AMARE
PROSPETTIVE PER L’ANZIANO LAVORATORE
Dalla maturata età
contributiva non priva di sacrificio al rischio di una carenza assistenziale se
andrà incontro ad una o più patologie con lo “spettro” della cronicità
di Ernesto Bodini
Le statistiche ci
dicono che la nostra età media è in continua ascesa e, secondo gli esponenti che
ci rappresentano, probabilmente si dovrà lavorare più o meno sino a 70 anni. Al
di là dei conti Inps e Ministero del Lavoro, le prospettive sono sempre meno
rosee sia perché si supereranno (crisi permettendo) i 45 anni di lavoro e
quindi di durata contributiva prima di avere la pensione, sia perché il lavoratore ultra 65enne avrà molte
probabilità di contrarre una o più patologie verosimilmente correlate all’età,
senza contare eventuali rischi professionali o di altra natura. Ora, volendo fare una breve
analisi, sia pur da non esperto, va ricordato che oltre vent’anni fa le scienze
mediche, sociologiche ed economico-statistiche predissero (più o meno
palesemente) che la nostra popolazione sarebbe andata incontro ad un sensibile
incremento dell’età media (oggi 84,5 anni per le donne e 79 anni per gli
uomini), ma non mi pare di aver letto da alcuna fonte che tale ascesa avrebbe comportato un eventuale incremento delle patologie senili, e magari
ancora in età di lavoro, tant’é che nessuna condotta politica si preoccupò di
investire in prevenzione per queste fasce di età; mentre, sia pur tra corsi e
ricorsi e rimandi, si è privilegiata la prevenzione delle malattie prenatali
e neonatali, grazie al contributo di molti privati che hanno sostenuto (e
sostengono) la ricerca scientifica, mentre lo Stato a riguardo non ha mai investito più dell’1%
del Pil. Ora, se la prevenzione ha un senso reale, è bene considerarla in ambo
i casi ma lo Stato italiano (va detto fuori dai denti) non solo non ha preso in
considerazione l’evoluzione dell’età senile, ma continua a considerare con
scarsissima attenzione i bisogni (molteplici) delle persone che, superata una
certa soglia anagrafica, nella maggior parte si trovano oggi (e si troveranno
domani) nella necessità di assistenza sia in fase di ricovero territoriale che
domiciliare, poiché la cronicità la farà da padrone...
In Italia la
percentuale di “over 65” sul totale della popolazione è pari al 21,2% dal
conseguente aumento dell’incidenza delle malattie croniche e dal permanere di
differenze assistenziali nelle singole realtà regionali. Quindi, l’osservazione
di questa emergenza è sull’età media ma anche sulla insufficiente prevenzione.
Diventa pertanto impegnativo seguire in modo strutturato soprattutto a
domicilio questi pazienti, individuando in primis la priorità di intervento
ponendo particolare attenzione in quanto la disabilità è insita nella
condizione umana, particolarmente fragile e spesso esposta ad imprevisti. Va da
sé che il medico di famiglia, una volta attivata l’ADI (assistenza domiciliare
integrata) dovrà tener conto delle diverse competenze specialistiche e
professionali coinvolte nel processo di cura per il sovrapporsi di patologie diverse, di funzioni lese o compromesse, o di
problematiche socio-assistenziali sulla adeguata e specifica condizione clinica
(vedasi il Piano Nazionale Cronicità). Ed è a questo punto che la figura del
caregiver (solitamente un famigliare) svolge un ruolo di notevole importanza
per l’assistenza continua al malato cronico allettato, magari affetto da più
patologie. Ma in non pochi casi il caregiver non ha le conoscenze necessarie
medico-sanitarie o di pratica infermieristica, tali da garantire una adeguata
assistenza continuativa al proprio congiunto o assistito. Spesso l’aiuto che il
caregiver riceve dall’assistenza domiciliare (ADI-ADP) e/o dai Servizi Sociali
della propria Asl, è di “routine” e talvolta marginale rispetto alle esigenze
quotidiane del paziente, ancor più impegnative se lo stesso è affetto da
comorbilità e allettato. Ma il più delle volte l’assistenza è basata
sull’intuizione e non poca apprensione, intervenendo magari in modo non
appropriato. E questo comporta la necessità di rivolgersi al medico di base,
escludendo magari la necessaria ricerca del medico specialista preposto a
“risanare” una situazione clinica in corso di aggravamento.
Ecco che la famiglia
(e a volte il volontariato) resta di fatto il “facilitatore di maggior peso”, e
questo perché non sempre riesce ad avere accesso ai Servizi, ed è inevitabile
che sulle famiglie ricada un carico di cura e assistenza gravoso e
insostenibile col tempo: da qui la figura del caregiver (genericamente definito
come “dono della cura e dell’assistenza), ossia il prendersi carico, da parte
di una o più persone, di un’altra che necessita assistenza... Ma il “peso
dell’assistenza” percepito dal caregiver spesso si traduce in disagio
psicologico, ansia, stress, depressione e malessere fisico proprio per
l’eccessivo carico che investe i vari aspetti di ordine sociale ed economico
dell’assistenza, se non anche relazionale... È comunque risaputo che amicizie
costruttive, una rete sociale di supporto alla famiglia, servizi sociali e
sanitari adeguati, contribuiscono alla resilienza in quanto possono
controbilanciare gli effetti negativi di una condizione problematica come ad
esempio una malattia cronica. Ed è quindi indispensabile predisporre ogni
iniziativa in grado di rispondere ai bisogni, garantendo la continuità delle
cure possibilmente anche al domicilio del paziente: non c’é soltanto bisogno di
amore e di buona volontà nella stanza di un ammalato, ma anche di conoscenza ed
esperienza. Ed è altrettanto risaputo che l’ambiente ottimale è la famiglia e
che in seno ad essa si impara ad accogliere il dono prezioso della vita e a
viverla, si acquista il coraggio di superare le difficoltà, come ad esempio la
sofferenza: nella famiglia e nella comunità si sviluppa la comprensione verso
quelli che soffrono, da parte dei congiunti caregiver e non.
Per quanto riguarda la
realtà piemontese, mi consta, la rete formale è talvolta carente dal punto di
vista organizzativo e i professionisti (specialisti in particolare) non sempre
sono adeguatamente formati, con la conseguenza che confusione e stress nel
caregiver hanno il sopravvento, tanto da essere disorientato nel labirinto di
Servizi poco integrati e non sempre collaboranti l’uno con l’altro... men che
meno con il caregiver. Ecco che una migliore comprensione del fenomeno da parte
delle figure sanitarie preposte potrebbe ridurre sensibilmente il carico emotivo e assistenziale del caregiver e,
il medico di famiglia (MMG), potrebbe essere la prima figura di indirizzo quale
“facilitatore” per il supporto psico-educativo e programmatico per una migliore
assistenza del paziente cronico domiciliare. Nell’ambito della cronicità la
cura volta come healing (guarigione) da parte del MMG può aiutare il paziente
ad affrontare la minaccia della “disintegrazione”, recuperando il senso di
connessione con il suo mondo e, per quanto possibile, il contatto su di esso.
Intesa in questo senso la cura non perde il suo significato; anzi, lo rafforza
proprio nei casi di malattie croniche o terminali. Da questa esposizione mi sovviene la seguente riflessione.
Analizzare le criticità della Sanità in questi contesti, significa individuare
fondamentalmente due cose: i problemi e le contraddizioni e/o incongruenze. I
problemi si risolvono, le contraddizioni e/o incongruenze si rimuovono. Con la
soluzione dei primi si migliora lo stato delle cose, con la rimozione dei
secondi si cambia lo stato delle cose. Ma ciò è possibile se i governanti di turno
non si trincerano dietro alle solite giustificazioni: spending riview,
obiettivi da raggiungere, impossibilità dei tournover, cambio di poltrone, responsabilità cadute in prescrizione, etc.
Del resto, la retorica e l’ipocrisia sono i “classici” presupposti della
disonestà intellettuale.
Le immagini sono tratte dai siti: wwwottopagine.it e www.caregiverfamiliare.it
Commenti
Posta un commento