L’ANTAGONISMO TRA
RICCHEZZA E POVERTÀ
Possedere
ricchi patrimoni non solo rende agevole la vita, ma nello stesso
tempo
può “minare” la coscienza per un ravvedimento ad essere più altruisti
di Ernesto Bodini
Proprio perché nel mondo
aumentano povertà e diseguaglianze, non vuole essere retorica chiedersi il
perché di tali estremi, e vale quindi la pena tentare di analizzare il problema
che sin dalla notte dei tempi condiziona l’esistenza delle popolazioni. Dai
quotidiani si rileva che nel 2017 il patrimonio dei super ricchi era di 70 mila
miliardi di dollari, e che l’uomo più ricco al mondo a tutt’oggi risulta essere
Jeff Bezos (nella foto, fondatore e A.D. di Amazon.com) con un patrimonio
record di 141,9 miliardi di dollari. Secondo la classifica di Forbes (la
rivista internazionale che pubblica la classifica degli uomini più ricchi nel
mondo), il numero uno di Amazon vale 49 miliardi di dollari superando Bill
Gates e Mark Zuckerberg, rispettivamente fondatore e A.D. di Microsoft, e uno dei cinque fondatori di Facebook Inc. nonché presidente e A.D. della
stessa. La ricchezza è solo un fatto di una spiccata capacità imprenditoriale,
magari favorita da circostanze fortuite, oppure è una circostanza che, molti
credenti, vorrebbero definire una sorta di predestinazione? Le risposte possono
essere varie ma sta di fatto che le diseguaglianze sono sempre esistite: ovvero
l’umanità divisa tra ricchi e poveri, tra nobili e plebei, tra potenti e
sudditi, etc. Il famoso detto “l’argent
fait la guerre” nelle varie epoche, ed ancora oggi, purtroppo corrisponde al
vero nel senso che il denaro non solo è simbolo di potere ma anche di stabilità
economico-sociale quasi sempre condizionante... Il divario tra ricchi e poveri
ha sempre determinato situazioni di instabilità e, per comprenderne le ragioni,
notevoli sono le riflessioni dello statunitense David S. Landes (1924-2013), il
padre dell’economia politica, con la sua opera La ricchezza e la povertà
delle nazioni. Perché alcune sono così ricche e altre così povere (Ed.
Garzanti, 2000); mentre il filosofo ed economista scozzese Adam Smith
(1723-1790) per primo affrontò in modo capillare il problema di quali fossero i
fondamenti della prosperità e della povertà dei Paesi con l’opera Indagine
sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pubblicata nel
1776, quando la rivoluzione industriale era ai suoi albori soprattutto in
Inghilterra. Secondo Landes chi rappresenta il sale del mondo è il «tipo di
persone che pensano in positivo, e sanno essere propositive; e quand’anche
queste sbagliano, sono positive, e questa è la strada che porta al progresso,
al miglioramento, al successo». È evidente che le conseguenze “originate” dalla
ricchezza-povertà sono molteplici, e ne basterebbe una per tutte: la salute, la
cui garanzia è data in primis dalla prevenzione e dall’assistenza. La
dimensione planetaria della qualità in ambito sanitario, per restare in tema,
coinvolge molti Paesi e importanti istituzioni come la Banca Mondiale, sempre
più impegnata nel migliorare i risultati assistenziali dei poveri, rafforzare i
sistemi sanitari, garantire i finanziamenti per il sostenimento degli stessi:
soprattutto mirati a ridurre il tasso di mortalità e morbilità.
Ma
la ricchezza è anche un fatto culturale? Sembra di si perché nel rispondere al
perché alcuni Paesi siano ricchi e altri poveri e poverissimi, Landes individua
in ciò che in termini lati si può chiamare “cultura” il fattore fondamentale
che ha attivato e promosso lo sviluppo: cultura da intendersi all’innovazione,
non solo come sapere, ma come concezione della vita e orientamento che dispone
al lavoro, all’innovazione, all’investimento, all’organizzazione e all’uso
razionale delle risorse. E se qui sta la chiave del successo dell’Europa
occidentale (oggi per alcune nazioni un po’ meno), dell’America del Nord, del
Giappone, della Cina e di alcuni altri Paesi dell’area asiatica, non si può
dire altrettanto, a mio avviso, sulle scelte (o destini) individuali di
rincorrere la ricchezza per mero godimento delle agiatezze che può procurare,
o più semplicemente per detenere la simbologia del potere: «sono un qualcuno
perché possiedo, e per ciò detengo un potere sulle cose, sulle persone...». È
certamente un’affermazione forte ma reale che evidenzia come il denaro può
orientare il destino degli esseri cosiddetti “inferiori”, perché poveri e
quindi... non eguali. Io credo che determinate differenze dipendano dalla
coscienza di ognuno: l’avidità è sempre stato un elemento soggettivo, come del
resto altri comportamenti umani quali la sobrietà, la generosità e la più
totale dedizione al prossimo che nulla possiede... Fra questi ultimi individui la
storia ci segnala essere esistita una schiera di filantropi (sia pur pochi) che
hanno devoluto parte del loro patrimonio per sostenere importanti iniziative in
favore della collettività meno fortunata. Ma la filantropia non necessariamente
è da esprimersi in generosità economica, ma anche (se non soprattutto) con
l’esempio dell’umiltà e della rinuncia a quei beni materiali e quei valori
d’immagine che con la sua coscienza fanno realmente grande l’uomo, perché anche
così si può contribuire a sostenere il povero della porta accanto. Riprendendo
il sommario di questo articolo ricordo che nel capolavoro
di Goethe, il dramma di Faust ha il suo prologo in cielo: i drammi della storia
hanno il loro prologo umano, ed il loro epilogo immediato, nel cielo della
filosofia; un cielo non sempre terso e sereno, quando si riduce ad un’immagine
ingrandita e riflessa, se non rovesciata, della coscienza umana nelle sue
continue fluttuazioni tra il vero e il falso, il bene e il male. E
aggiungerei: tra la ricchezza e la povertà!
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