IL CITTADINO DI FRONTE ALLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE:
INERME, SOTTOMESSO E QUINDI SUDDITO
DEL SISTEMA?
Breve analisi di una realtà che lascia
il segno senza possibilità di ritorno a quel
vivere civile poiché razionalità, trasparenza
ed efficienza sono mere utopie
di Ernesto Bodini
Solitamente quando si è di
fronte ad un sistema o ad una situazione creati da persone, volte ad imporre, è
logico dedurre che si è sudditi, ossia pendenti da quel volere-potere..., ed
ancor peggio se si è inermi perché incapaci di reagire, ad esempio di fronte ad
un sopruso. Ma cosa significa per un popolo essere inermi, sottomessi e
quindi sudditi? È bene anzitutto
richiamare l’attenzione sul concetto di Cittadino,
ovvero un abitante o residente in uno Stato del quale possiede la cittadinanza
avendone i conseguenti diritti e doveri.
Al tempo dei romani lo status di
cittadino fu considerato a lungo un privilegio e l’aspirazione ad esserlo da
parte degli abitanti delle zone sotto tale dominio, fu anche oggetto di aspre
contese tra Roma e le altre popolazioni italiche. Va anche detto che all’epoca
dei Comuni (periodo storico
del Medioevo che riguardò vaste aree dell'Europa occidentale) il termine
cittadino identificava quella classe sociale superiore ai popolani ma inferiore
ai nobili. Quindi cittadino è anzitutto Persona (dall’etrusco Phersu:
personaggio) il cui concetto, soprattutto filosofico, esprime singolarità di
ogni individuo della specie umana in
contrapposizione al concetto altrettanto filosofico di natura umana che esprime
ciò che hanno in comune le persone, ossia il bisogno di comunicare. Più in generale sulla
definizione di Essere umano ben
concorda il teologo e filosofo San Tommaso d’Aquino (1225-1274) evidenziando la
differenza con l’ordine del regno animale: «L’uomo di sua natura è un animale
sociale e politico fatto per esistere insieme ad altri anche più di qualsiasi
altro animale, e questo risulta evidente dalle sue necessità di ordine
naturale... la natura dell’uomo è tale che non può procurarsi tutto con l’opera
delle sue mani; infatti un uomo non potrebbe vivere da solo senza che gli venga
a mancare qualcosa di necessario. Dunque, l’uomo per natura vive in società con
gli altri». Ma in sostanza, l’uomo-cittadino
quando è da ritenersi suddito, ancorché inerme e sottomesso? Anche qui bisogna
precisare il concetto suddito e quindi la condizione
di sudditanza. Si è sudditi se sottoposti ad una autorità sovrana (che
comanda), ovvero ogni soggetto che si trova in condizione di dipendenza dalla
sovranità di uno Stato in particolare, ad esempio, i sudditi coloniali, gli
apolidi (privi di qualunque cittadinanza) sono sudditi dello Stato che li
ospita.
Infatti, un
tempo si diceva che il re comanda e i sudditi devono obbedire: fedeli sudditi
di Sua Maestà... Ed ancora. Il termine suddito in passato era usato per
indicare in alcune zone del Piemonte e della Lombardia gli operai agricoli
salariati fissi. Ma esiste il diritto di non essere sudditi? Per
rispondere a questa domanda è inevitabile richiamare il concetto di burocrazia
che, visto sotto l’aspetto più negativo, è identificabile da parte della P.A.
in ritardi insopportabili nel ritmo della vita odierna, complessità delle
procedure e linguaggio incomprensibile tengono lontano il cittadino, di cui
dovrebbe essere al servizio. L’inalienabile sistema è il nostro “nemico” numero
uno: leggi assurde, cavilli obsoleti, inutili precisazioni, spesso
incomprensibili, mettono ginocchio il cittadino che diventa così, impotente e
quindi suddito del sistema stesso; e quasi sempre a poco valgono i tanti che
lavorano con onestà e senso del dovere. Il rapporto (trasparente) tra Stato e Cittadino
nella vita quotidiana, soprattutto nel nostro Paese, è (o dovrebbe essere) il
primo “imput” per dimostrare la volontà di migliorare un sistema: di fronte
alle Istituzioni amministrative il cittadino italiano ancora oggi non è in una
posizione di parità anche formale, come invece avviene ad esempio nei sistemi
dell’area anglosassone; anzi, si trova quasi sempre in una posizione di vera e
propria sudditanza: l’amministrazione finisce con l’avere sempre ragione, o
quasi, e pochi sono gli strumenti a disposizione per far valere i propri
diritti. Eppure, la nostra Carta
Costituzionale, quando si è trattato di stabilire le regole fondamentali di
comportamento della P.A., è stata molto esplicita: imparzialità ed efficienza
sono i principi che devono guidarne l’azione; due lati della stessa medaglia,
ovvero una gestione imparziale della cosa pubblica non privilegia nessuno e
favorisce il soddisfacimento di tutte le richieste; inefficienza che induce a
concessioni per favoritismi e nepotismi clientelari... disconoscendo ciò che in
realtà è dovuto. Tra le cavilossità (in gran parte volute) si pensi, ad esempio,
ad alcuni moduli la cui dicitura che li compongono per stare in una pagina è
scritta in corpo molto piccolo e in modo fitto, lasciando pochissimo spazio al
cittadino che deve compilarli (spesso con difficoltà) immttendo dati che non
stanno al di dentro degli spazi consentiti. Una ulteriore assurdità è data dal
non far sapere al cittadino (se non è lui stesso a chiederlo) che per la
definizione di una pratica in alcuni casi deve esibire gli originali, e non le
fotocopie nonostante queste siano riconosciute valide legalmente... Inoltre,
mio avviso, in alcuni Enti il vetro che separa l’impiegato allo sportello dal cittadino-utente in piedi e in fila non
è solo simbolico, ma è anche concreto come a voler distanziare e non essere “contaminato”,
aggredito, etc. Il fastidio che ne deriva per il cittadino è in antitesi con
l’impostazione originaria dell’istituzione degli uffici di natura burocratica,
ma potrebbe essere irrilevante se il valore della burocrazia non fecesse pesare
quel voler distanziare, spesso “camuffato” da esigenze di igiene e di maggior
privacy del cittadino-utente allo sportello.
Ora, il concetto di sudditanza va sempre più
assumendo un tono decisamente marcato in considerazione del fatto che, le
competenze dello Stato e di altri Enti al seguito (Regioni, Province, Comuni,
Enti Locali) sono sempre più numerose ed imponenti rispetto alle origini. Un
tempo, ricordo, era maggiormente fattibile colloquiare “de visu” con il
personale delle Istituzioni piemontesi, e scrivendo loro si otteneva
riscontro...; oggi, invece, è quasi sempre impossibile ottenere udienza od
avere una risposta in tempo reale. L’attuale complessità di alcune procedure e
la sempre più corposa mole di pratiche da definire in tutti i settori, nonostante
l’agevolazione dell’informatica, dà al burocrate un potere discrezionale tanto
da avvalersi della mitica e intramontabile frase: «È un atto dovuto», fertile terreno dell’arbitrio, così imponente
che il cittadino-contribuente si tova ad essere inerme e sottomesso... «E se non dell’arbitrio – come precisa il
magistrato, e giudice della Corte Europea dei Diritti dell’uomo dal 2001 al
2010, Vladimiro Zagrebelsky (1940) – della
deresponsabilizzazione, la quale non è frutto malato del sistema, ma è proprio
il suo scopo fondante: procedure oggettive prestabilite che vogliono garantire
legalità, ma non si curano del risultato». Se poi le questioni sono di
particolare importanza per il cittadino, l’arbitrio si tramuta facilmente in
corruzione... e in questi ultimi anni i casi eclatanti sono quasi all’ordine
del giorno. Secondo Milano Finanza online, in sanità l’Italia spende 23 miliardi tra corruzione e
sprechi, e sottotitola precisando che il nostro Paese investe il 14,1% della spesa pubblica per
mantenere il proprio sistema sanitario, l'1,1% meno della media europea; l'Irlanda
è il Paese che vi dedica la quota più alta (19,3%), ma questa spesa incide solo
per il 5,7% del proprio pil, dato che per l'Italia sale al 7%. Alla luce di queste
realtà in Italia il cittadino-persona-contribuente di fronte alla burocrazia è inevitabilmente
inerme e sottomesso, e di conseguenza suddito del sistema tanto che a poco
serve l’incalzante progresso dell’informatizzazione se poi per via dei call
center (spesso operatori anche stranieri) e della comunicazione pre registrata
su disco, una determinata pratica non è comprensibile perché il dialogo tra le
parti viene a mancare, con la conseguenza che il rapporto umano è sempre più
spersonalizzante e... umiliante. Da ciò ne consegue la lesione alla dignità
umana. È pur vero che non tutto è peggiorato e non tutto peggiora, ma è
altrettanto vero che rimangono tuttora distanze e differenze tra operatori pubblici e cittadini fruitori di beni e
servizi. E tra questi ultimi, chi ne paga il prezzo più caro? Certamente i più
poveri di cultura, di istruzione e di denaro, e da qui reazioni d’ogni sorta:
malumori, imprecazioni, rivendicazioni, vandalismi, autolesionismi, astensioni
e quant’altro, e ciò richiede non solo una rivisitazione del sistema. Chi lavora
e scrive nel pubblico lo fa spesso non con l’intento di farsi capire dal
cittadino ma con quello di adempiere un proprio obbligo... Questo autore della
P.A., così ligio al proprio dovere si chiama burocrate, ossia colui che redige documenti avendo in mente non chi
dovrà leggere ciò che ha prodotto, ma se stesso
e i propri superiori da compiacere; il tutto finalizzato al rispetto del
sistema: svolgimento pedissequo delle proprie mansioni, nel rigoroso rispetto
dei controlli di legittimità, osservanza dell’iter, etc. Insomma, un formalismo
che non di rado sconfina nella irrazionalità, spesso di kafkiana memoria: non è
poi così raro nel nostro Paese trovarsi invischiati in situazioni giudiziarie (anche
gravi) per colpa di un troppo zelante burocrate, o per ottusità dello stesso (anche
magistrato), così che il cittadino inerme e sottomesso è costretto a subire... E
poco importa che abbia capito o meno, violando così il principio di
cooperazione, come quello enunciato dal filosofo inglese Paul Grice (1913-1988)
che testualmente precisa: «Fornite il
vostro contributo così come è richiesto, al momento opportuno, dagli scopi o
dall’orientamento del discorso in cui siete impegnati».
Tutto ciò rientra nel quotidiano della P.A. come
fotocopia degna di un agire fantozziano, le cui non rare ridondanza e irrilevanza
concettuali creano false aspettative, che in seguito vengono deluse. Si potrebbero fare ulteriori esempi alla cui
base vi è sempre una grave carenza di comunicazione (oltre che di istruzione e
cultura, ovviamente da ambo le parti), tanto da rivolgere l’attenzione al libro
di Piero Angela “A cosa serve la
politica?” (Mondadori, 2011) che, tra l’altro, precisa: «La mancanza di un efficace sistema di premi
e punizioni incide anche sull’elefantiasi dell’apparato burocratico. Infatti,
il modello italiano parte dal principio di sfiducia: cioé io, Stato, non so se
tu cittadino, che mi chiedi una auotorizzazione, un documento, una prestazione,
sei una persona per bene o un mascalzone. Presumo quindi che tu sia una persona
di cui è meglio non fidarsi. Per questo, per ottenere quello che mi chiedi,
dovrai passare ai raggi X della burocrazia: presentare una documentazione infinita,
passare attraverso vari uffici, aspettare che la pratica sia evasa. Poi
riceverai quello che chiedi». In altri Paesi (soprattutto anglosassoni) tale
principio è inverso. La nostra vita politico-amministrativa è in gran parte
intrisa di occulto e di astratto, di opaco o di contorto... il linguaggio
amministrativo, ad esempio, è spesso rivolto al Coreco, al Tar e alle
Magistrature piuttosto che al cittadino comune. È un linguaggio di burocrati
per altri burocrati, per avvocati e giudici. In sostanza, ciò che il cittadino
(torno a ribadire inerme e sottomesso)
ha il diritto di conoscere, in base alla legge popolarmente detta della
trasparenza (n. 241 del 7/8/1990, vedi), consiste in carte, volgarmente meglio
note come scartoffie. Egli ha diritto a prenderne visione e ad averne copia
alle quali potrà opporre altre carte per istanze, ricorsi, esposti, etc.,
talvolta con difficoltà di interpretazione. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con i casi di aporìa,
ossia l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema poiché ci si
trova di fronte a due soluzioni che, per quanto opposte, sembravano entrambe
apparentemente valide. Significato di insolubilità di un problema. I “documenti” (deliberazioni, ordinanze,
attestazioni, relazioni, resoconti, verbali, progetti, perizie, etc.) descrivono
sempre una realtà costruita appositamente per stare nelle carte. La realtà “storica”
rimane nei discorsi e nella testa delle persone: la memoria ufficiale
(registrata nelle carte) è solo un estratto della memoria vissuta, e spesso la
camuffa e la distorce. Si
potranno chiedere colloqui per chiarire, modificare e fare ricorsi, ma resta
sempre sulle carte, che dovrebbero costituire elemento di trasparenza... Una
realtà, questa, che sta diventando sempre più informatizzata, ma la diversa
materialità del mezzo non cambia la sostanza. Ecco che allora il cittadino si
trova in balia di questa esigenza-impostazione di quel potere sovrano, e
credere che con l’informazione si possa annullare il divario tra i reali
processi formativi delle decisioni e ciò che di essi risulta negli atti
amministrativi, è una falsa idealità... Arguto e lapidario il poeta e saggista
tedesco Bertolt Brecht (1898-1956) nell’affermare che quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza
diventa dovere.
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