RICORDARE E INVOCARE I SANTI
PER IL BENE FISICO E DELLO SPIRITO
Non basta onorare la ricorrenza di San Martino con l’auspicio
di meglio affrontare il dolore con le cure palliative. Bene la legge 38 del
2010, ma mancano palliativisti... e il volontariato non può sopperire le
inadempienze istituzionali...
di Ernesto Bodini
Ogni
ricorrenza che si rispetti merita qualche riflessione in più, specie se si
tratta di Santi (per chi ci crede) ritenuti patroni tanto da invocarli a protezione
da questa o quella malattia. È il caso, ad esempio, di San Martino, vescovo cristiano di Tours (Francia)
uno dei Santi più venerati in Occidente e protettore a tutela delle Cure
Palliative. Ma perché tale riferimento? Anzitutto va ricordato perché secondo
la tradizione, nel rigido inverno del 335 incontrò un mendicante seminudo e,
vedendolo sofferente, tagliò in due il suo mantello militare (la clamide bianca della guardia imperiale) e lo condivise
con il mendicante; di lì a poco incontrò un
altro mendicante e gli donò l’altra metà e, in seguito a questo doppio gesto di
generosità, il cielo si schiarì e la temperatura si fece più mite. Martino di Tours nasce nel 316 in Pannonia (l’attuale Ungheria), figlio di un ufficiale dell’esercito
romano, si arruola volontario nella cavalleria imperiale. Lascia l’esercito nel
356 e, raggiunta Poitiers, il vescovo Ilario lo ordina esorcista, quindi verso
il sacerdozio. Ordinato prete nel 361 fonda a Ligugé una comunità di asceti; a
25 anni lascia l’esercito e nel 371 viene eletto Vescovo a Tours. In seguito,
senza abbandonare le scelte monacali va a vivere in un eremo solitario, al cui
ritiro si sono aggregati numerosi seguaci, tanto da fondare un monastero del
quale diventa Abate imponendo a se stesso e ai suoi fratelli adepti una regola
di povertà, di mortificazione e di preghiera. In questo periodo fiorisce la sua
profonda vita spirituale rifugiandosi in una capanna in mezzo al bosco,
respingendo apparizioni diaboliche e conversando con i santi e con gli angeli.
Tale scelta monastica si esprime osservando le funzioni episcopali a Tours, ma
nel contempo si occupa dei prigionieri, dei condannati a morte, dei malati, e
dei defunti che pare guarire e resuscitare. Un ruolo (mi si perdoni l’interpretazione
eufemistica) che lo avvicina sempre più ai poveri, proprio perché la povertà ben
lungi dall’essere un’ideologia, ma una realtà da vivere nella massima
concretezza del soccorso e del voto. Muore l’8 novembre del 397 a Candes-Saint
Martin, dove si era recato per mettere pace fra il clero locale, ma viene
seppellito tre giorni dopo; da qui la ricorrenza in calendario. Inoltre, l’11
novembre è simbolicamente associato alla maturazione del vino, cui è seguito,
manco a dirlo, il proverbio “A San
Martino ogni mosto diventa vino”.
Questa storia, sia
pur in sintesi, vuole essere il non meno significativo riferimento al fatto che
San Martino di Tours è il patrono delle Cure Palliative, e il gesto di dividere
il suo mantello con un mendicante intirizzito dal freddo, prende il nome di
palliativo (dal latino pallium,
ovvero mantello) e, in riferimento alle cure di chi soffre, esse non
rappresentano ciò che comunemente potrebbe essere inteso come un atto inutile,
o quanto meno di poco sostegno, illudendo il malato che non ci sia più nulla da
fare. Al contrario, le cure palliative sono un vero e proprio “toccasana” assai
indicate al paziente con malattia avanzata, non più responsiva alle terapie
farmacologiche propriamente dette. «Ogni
persona affetta da una malattia in stadio avanzato e inguaribile – ha ulteriormente precisato Stefania Bastianello,
presidente della Federazione Cure Palliative, su il Corriere della Sera il 4
novembre scorso – ha il diritto di
trovare nelle Cure Palliative la risposta ai suoi bisogni, per alleviare la
sofferenza fisica e psicologica, per avere attenzione all’aspetto della comunicazione
e della spiritualità, per affermare il proprio concetto di dignità. Per
scegliere dove morire e chi avere accanto». Negli Stati Uniti, proprio
perché solo il 38% degli americani riceve cure palliative prima di morire, come
ha dichiarato tempo fa ad un congresso promosso dalla Fondazione Floriani, la
prof.ssa Katheleen M. Foley, dal 1981 capo del Servizio antidolorifico al
Memorial Sloan-Kettering Cancer di New York, resta ancora molto da fare per
portare le cure non solo ai pazienti che hanno gravi malattie terminali, ma
anche a quelli che hanno semplicemente dei sintomi che richiedono un
trattamento. E in Italia, come stanno le cose? Da noi la Legge 38 sulle Cure Palliative
è del 2010, e pare essere la più avanzata in Europa, ma di fatto è ancora incompiuta,
non solo perché non è nota a tutti i cittadini, ma anche per il fatto che sono
molto pochi i professionisti della palliazione, e manca l’insegnamento
universitario, come pure un Decreto attuativo per quanto riguarda la formazione
del volontariato. In questi casi, come anche in altri, si sente dire: “Quando non c’é più nulla da fare, c’é ancora
tanto da fare”. Una constatazione scontata, si direbbe, ma che in realtà è
niente di più vero se si vuole parafrasare il concetto di “anomia legislativa”
coniato dal sociologo francese Èmile Durkheime (1858-1917). E se è vero che a volte
il dolore possiamo sopportarlo da soli, è altrettanto vero che meglio lo si
sopporta nel rispetto della propria dignità con accanto i propri cari... e la
mano caritatevole dei medici palliativisti!
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