UN MEDICO, UN UOMO
Da un film una storia
per comprendere quanto sia importante la professionalità ma anche la capacità
di relazionare con i pazienti, lasciando poco spazio al non sempre utile
umorismo
di Ernesto Bodini
Dal libro
autobiografico “A taste of my own
medicine” del medico internista e reumatologo statunitense Edward Rosenbaum
(1915-2009), la regista Randa Haines nel 1991 ne ha prodotto un film (da tempo
è anche in versione DVD, come da immagine),
se non di grande successo sicuramente di un certo impatto emotivo e messaggiativo
in cui la figura del medico professionalmente preparato, lascia a desiderare in
ambito relazionale. Una “divergenza” che pone in risalto, secondo la trama,
quanto “la chirurgia implichi un
giudizio, e che per giudicare bisogna essere distaccati”. E ciò ricorrendo
ad uno scanzonato umorismo nel corso dell’attività clinica che, nel caso del
protagonista, il dott. Jack McKee (interpretato da William Hurt), non certo
favorisce la compliance terapeutica, ma serve a mantenere il distacco emotivo
dal paziente. La trama è comunque coinvolgente e al tempo stesso un invito a
qualche riflessione in quanto ci fa conoscere il prototipo di tanti medici
americani. Il dott. Jack McKee, brillante e spregiudicato quarantenne, è un cardiochirurgo
in un ospedale di San Francisco. È molto abile e sicuro di sé, opera non
lesinando battute e freddure agli assistenti anche nei momenti più drammatici
di un intervento. Ai suoi tirocinanti ripete: «Il proprio compito è entrare, aggiustare, andarsene».
All’improvviso il dott. McKee si ammala: gli viene riscontrato un tumore alla
laringe; una sua collega glielo comunica senza mezzi termini e bruscamente.
Viene sottoposto a biopsia, e in seguito deve affrontare anche lui lunghe
attese e iter procedurali per essere sottoposto ad analisi fastidiose, oltre a
supponenza ed arroganza dei medici ed intralci burocratici. Non accetta di
condividere una stanza a due, ma si deve adattare: il suo compagno di stanza è
un poliziotto che gli parla (in modo negativo) delle sue esperienze e quindi
dicendo male dei medici. Il dott. MeKee ha una reazione contraddittoria: da una
parte sarebbe spinto a difendere la categoria, dall’altra si rende conto che
(nella sua condizione di paziente) sta subendo gli stessi disagi. Insomma,
incomincia a vedere l’ospedale con gli occhi del paziente. Viene sottoposto a
radioterapia, quindi nuove attese, moduli da compilare, nuove irritazioni che
lo distolgono dai panni del paziente tanto da affermare con ostinata supponenza:
«Sono un dottore anch’io», e si sente
rispondere: «Non qui». Ma la
radioterapia cui viene sottoposto non dà i risultati sperati, e viene quindi
sottoposto ad intervento. Si urta nuovamente con la collega che gli aveva fatto
la diagnosi, e si sente dire: «Il medico
sono io e lei è il mio paziente». McKee si risente e replica sostenendo che
il problema consiste proprio nel fatto che lei non ha la minima idea di come i
malati si sentano, ed interrompe con lei il rapporto medico-paziente. Si fa
operare da un collega del suo ospedale che aveva “criticato” per la sua
cordialità con i malati.
Durante
questo “conflitto” scopre i valori umani e la solidarietà tra i malati: fra
questi la giovane June Ellis (interpretata da Elisabeth Perkins) che conosce
nella sala d’attesa, una giovane paziente alla quale è stata diagnosticata una
neoplasia cerebrale in ritardo per colpa dell’assicurazione, che non ha
consentito l’unico esame in grado di diagnosticarla in tempo, perché troppo
costoso. Nonostante si renda conto dell’infausta prognosi, la donna ha una
grande forza d’animo ed un atteggiamento positivo verso la vita, ma soprattutto
verso il prossimo. A Jack, che è sposato con Anne (interpretata da Christine
Lahti, nell’immagine a lato un “frame” del film), e che da tempo il
dialogo tra i due è limitato a rapporti di convenienza, la giovane Ellis gli
appare molto serena e con una certa disinvoltura, tanto che tra i due inizia un rapporto umano profondo e
di grande comprensione: la malattia della giovane paziente e il dialogo
costante aiutano a cambiare lo stile professionale del dott. McKee. Oltre
all’esito positivo dell’intervento tutto si risolve e, da quel momento, è
diventato un altro medico. Ad esempio, un giorno aveva ordinato ai suoi
tirocinanti di togliersi il camice e di indossare il pigiama, e li informa che,
oltre ai nomi delle malattie d’ora in poi dovranno imparare anche quelli dei
malati, perché il loro essere pazienti li rende impauriti, imbarazzati,
vulnerabili e perciò bisognosi di attenzione, di aiuto, di ascolto. Prima di
morire la giovane paziente con tumore al cervello gli aveva scritto una
lettera, che poi gli è stata consegnata. Il testo conteneva una breve storia. «C’era una volta un contadino che aveva un
campo e cercava di tenere lontani gli uccelli. Ci riuscì ma alla fine si sentì
solo e allora tolse tutti gli spaventapasseri, e si mise in mezzo al campo a
braccia spalancate, per richiamarli. Essi, però, pensarono si trattasse di un
nuovo spaventapasseri e restarono lontani. Allora egli comprese che era il caso
di abbassare le braccia e gli uccelli tornarono. Ecco, anche tu devi fare così:
impara ad abbassare le braccia». Una grande lezione etico-morale che lascia
una traccia utile sia agli studenti di Medicina che ad alcuni medici: ai primi
per aiutarli a capire la bellezza del fare il medico, ai secondi nel perseguire
a far bene il medico. A tutti loro con le braccia abbassate.
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