DOVEROSA
RIEVOCAZIONE COME INSEGNAMENTO DI VITA E SAGGEZZA
In quest’epoca
intrisa di contrarietà e assurde diatribe tra i popoli di qualunque etnia e
fazione politico-culturale, quale atto più saggio se non quello di prendere
esempio da chi ha saputo dare valore e rispetto al debole e sofferente?
di Ernesto Bodini
Lentamente ma
inseorabilmente trascorrono gli anni, e anch’io, come tutti gli ex allievi
della Fondazione “Pro Juventute” Don Carlo Gnocchi (1902-1956), desidero
mantenere vivo il ricordo del “papà” dei mutilatini e poliomielitici, che hanno
fruito dell’assistenza e della cura fisica e spirituale durante l’internato
collegiale. Un periodo particolarmente delicato, sia per l’handicap che li ha
colpiti (mutilazione di un arto o esiti di poliomielite) sia per l’età
adolescenziale di quegli anni di internato. Rievocare la sua figura e il suo
operato significa ricordare e trasmettere un esempio di dovere umano e
cristiano, e questo è anche oggetto di altruismo e profonda riconoscenza,
soprattutto se lo spirito di tale pensiero è intriso di amore e bontà per il
prossimo. Il suo benemerito nome, scrissi nel 1981, in occasione del 25°
anniversario della sua morte, desta ancora vivo scalpore ed ha del profondo,
non solo per gli ex allievi della “Pro Juventute”, ma anche per quanti hanno
avuto modo di conoscere ed apprezzare le inestimabili doti del padre
dell’infanzia mutilata. Un contributo anche per ricordare che il prossimo anno
sarà il decimo anniversario della sua Beatificazione, cerimonia solenne che si
è tenuta in piazza Duomo a Milano il 25 ottobre 2009, alla presenza di oltre 3
milioni di persone, seguita davanti agli schermi della televisione da oltre tre
milioni di fedeli. Prima di lasciarci (28
febbraio 1956) don Carlo si è adoperato instancabilmente e con veemenza per il
nostro recupero fisico e psicologico, favorendo la nostra istruzione e
l’inserimento nella società, grazie alle sue ottime conoscenze pedagogiche
arricchite da inesauribile forza di volontà e carità cristiana.
Papà don Carlo voleva
che il bimbo affetto da cecità, il fanciullo privato degli arti, il ragazzo
piegato dalla poliomielite (il vaccino non era stato ancora realizzato) e lo
sguardo spento del bambino attanagliato dal complesso del colore (il
riferimento è ai suoi primi ospiti nei collegi, i cosiddetti “mulattini”, nati in Italia da donne bianche e soldati alleati di colore, che
amorevolmente chiamò “figli del sole”) non perdessero la voglia di vivere e la
volontà di sorridere. La fattiva e lodevole collaborazione di medici,
infermieri, ortopedici, fisioterapisti ed educatori, ha dato eccellenti
risultati per il raggiungimento dell’oneroso traguardo che don Carlo si era
prefisso come sua unica ragione di vita. Ma l’apostolo della sofferente e casta
adolescenza, sapeva che la sua vita volgeva al termine e non pago del suo
interiore, ha voluto che dopo la sua morte le sue cornee fossero donate a due
mutilatini (i prescelti furono Silvio Colagrande e Amabile Battistello, tuttora
viventi), i quali privi del più prezioso dono della natura, oggi possono
ammirare i vivaci colori che hanno dipinto la maestosa opera
dell’ineguagliabile pioniere della bontà cristiana. Un gesto memorabile che
prevaricò la legislazione in quanto la stessa non prevedeva il prelievo di
organi e tessuti, come pure anticipò il pensiero e il parere della Chiesa che
non si era mai espressa in tal senso. Don Carlo Gnocchi
sapeva inoltre a chi imputare le nostre penose sofferenze, le quali hanno
inevitabilmente coinvolto i nostri ignari genitori nel torbido "vortice
dell’umano dolore”, ma il prezioso frutto dei suoi insegnamenti ci ha fatto
conoscere il pregio del perdono, affinché le nostre minorazioni fossero per
l’umanità un severo monito ed un doveroso incitamento al bene ed alla pace nel
mondo. Oggi, grazie a don Carlo, non siamo più i sofferenti fanciulli sperduti
nelle aride oasi del dolore e dei patimenti ma veri e maturi uomini che,
immemori del passato, hanno occupato ed occupano un decoroso posto nella
società ed accettati dalla stessa come loro simili nel quadro di una giusta
considerazione per i meriti interiori. Un traguardo che non è certo privo di
eccezioni in quanto la società attuale non sempre ha una visione del disabile
dal punto di vista dell’uguaglianza sociale e dei diritti; ma non per questo devono
venir meno l’ottimismo e la perseveranza degli intenti di don Carlo.
Questi orizzonti
sono sempre stati illuminati dalla splendente luce d’amore che don Gnocchi
emanava, e dalla quale ci viene le più obiettiva consapevolezza che l’arto
amputato o atrofizzato e il colore della pelle, non precludono (e non devono
precludere) in nessun modo, ogni capacità intellettiva ed ogni forma di
intraprendenza, nonché il comune ed inviolabile diritto di condurre
un’esistenza futura più serena, priva di meschini pregiudizi, di ingiustificato
orgoglio e dell’ormai logoro piedistallo dell’ipocrisia. A don Carlo, va dunque
il nostro più encomiabile riconoscimento per la sua memorabile e grandiosa
opera, per merito della quale sono derivati successi e vantaggi i quali, senza
peccar di presunzione, crediamo d’aver meritato e che saranno perennemente
d’esempio a quanti come noi hanno sofferto, ed a tutti coloro che si rendono
responsabili delle più ignobili violazioni dei valori e diritti esistenziali. E
a tal riguardo ritengo che tutti noi, ex allievi e non, sia nostro dovere
mantenere in auge questi esempi di vita affinché ogni “avversità” nella
conduzione di un Paese (come il nostro), e nel contrastare ogni progresso per
la prevenzione delle patologie, sia messa al bando inabissandola nel baratro
della perdizione umana...
Nelle immagini in basso, lo scrivente ospite negli anni '60 in
diversi collegi di don Gnocchi.
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