FAR “RIVIVERE” SCRITTI E
TESTIMONIANZE DATATE
IN RICORDO DI ALBERT
SCHWEITZER
Il prezioso contributo di firme
prestigiose del giornalismo italiano
di Ernesto Bodini
Come
tutti i biografi e i “segugi” della storia anch’io ho avuto modo di
impreziosire la mia libreria di qualche cimelio, sia per importanza di data che
di argomento. Tra le mie ormai innumerevoli fonti biografiche e bibliografiche riguardanti
Albert Schweitzer (1875-1965) una è semplicemente intitolata Il dottor Schweitzer, pubblicata nel
1965 da Della Volpe Editore (lire 100, e in seguito “rivalutata” da un
rivenditore a lire 1.000). È una pubblicazione di notevole pregio storico, tra
le prime in edizioni italiane (qui a lato il frontespizio), che riporta
l’incontro del giornalista Sergio Zavoli (Ravenna 1923) con il medico alsaziano,
una testimonianza dello scrittore e giornalista Mino Monicelli (1919-2000), e
la ricostruzione biografica della vita di Schweitzer a cura dello storico
Giuseppe Venosta. Nelle oltre 180 pagine (in formato tascabile) arricchite da
molte immagini in bianco e nero, Zavoli appare accanto al medico filantropo e
ad altri suoi collaboratori tra cui il chirurgo svizzero Walter Munz (1933), il
primo erede alla conduzione dell’ospedale di Lambarènè in quello sperduto Gabon
subito dopo la morte di Schweitzer, molte delle quali dedicate ad un lungo
dialogo-intervista, in cui l’ormai novantenne patriarca dei lebbrosi esprime la
sua filosofia impostata sulla dedizione totale ai più diseredati e bisognosi. Alla
domanda del giornalista romagnolo: Dottor Schweitzer, lei è qui l’esempio di
una civiltà che ha rispetto dell’uomo e che pretende di insegnare questo
rispetto. A un cannibale che le chiedesse perché, dopo essersi ammazzati in
guerra, non compiamo l’unico atto razionale (cioé quello, dopotutto, di
mangiarci) che cosa risponderebbe per giustificare la sua civiltà? Il dottor
Schweitzer rispose: «Non pretendo di
potermi giustificare di fronte a un cannibale né a nome mio personale e neppure
a nome della mia civiltà, della nostra civiltà. Direi al cannibale che anche
noi, a modo nostro, ci mangiamo l’un l’altro! Ecco, tra la mia origine e il mio
grado di civiltà c’é una storia che comprende anche il cannibale, e che
riguarda tutti...». Ma un’altra domanda è stata non meno significativa: E
che cosa direbbe a un africano che le chiedesse: perché ancora oggi venite qui
per educare i nostri spiriti, voi che non riuscite ancora a mettere pace nei
vostri? Voi, che da quando ci conosciamo avete firmato seimila trattati di pace
e quindi avete combattuto seimila guerre? Schweitzer rispose: «Mai un indigeno mi ha messo in questo
imbarazzo! Credo che... balbetterei... saprei dirgli solo questo: “Prendi,
intanto, la pace che ti porto...”. Si
vorrebbe dire e fare, durante la nostra vita, tante cose giuste, al tempo
giusto; spesso, con vergogna, ho mormorato sopra una tomba parole che avrei
dovuto saper dire quando ancora, forse, sarebbero state capite. La vera lebbra
del mondo è quella di non saperla curare in tempo...». Ma non posso non
citare quest’altra domanda: Noi, con la nostra civiltà, dottor Schweitzer,
stiamo andando sulla luna, secondo lei, in realtà, dove andiamo? E Schweitzer,
candidamente, rispose: «Non sarà la
civiltà a sbarcare sulla luna, ma il nostro orgoglio. Non potrebbero, del
resto, sfuggire alla gravità della terra le innumerevoli cose, assai pesanti,
che qui ancora dobbiamo risolvere...». Diversi
in contributi della stampa italiana riportati nella pubblicazione, subito dopo
la morte di Schweitzer, tra i quali emergono quelli di Indro Montanelli
(1909-2001) da il “Corriere della Sera”,
7 settembre; Renzo Rossotti (1930-2014) da “L’Italia”,
6 settembre; Luigi Salvatorelli (1886-1974) da “La Stampa”, 10 settembre; Achille Mario Dogliotti (1897-1966) da “La Stampa”, 8 settembre; Antonio Spinosa
(1923-2009) da “Il Giorno”, 6
settembre; Angelo Del Boca (1925) da la “Gazzetta
del Popolo”, 7 settembre; Guido Gerosa (1933-2000) da “Epoca”, n. 781.
Ma un’altra documentazione editoriale che mi
ritrovo tra le mie fonti, riguarda l’edizione della serie “Io c’ero – Documenti
sonori d’inchiesta” (Aletti editore, 1962), che comprende un’inchiesta
dell’inviato attore e regista John Pasetti (1920), con la collaborazione di
Mario Leone, dal titolo “Ha sconfitto
gli stregoni. Ha dominato il male”; un lavoro sintetico ma particolarmente
significativo, ricco di immagini, che l’autore per realizzarlo ha percorso
circa 10 mila chilometri: da Napoli a Lambarènè; ma anche la produzione fonografica
(LP 33 giri) intitolata Il dottor Albert
Schweitzer – Il “grand docteur”, si tratta del testamento spirituale dalla
viva voce di Albert Schweitzer; un documentario originale che lascia ai posteri
esempi di saggezza cresciuta sulle basi del suo operato e del suo credo. «I medici che si sono alternati ad assisterlo
– è quanto ricorda Pasetti nel suo lavoro testimoniale –, ad aiutarlo e chi gli è stato e gli è accanto, hanno compreso che
cosa voglia significare “essere medici”, al di là di ogni speculazione, al di
sopra di ogni interesse, sulla base di un fattore senza limiti: la coscienza.
Coscienza che si traduce in amore verso i nostri simili, che non hanno colore,
non nazionalità, ma sono esseri umani con le loro gioie, i loro dolori, uguali
in qualsiasi paese del mondo...». Ecco, io credo che al di là di possedere
documentazioni storiche, il solo sapere che sono esistiti Uomini come Albert
Schweitzer, ci fa rammentare anche quanto sosteneva Robert Koch, patologo e batteriologo
tedesco, (1834-1910): «Non si può
diventare un medico senza esserlo dalla nascita e averci la vocazione! Ci vuole
una buona dose di abnegazione per poter adempiere a tale missione. Non c’è
niente di più bello che aiutare l’umanità che soffre!».
Nella foto in basso un LP riproducente brani eseguiti da A. Schweitzer all'organo
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