto utile la narrazione del
paziente verso il medico, soprattutto nella fase di progressione della
malattia?
“Direi molto. Il bisogno di questi pazienti è
proprio quello di raccontarsi, e ciò richiede, però, spazi e soprattutto tempi
dedicati: quanto più si conosce il vissuto del paziente (percorso di malattia e
socialità), tanto più si riesce a fare quello che noi definiamo “medicina
mirata”, e questo, oltre ai farmaci fa la differenza”
E per quanto riguarda l’emotività?
“Il problema dell’emotività riguarda sia il
paziente che il medico, che non va “alienata” in quanto, a mio parere,
l’empatia è anche un po’ cura... Tuttavia, l’aspetto emotivo non deve prevalere
quando si tratta di prendere determinate decisioni; in caso contrario, si
rischia di disorientare il paziente e i suoi famigliari”
Cosa le hanno dato sinora i pazienti oncologici?
“Molto. La mia persona è stata un po’
“modulata” dalle mie esperienze personali, ma anche dai racconti degli stessi
pazienti, dal loro modo di affrontare la vita con la malattia. Da loro si
impara sempre, come si impara dai propri limiti, riconoscendoli anzitutto, e
farne tesoro...”
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