IN ITALIA CONTINUA IL “VEZZO” DELLE ONORIFICENZE
Una buona azione non sempre è indice di “eroismo”, ma il
suo
valore resta integro anche senza appellativi privati o
istituzionali
di Ernesto Bodini
Purtroppo,
credo, è convinzione di tutti (o quasi) che le buone azioni debbano essere
pubblicamente premiate; anzi, ufficialmente encomiate con tanto di onorificenze
riconosciute per volontà esplicita del Presidente della Repubblica o di altra
Personalità istituzionale. Attestazioni per la gran parte denominate “Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica
Italiana” o “Commendatore”, come
si evince dai quotidiani del 19 novembre. E quel che più si presta ad una
disquisizione è la citazione, per alcuni che hanno beneficiato della
onorificenza, di “eroe” per aver compiuto una determinata azione di carattere
umanitario. Ma sta di fatto che in taluni casi tra costoro che sono stati
insigniti vi sono quelli che hanno agito in regime della propria professione,
quindi un dovere (peraltro retribuito) e non una libera scelta dell’agire... al
di fuori del proprio ruolo di servizio; altri, invece, hanno compiuto una
determinata azione sociale per esplicita volontà ma a seguito di una esperienza
vissuta in corpore vili, ciò vale a dire
che se non l’avessero vissuta molto probabilmente non avrebbero pensato di
intraprendere un’azione a favore della collettività. Tutte queste esperienze,
per quanto lodevoli sul piano umano e “disinteressato”, vengono quasi sempre
etichettate come “atti eroici”, ma va precisato con serena obiettività che non
esiste l’eroe dell’azione, bensì quello della rinuncia e del sacrificio.
Questa
affermazione è stata sempre espressa e soprattutto messa in pratica dal
filosofo e medico-filantropo Albert Schweitzer (1875-1965), insignito del
premio nobel per la Pace nel 1952 (33.480 dollari interamente spesi per la
realizzazione del lebbrosario e del mantenimento dell’ospedale di Lambarènè)
per la sua esistenza dedicata ai più poveri e diseredati del Gabon. Lungi da me,
dunque, il pensiero di voler alienare il riconoscimento ideale ed affettivo ai
miei simili che a vario titolo hanno compiuto una buona azione o perseguito una
giusta causa, ma mi corre doveroso l’obbligo di rammentare, come peraltro mi è
stato insegnato, che tali azioni acquisiscono e mantengono il loro valore anche
senza alcun riconoscimento; tuttalpiù è utile menzionare l’azione compiuta affinché
sia di buon esempio...; il fatto, invece, di essere insigniti di una nomina
affinché tutti sappiano, a mio modesto parere non contribuisce a dare maggiore
significato alla buona azione compiuta. Volendo estremizzare questo concetto,
si potrebbero rammentare autori di importanza internazionale che hanno
rifiutato il premio Nobel, e anche se per questi pochi casi le motivazioni
erano di carattere politico e ideologico, resta il fatto che non si sono
avvalsi della onorificenza e del denaro del Premio. Questa citazione potrebbe
sembrare un po’ “forte” rispetto al fatto di non condividere il riconoscimento
di un titolo onorifico ai nostri connazionali, ma in realtà il confronto
potrebbe contribuire a valorizzare al meglio la semplice menzione dell’azione
compiuta da ciascuno: targhe, trofei, pergamene e onirificenze varie sono
sempre in netto contrasto con quanto sosteneva il poeta e saggista tedesco
Bertolt Brecht (1898-1956): «Beato quel
popolo che non ha bisogno di eroi»; aforisma che per la verità non ha avuto
molta fortuna, ma sta di fatto, come ripeto, che della parola “eroi” si continua a farne abuso perché
questi in realtà non ne avrebbero bisogno in quanto tutti noi potenzialmente
potremmo essere un po’ eroi se compiamo una buona azione verso il prossimo o
perseguiamo una giusta causa. Mi pare invece più significativo e
intellettualmente più razionale, affermare che l’unica cosa importante quando ce
ne andremo, saranno le tracce d’amore che avremo lasciato. Tracce senza odor di
onorificenza.
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