LA
“VERA” GIUSTIZIA DEVE ESSERE SEMPRE UN FATTO DI
UGUAGLIANZA
E NON DI “SOGGETTIVA” INTERPRETAZIONE
Un
principio etico che non vuole gettare anatemi contro chicchessia ma richiamare
l’attenzione sul delicatissimo compito di chi è deputato a giudicare e
sentenziare
di Ernesto Bodini
In
fatto di Giustizia in Italia (e non solo) ci sarebbe da disquisire ad oltranza,
da sempre, tra deduzioni e giudizi più o meno razionali... Sembrerà banale ma anzitutto
vorrei far notare che una delle prime “inosservanze” riguarda la dicitura
apposta in ogni aula di tribunale: “La legge è uguale per tutti”, con
l’osservazione, però, che nella maggior parte delle quali la “E’” risulta essere apostrofata e quindi congiunzione, e non
verbo “È” accentata come
dovrebbe essere (nell’immagine a lato un
esempio “improprio”). Da parte di molti si direbbe essere una sorta di lana
caprina, ovvero una pignoleria che non avrebbe ragione d’essere ma in realtà, a
mio parere, è importante anzitutto rispettare l’ortografia proprio perché in
queste Aule ospitanti giudizi e sentenze anche le pronunce, le virgole e gli
accenti (paradossalmente) possono fare la differenza; inoltre anche le
esposizioni verbali se poco appropriate dal punto di vista lessicale, od
espresse in forme arcaiche e latinizzanti, talvolta risultano poco
comprensibili ai convenuti: imputati, testi, consulenti, etc. Ma perché
affrontare questo aspetto apparentemente
così “impopolare”, quando ben più importanti sono tutti i presupposti per
giungere a stabilire la verità dei fatti oggetto di giudizio, per poi
determinare responsabilità e quindi le inevitabili sentenze? È presto detto.
Tra le mie letture, quasi quotidiane, mi ritrovo anche pubblicazioni di
carattere giuridico, non per atteggiarmi a “saputello” di una materia della
quale non ho basi accademiche ed esperenziali, ma per essere cosciente e
responsabile di quel minimo sapere, a scopo preventivo oltre che culturale, di
come viene esercitata la Giustizia nel nostro Paese, anche in virtù
dell’atavico concetto: «La legge non
ammette ignoranza», ovvero non conoscere i concetti giuridici che regolano
il vivere quotidiano non giustifica le nostre eventuali responsabilità. Tra le
pubblicazioni in questione ve ne sono tre che hanno “aperto i miei orizzonti”: La degenerazione del processo penale in
Italia (SugarCo S Edizioni, 1988);
Il nuovo Codice di Procedura Penale: una riforma tradita (Ed. Spirali &
Vel, 1989); La chiamata di correo in
Giurisprudenza (Giuffré Editore, 1991); tutte dell’unico autore Agostino
Viviani (1911-2009), famoso penalista senese ma del Foro di Milano, che merita
essere ricordato per l’acutezza e la trasparenza espositiva in sede di
conferenze e di stesura letteraria. Proprio per queste ragioni credo sia utile
rievocare alcuni passi delle mie recensioni ai volumi su citati. Le prime due
pubblicazioni, che sono state presentate a Torino nel 1989 a ridosso
dell’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale (CPP), avevano (ed
hanno, giacché il cartaceo pubblicato ancora esiste, sic!) il sapore di una
vera e propria denuncia della disfunzione del nostro sistema giudiziario,
supportato da una lunga esperienza e da un paziente lavoro di indagini e
ricerche tra gli Atti penali nei vari tribunali d’Italia: una sorta di
“scarnificazione” del processo, tant’è che del secondo libro non lascia dubbi
sul giudizio dello scrittore avvocato sul sistema penale italiano. L’ultimo
saggio è un’opera tecnica, che getta una luce nuova su molti e famosi processi
sino alla fine degli anni ’80. L’autore ha inteso esaminare la figura di correo
attraverso diverse impostazioni rammentando, ad esempio, che su questo aspetto
molto esplicito è l’art. 348 (3° comma) del Codice Rocco (1930): «Nessuno può essere sentito come testimone,
che sia imputato o condannato per lo stesso delitto o per un reato connesso;
anche se è stato prosciolto con formula piena». E, a questo proposito,
Viviani ricordò quanto disse in quell’occasione il delegato del Ministro alla
Commissione che era incaricata di preparare il nuovo Codice: «La prova testimoniale trova la sua
giustificazione nella presunzione che colui che non abbia interesse personale
nel fatto, è indotto a dire la verità»; mentre vi è sempre il timore
legittimo che nell’imputato od anche nel condannato permanga un sentimento di
solidarietà con gli imputati dello stesso reato o del reato connesso per il
quale furono prosciolti o condannati, timore che scuote la presunzione della
loro attendibilità.
E che dire del cosiddetto “pentito”? Figura non certo retorica
che, in sede di una conferenza tenuta a Torino nell’ottobre 1990, l’avv.
Viviani definì essere uno “sconosciuto”, personaggio (a volte chiave nel
processo) appartenente ad una categoria non priva di fratture e debolezze al
suo interno, tant’è che a Lucca corre un vecchio detto: «Se i pentimenti fossero camicie, uno avrebbe un bel guardaroba». «Tra questi individui – spiegò senza
mezzi termini – non c’è quasi mai
chiarezza per stabilire la sincerità del pentimento; una condizione, questa,
che non di rado trascende in veri e propri atti d’accusa e di delazione per
salvarsi o trarne qualunque tipo di vantaggio». Un problema che a volte
“condiziona” non poco il sereno corso della giustizia che, se si specchia nel
nuovo CPP, vede sempre più allontanarsi la possibilità di adeguarsi alle
convenzioni internazionali e allo sviluppo della cultura giuridica. Nel contempo mi sovviene il programma televisivo “Sono
innocente”, mandato in onda da RAI 3 ogni sabato dal 7 gennaio 2017 per
dieci puntate; circa due ore per
raccontare gli errori giudiziari e le traversie delle persone che sono state
coinvolte (dall’arresto alla detenzione) dal quel Sistema Giudiziario che presenta non poche lacune in fatto di obiettività e rispetto
umano. Una realtà che in quest’ultimo ventennio nelle nostre patrie galere
risultavano presenti oltre 20 mila detenuti innocenti. Una cifra immane che,
richiamando anche i circa 4 milioni di detenuti innocenti nel primo
cinquantennio della Repubblica, ci induce ad affermare che se diamo per
scontato che ogni riforma (dettata dalla politica) era in precedenza
un’opinione personale, alquanto significativa
(ed ancora attuale) è l’affermazione di Piero Calamandrei (1889-1956),
uno dei padri della Costituente: «Quando
per la porta della Magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla
finestra». Quindi, se è vero (come si vuol sostenere) che la legge è uguale
per tutti, è altrettanto vero che in alcuni casi è uguale per chi “se la può
permettere” (il riferimento è al patrocinio non gratuito). Ed è così che il
costante impoverimento degli “effetti giustizia”, ancora una volta sta a
sottolineare come il legislatore, quando promulga una nuova disposizione di
legge, fa come quell’elefante che, calpestata una quaglia, cercò di rimediare
sedendosi sulle uova dell’uccello per tenerle calde!
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