L’INDELEBILE “MISTICO
SEGNO” DI GIACOMO LEOPARDI
Un raffinato
esponente della massima espressione dell’animo romantico
di Ernesto Bodini
È stato uno dei più
grandi poeti di tutti i tempi. Da sempre i giovani (anche quelli di oggi?) sono
stati affascinati dalla sua poesia lirica, attraverso la quale, lui, espresse
il suo mondo e la sua vita, che fu di tristezza e solitudine. A 180 anni dalla
morte (un anniversario... fuori dagli schemi comuni), Giacomo Leopardi, uno
degli uomini più colti del suo tempo, ha lasciato indelebile il segno della
massima conversione letteraria che egli stesso definì passaggio “dall’erudizione al bello” tra il 1815 e
il 1816, anni in cui scoprì Omero, Dante e i classici, che prima disprezzava.
Nacque a Recanati (all’atto di nascita con il nome di Jacobus Taldegardus
Franciscus Sales Xaverius) il 29 giugno 1789, dal conte Monaldo e da Adelaide
Antici una donna che, pur riuscendo a restaurare il dissestato patrimonio
familiare con intelligenza e severità, a causa delle manie di grandezza del
marito, finì per non essere più madre. Gracile di costituzione per l’eccessiva
dedizione agli studi, Giacomo Leopardi ben presto manifestò interesse, oltre
alla poesia, anche per la filologia, le traduzioni, l’approfondimento dei processi
grammaticali, sintattici e metrici, attingendo alla ricchissima biblioteca
paterna (circa 16 mila volumi). Entrato in profonda crisi che confessò a Pietro
Giordani, il primo letterato che gli avesse prestato ascolto e simpatia,
attraverso la stesura di lunghissime lettere che vanno dal 1817 al 1819,
Leopardi raggiunse punte di esasperazione esrema e ciò, anche in seguito ad una
malattia agli occhi che gli vietò persino il conforto della lettura. «Sono stordito dal niente che mi circonda...
– ebbe a scrivere in quell’occasione –. Se
in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder
sempre con gli occhi attoniti, con la bocca aperta, con le mani tra le
ginocchia, senza né ridere, né piangere, né muovermi, altro che per forza, dal
luogo dove mi trovassi». La sua opera poetica coincide con la realtà del
momento, tant’é che nel novembre 1822 il padre acconsentì che si recasse a
Roma. Ma l’incontro con la città gli procurò una forte delusione. Fu
indifferente alla grandiosità dell’urbe, provò fastidio per l’ambiente della
Curia, come pure trovò insopportabili i letterati romani. Fu proprio in questo
periodo che Leopardi scoprì l’inutilità, la vanità delle cose. Scoprendo se
stesso, il poeta ebbe modo di maturare con consapevolezza, occasione in cui la
sua “filosofia” di sapore pessimista, prese il sopravvento.
Nel 1823 tornò a
Recanati, ma due anni dopo ripartì per Milano accettando l’offerta dell’editore
Stella per curare un’edizione delle opere di Cicerone. Nel frattempo compose le
“Operette morali” e fu presente
anche a Bologna, Firenze e Pisa sino al 1828, anni che gli permisero di
conoscere esuli napoletani e di entrare in relazione con il gruppo
dell’Antologia, componendo in quella circostanza il “Risorgimento” e “A Silvia”.
Verso la fine del 1828, le sue condizioni fisiche si aggravarono e, non potendo
più assolvere ad impegni di lavoro, fu costretto a tornare a Recanati, ove
visse il periodo iù cupo e tetro della sua esistenza. Le sue condizioni
economiche, sempre disagiate, ebbero un certo sollievo nel 1832,
dall’istituzione di un piccolo assegno mesile da parte della sua famiglia. La
temporanea presenza a Firenze lo vede vicino ai liberali e partecipe alle loro
riunioni. Il suo nuovo orientamento ha un’evidente testimonianza in “Paralipomeni” e nella “Ginestra”. Tra il 1835 e il 1836,
periodo che pose fine alla speranza di essere corrisposto in amore da Fanny
Targioni Tozzetti, pubblicò l’edizione definitiva dei “Canti” e delle “Operette
morali”, e andò a stabilirsi in una casa tra Torre del Greco e Torre
Annunziata, ove il 14 giugno 1837, assistito dall’amico Antonio Ranieri e dalla
sorella di questi, Paolina (all’ombra di quel Vesuvio che egli aveva tanto
cantato nella Ginestra) la morte lo colse in seguito ad un attacco d’asma.
Tra i Canti più noti del poeta, sono da
annoverare “L’Infinito”, “Canto del
pastore errante dell’Asia” e “Il
tramonto della luna” che è il canto che Leopardi pronuncia proprio nel
momento della morte, del resto avvenuta già prima, quando “la bella giovinezza
sparì”. Non meno interessanti le sue poesie satiriche, come i “Paralipomeni della Batracomiomachia” in
cui il poeta, mentre condanna la tirannide austriaca, ironizza sui vani sforzi
dei patrioti. Nutrito di studi classici, ma destinato a partecipare
drammaticamente a tutta la complessa spiritualità del Romanticismo, il Leopardi
ci ha dato la più classica e profonda espressione dell’animo romantico. Ed è a
ragione, che si può dire che la logorante lotta svoltasi in Europa nel XIX
secolo, è già contenuta nell’opera leopardiana ed esprime in quella, la sua
tragedia, dominata dalle leggi dell’arte. Val qui la pena riproporre L’Infinito dai cui versi ne deriva la
costruzione poetica di un nuovo tipo di misticismo, basato essenzialmente sulla
immedesimazione dell’uomo con l’assolutezza dell’ordine di un universo regolato
da una necessità indifferente ai destini della Persona. E proprio per questo,
recitarli e farli propri, ognuno dovrebbe immedesimarsi nello spirito leopardiano
ma con una visione più ottimistica del futuro e non come una perenne illusione.
(Nella foto in basso la Biblioteca di Casa
Leopardi)
Sempre caro mi fu
quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
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