IL SUPPORTO DELLA PSICONCOLOGIA AL
PAZIENTE MALATO DI CANCRO
UNITAMENTE ALLA SPONTANEA AZIONE DEL
VOLONTARIATO
Una Disciplina
che necessita di ulteriori Strutture e risorse umane
di Ernesto Bodini
Chissà
per quanto tempo, ancora, il genere umano avrà a che fare con il “nemico”
cancro, una delle patologie più estese e determinanti nel minare la vita umana (e
animale) e ancora in molti casi a sopprimerla. Anche se vi sono altre importanti
patologie che sono oggetto di studi per prevenirle e curarle, come quelle
neurodegenerative e invalidanti (sclerosi laterale amiotrofica, morbo di
Parkinson, sclerosi multipla, distrofia muscolare, etc., per non parlare poi
delle malattie psichiatriche), il cancro rappresenta per l’umanità la massima
espressione del dolore, dell’angoscia, della sofferenza... della morte; una
rappresentazione che ha nulla ha di metaforico quasi a volersi prendere gioco
dei suoi “candidati”: pazienti e curanti all’unisono. Ecco che il bagaglio
delle terapie si va arricchendo, più o meno costantemente, e quindi la
disponibilità di farmaci e di ricercatori fortemente impegnati ogni giorno tra
provette e reagenti, cavie e sofisticate strumentazioni. Ma tutto questo può
bastare per controllare una neoplasia in corso, che non solo mette a dura prova
il fisico ma anche la psiche del paziente? Sicuramente no, perché in non pochi
casi a sostegno delle cure di base entra in campo la Psiconcologia, una
disciplina il cui interesse ha inizio tra gli anni ’30 e ’40 in ambito
psichiatrico attraverso la Fondazione, nel 1937, del National Cancer Institute (NCI) e della International Union Against Cancer; mentre l’American Cancer Society
in questo stesso periodo attiva i primi gruppi
di auto-aiuto per i pazienti laringectomizzati e colostomizzati. E ciò avendo
acquisito l’importanza del reciproco confronto tra le persone che hanno vissuto
la stessa esperienza di malattia, come il confronto (e solidarietà) tra donne
operate al seno per cancro della mammella. Da qui i primi concreti esempi di sostegno
ai pazienti oncologici con interventi su base psicosociale, offrendo loro
sollievo alla sofferenza psicologica, secondaria al cancro. Anche se sono
passati alcuni decenni dalla nascita dela psiconcologia, la realtà nel nostro
Paese è in parte ancora sommersa, priva di valide strutture e risorse umane
particolarmente preposte. Ciò è quanto emerge da affermazioni in sedi congressuali
sul tema dalla obiettiva presa d’atto. È pur vero che la ricerca e la didattica
proseguono nel loro percorso, ma è altrettanto vero che sono ancora molti i
pazienti colpiti da una forma di tumore, che lottano per superare la fase
iniziale più critica ma che al tempo stesso hanno bisogno del supporto
psiconcologico sia in regime di ricovero ospedaliero (ed in hospice) che
domiciliare. L’attenzione per questi pazienti per estensione richiama il
concetto bio-psico-sociale in quanto la malattia non ha basi solo biologiche,
come spiegano gli esperti, ma coinvolge la genetica e gli aspetti emozionali
cognitivi. Infatti, essi sostengono che si muore di più di cancro se si è
depressi, stressati e ansiosi perché l’aspetto psichico si riverbera
sull’aspetto fisico riducendo le difese immunitarie dell’organismo, come dire
che la “mente comanda il corpo”.
Ma la malattia, si sa o si dovrebbe sapere, è anche un
problema di ambiente e di relazione familiare e/o sociale, oltre che
relazionale tra paziente e curante: oncologo, palliativista, infermiere, psiconcologo.
Quindi anche l’informazione non è meno importante sia per il paziente che per i
suoi familiari e/o caregiver per far conoscere loro i diritti in ambito
burocratico e della qualità di vita. Supporti, questi, che chiamano in causa anche
il ruolo del volontariato rappresentato oggi in Italia da circa 800
associazioni, più o meno preposte per rispondere soprattutto alle esigenze di
un malato che il più delle volte tende alla cronicità, dando risposte adeguate
ai bisogni garantendo, ad esempio, la possibilità di continuare a lavorare,
riducendo il ricorso alla invalidità civile, e in altri casi il far ottenere al
malato il riconoscimento della disabilità nel più breve tempo possibile. Ma il
volontario che si avvicina a questi malati quali caratteristiche deve avere?
Anzitutto spirito di solidarietà con alla base una determinata motivazione,
oltre ad una formazione psicologica (ovviamente non su basi accademiche) con
l’accortezza di “contenere” la sofferenza, avere l’umiltà per restare nella
posizione di ascolto interessato, ossia trarre da quello che sente tutto ciò
che lo aiuta a crescere. Ma anche costanza nel tempo oltre all’entusiasmo, la
pazienza, la fantasia con strategie propositive e la disponibilità, e
soprattutto la comprensione perché «empatizzare
con un paziente – spiegano gli psiconcologi – non significa compatire in
quanto l’empatia è un qualcosa che ci fa percepire il sentimento dell’altra
persona, e l’ascolto richiede concentrazione, tranquilllità d’animo, trovando
nel contempo la giusta distanza emotiva e non perdere la speranza...».
Talvolta, però, l’intervento del volontariato non è privo di rischi,
soprattutto se i proponenti sono molto giovani il cui “facile” entusiasmo può
sfociare nella indiscrezione, nella improvvisazione, perdendo di vista il vero
obiettivo del supporto al malato nel rispetto del suo dolore e della sua
intimità, confortati dal fatto che amare qualcuno significa vederlo com’era nelle
intenzioni di Dio!
Nella foto in basso una stanza dell’Hospice
San Vito di Torino
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