VISITA
ALLA STRUTTURA COMPLESSA DI MEDICINA INTERNA 2
CITTÀ DELLA
SALUTE E DELLA SCIENZA - OSPEDALE MOLINETTE DI TORINO
Quando l’eccellenza è sovente sinonimo di conforto e
speranza con
una visione olistica della Medicina del sapere umano e professionale
di Ernesto Bodini
Varcare la soglia di un reparto di Medicina
Interna, dove si possono incontrare pazienti affetti da una o più patologie
(sia acute che croniche), credo che rappresenti un momento di particolare
“riflessione” non solo perché ognuno di noi è un potenziale paziente ma anche,
se non soprattutto, perché la diretta presa visione del trattamento olistico di
medici particolarmente dedicati e professionali è conforto e speranza. Proprio
come diceva il poeta e drammaturgo Vincenzo Monti (1754-1828), nel 1803, in una
famosa lezione all’Università di Pavia, che la presenza del medico e le sue
parole al capezzale del malato: «... ne
ravvivano il coraggio, ne rasserenano lo spirito, e dissipano la melanconia».
Ciò è quanto ho potuto recepire (lunedì
18 settembre) trascorrendo alcune ore in corsia con i clinici della Struttura
Complessa (S.C.) di Medicina Generale e Specialistica 2, diretta dal prof.
Giuseppe Montrucchio, la cui esperienza sia dal punto di vista clinico che
organizzativo fa di questo reparto una delle eccellenze dell’ospedale
Molinette. «Il reparto – spiega – è di 25 posti letto (p.l.) in ricovero
ordinario di pazienti provenienti dal Pronto Soccorso o da altre Strutture a
carattere intensivo (Medicina d’Urgenza, Rianimazione, Stroke Unit), e 2 per
l’isolamento in caso di malattie infettive. Le stanze sono a due, tre o quattro
p.l. con servizi interni, dotate di monitorizzazione mobile per la rilevazione
dei principali parametri vitali; si
svolge inoltre l’attività di post-ricovero per i pazienti dimessi». Una
ulteriore caratteristica è data dal cosiddetto Progetto di continuità
assistenziale tra ospedale e Terrritorio, al fine di garantire la comunicazione
delle informazioni cliniche del paziente tra il suo medico di famiglia e il
medico del reparto per il programma terapeutico domiciliare. Alle dimissioni il
paziente è invitato a compilare un questionario di “gradimento” dalle cui indicazioni
verrà dato un punteggio da 1 a 10 che riguardano giudizi sull’accoglienza e le
dimissioni, assistenza infermieristica, prestazione alberghiera, aspetto
ambientale, assistenza medica, trattamento del dolore, e alimentazione. «Nel periodo dal 2012 ai primi mesi del 2017
– osserva Montrucchio – la media annuale
ha evidenziato un punteggio di gradimento tra l’8 e il 9, e ciò significa che i
pazienti hanno riscontrato ampia soddisfazione in tutti gli aspetti relativi
alla degenza e al loro trattamento; l’unica nota meno positiva riguarda
l’alimentazione, ma questo aspetto trova “giustificazione” in quanto il cibo
proviene dall’esterno, sia pur programmato nella scelta del menu uno o due
giorni prima da parte del paziente. Un bilancio tutto sommato positivo
considerando, tra l’altro, che la media del ricovero è di circa 10-12 giorni,
per un totale di circa 800-850 ricoveri all’anno». Questa S.C., oltre ad
avere due piccole sale per medici, e che si avvale del Laboratorio di Ricerca
per gli studi fisiopatologici delle patologie cardiovascolari critiche, shock
settico e della pancreatite acuta, è anche sede di formazione per i medici
delle Scuole di Specialità: Medicina Interna, Medicina d’Emergenza-Urgenza,
Chirurgia Generale e Dermatologia, e quindi di formazione per studenti della
Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia e della Laurea Infermieristica. È
inoltre dotato del Servizio di assistenza sociale che interviene per i
ricoverati in degenza ordinaria, in collaborazione con il personale sanitario,
per l’agevolazione della fase post-operatoria e dei rapporti con i servizi
territoriali. All’interno dell’ospedale è disponibile l’assistenza spirituale
che comprende la stanza del silenzio: uno spazio da dedicare a tutti, credenti e non
credenti, per pensare, raccogliersi, pregare o consumare un dolore.
Il colloquio con il prof. Montrucchio nel suo
studio non si esaurisce ma prosegue raggiungendo il reparto situato al primo
piano, al seguito suo e dei suoi collaboratori per il giro visita dei
ricoverati. In una stanza di 3 p.l. due medici strutturati e due giovani
specializzandi (al 1° e al 2° anno) stanno commentando il caso clinico di
ciascuno dei tre pazienti di 67, 82 e 88 anni affetti per lo più da patologia
respiratoria ed gastroenterologica. Alternativamente sono presenti infermieri e
Oss per coadiuvare le disposizioni dei clinici che, in questo caso, per il
paziente più anziano è stato predisposto un esame radiografico e quindi deve
essere trasferito in Radiologia. Mentre proseguono le visite, il cui iter
rispecchia un “copione” quotidiano standardizzato in un clima di coordinamento
e perfetta intesa, mi intrattengo con il dott. Paolo Peasso che mi illustra
come si sviluppa una giornata di lavoro in reparto. «Al mattino – spiega – si fa
una prima valutazione dei pazienti: si rilevano le informazioni dalle cartelle
cliniche infermieristiche (situazione del decorso notturno), cui segue un
briefing con i colleghi medici e infermieri. Sulla cartella clinica compare
anche la firma del medico specializzando, e la controfirma del medico
strutturato. Dopo la visita si aggiornano le terapie e si predispongono
eventuali esami diagnostici di approfondimento. Verso le 12.00 viene
distribuito il pasto dalle Oss; nel pomeriggio gli infermieri provvedono alla
somministrazione delle terapie. Alle 19.00 la distribuzione del pasto serale e
successivamente la copertura terapeutica per la notte». Poiché la giornata
vede all’opera anche i medici specializzandi, chiedo quali sonoi limiti della
loro responsabilità in reparto. «Poiché sono
medici abilitati all’esercizio della Medicina svolgono regolare attività
clinica seguiti dal tutoraggio del medico di reparto, ma sono comunque
responsabili dell’atto medico in quanto laureati in Medicina e Chirurgia;
mentre per quanto riguarda la prescrizione dei farmaci la stessa è compito del
medico strutturato». I pazienti come accettano la figura dello
specialzzando “alle prime armi”? «Ai
pazienti viene subito presentato il neo medico spiegando che è abilitato a
frequentare il reparto per conseguire la specialità; solitamente viene accolto
senza alcuna diffidenza..., fermo restando alcune “lievi variabilità” di
atteggiamento legate all’età e alla cultura del paziente che, tutto sommato,
sono per lo più irrilevanti. E se un paziente desidera essere visitato da un
medico uomo e non da una donna medico, si cerca di rispondere all’insolita
“esigenza” compatibilmente con l’organico in servizio». Ma anche in questi
contesti, dove il dialogo fra curante e paziente è spesso determinante, ben si
“impone” quella che oggi si chiama medicina narrativa, un ricorso colloquiale
che talvolta può fare la differenza nell’ottenere una buona compliance del paziente. Anche nel
vostro reparto viene messa in atto? «Noi
cerchiamo di applicarla il più possibile. Per la Medicina Interna in
particolare, che ha una visione più olistica, raccogliere tutti i dati del
paziente facendolo narrare, e ciò è fondamentale; del resto il nostro ruolo si
fonda sulla quotidianità del paziente sin dall’inizio del colloquio
anamnestico, cui segue ovviamente la visita vera e propria e il consenso
informato per quanto riguarda determinate decisioni per esami strumentali e
indicazioni terapeutiche particolari, specie se invasive». Come si è detto
questa S.C. ha una visione olistica delle patologie che sono le più svariate, e
del loro trattamento, tanto da richiedere una particolare preparazione
professionale, talvolta con una buona dose di intuito. E a questo riguardo
quali sono le patologie maggiormente trattate? «Le malattie cardiache, polmonari e dell’apparato gastroenterico in
generale. Ma va detto che la Medicina Interna è caratterizzata soprattutto
dall’età avanzata dei pazienti, alla quale si sovrappone una serie di problemi.
Possono emergere, ad esempio, malattie oncologiche sin dalla prima prima
diagnosi che può essere fatta sia in Pronto Soccorso che qui in reparto (cui
segue il ricovero in oncologia) oppure anche nella fase finale, ossia quando
ogni cura risulta essere inefficace. E questo impegna in modo particolare...».
Non va sottaciuto che il concetto del cosiddetto medico paternalista è superato
anche in ospedale, cui è subentrata la filosofia del medico “consensualista”,
una evoluzione relazionale di non poco conto sia per il rispetto del diritto e
della dignità del paziente che della “serenità interiore” del medico per meglio
rispondere alle aspettative del paziente stesso. E così? «Nella medicina di oggi è fondamentale la condivisione delle scelte, e
ciò se il paziente è informato adeguatamente sia sulla diagnosi che sulle
indicazioni terapeutiche. Da qui la richiesta del cosiddetto “consenso
informato”, trattamento dei dati e a chi dare le informazioni che lo riguardano:
famigliari, tutori legali caregiver, volontari, etc.». Ma una volta dimesso
il paziente può necessitare della continuità assistenziale e quindi dover riprendere
i contatti con il proprio medico di famiglia, il quale ha il dovere di
conoscere l’eventuale decorso post-ricovero ed eventualmente un aggiornamento
terapeutico. Ma è un luogo comune che il medico di famiglia contatti
raramemente il medico ospedaliero, sia durante il ricovero che alle dimissioni
del proprio paziente? «Purtroppo il più
delle volte è così, ma vi sono anche dei medici di famiglia che vengono in
ospedale a vedere i loro pazienti ricoverati; tuttavia permane una certa
difficoltà nell’interazione tra ospedale e territorio, anche se al medico di
medicina generale facciamo pervenire una lettera dettagliata dell’iter clinico:
dal ricovero alla dimissione con eventuali indicazioni per il mantenimento
della terapia». In non pochi casi i pazienti dimessi, proprio per la
continuità di cura, sia sul territorio che in caso di un successivo ricovero in
ospedale, pongono l’esigenza di uno “stretto” rapporto con il Territorio in
generale, sia pur con alcune difficoltà che possono essere superate con
l’ausilio delle assistenti sociali dell’ospedale. Ciò corrisponde ad una realtà
ricorrente? «È fondamentale avere degli
sbocchi e, oltre ai corsi e alle riunioni “di rito” per valutare la
disponibilità del territorio con l’uscita dall’ospedale del paziente, un gruppo
di infermieri e di assistenti sociali vengono quotidianamente in reparto per
stabilire (con un punteggio score) la fragilità del paziente, sia dal punto di
vista assistenziale che famigliare per poter predisporre le opportune indicazioni, come ad
esempio il rientro al proprio domicilio o il ricovero in strutture idonee: Rsa,
per lungo degenza, di sollievo etc.». Si conclude verso le 14.00 questa
mattinata ospedaliera dove ho riscontrato che il medico con la sua formazione
ed esperienza affianca al suo sapere umanità e comprensione, in ossequio alla
sapienza greca la quale affermava che tutta la nostra vita è piena di speranze,
e che la speranza è talvolta anche consolazione naturale che quando siamo
affliti da questa o quella patologia ci spinge a superare la paura, e a sperare
in un bene futuro che rimedi al male che ci ha fatto conoscere un letto di
ospedale per essere curati dal medico strutturato, e magari anche dallo
specializzando in perfetta sintonia.
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