GRAZIANO:
SENSIBILITÀ E PRONTEZZA DI UN HANDICAPPATO
Quando la “diversità” è sinonimo di
“normalità”
di Ernesto Bodini
Il treno, dopo una
lunga corsa da Torino, quasi stanco si era fermato alla stazione. Parma era lì,
pronta ad accogliermi con la sue bellezze, la sua gente, i vecchi amici, le
antiche e sempre presenti sofferenze. Non ricordo bene, ma mi sembra di essere
stato l’ultimo a scendere dal treno, sempre per via della mia gamba destra che
da anni la poliomielite mi ha reso claudicante. Con il bagaglio mi avviai
all’uscita pensando che tra non molto avrei rivissuto i ricordi gioiosi e
tristi della mia adolescenza. Immerso in questi pensieri, fui distolto dal
suono del clacson di un’auto ed istintivamente alzai lo sguardo. Il caro amico
Giancarlo, seduto al volante, mi sorrideva. “Sali – mi disse –, sapevo
che saresti arrivato”. Gli diedi una pacca sulla spalla per ringraziarlo
perché in quell’istante nessuna parola avrebbe potuto mostrargli la
riconoscenza e l’affetto fraterno, anche perché mi sentivo quasi bloccato
dall’emozione. Poi raccontai del viaggio ed insieme ci avviammo verso
l’istituto “Don Gnocchi”. Osservavo la gente dal finestrino nella speranza di
vedere qualche viso conosciuto: mi domandavo se Franco, Luigi, Antonio ed altri
ancora fossero già arrivati. Fra poco l’avrei saputo. L’automobile si era
intanto fermata davanti all’ingresso dell’istituto. «Salutami tua moglie e…
grazie ancora – dissi –; fatti sentire» – aggiunsi. E con un gesto
della mano lo salutai ed entrai, preceduto da un ragazzo che non mi sembrava di
conoscere. Incuriosito da quel nuovo viso che esprimeva tristezza e sgomento,
mi avvicinai fermandolo per chiedergli come si chiamasse. Un po’ spaventato
disse balbettando: «Mi chiamo Graziano, e tu come ti chiami?». «Ernesto»
dissi. Il suo stupore mi incuriosì, come pure la sua incertezza, e per metterlo
a suo agio dissi: «Sono un ex allievo del “Don Gnocchi”, e come tutti gli
anni sono tornato a Parma per le cure fisioterapiche che mi giovano nella
deambulazione». Con questa breve spiegazione, espressa in modo cordiale ed
affettuoso, ero riuscito a strappargli un accenno di sorriso, ma nei suoi occhi
notavo ugualmente che qualcosa lo turbava.
Dopo aver ricevuto il
benvenuto dal direttore, ci avviammo in refettorio, prendendo posto l’uno di
fronte all’altro. Mentre mangiavo, osservavo Graziano nei suoi movimenti un po’
impacciati. Notavo che faceva fatica e nello stesso tempo cercava di imitarmi,
guardandomi sottecchi. Non riuscivo a capire se il suo fissarmi a tratti fosse
dovuto a desiderio di imparare oppure perché era ancora stupito della
cordialità che avevo subito mostrata nei suoi confronti. I giorni trascorsero
veloci, l’impegno delle cure riabilitative assorbivano gran parte della mia
mattinata, dopo le quali trovavo brevi spazi per intrattenermi con altri amici,
in parte vecchie conoscenze ed in parte nuovi, perché giovani. Parlando con
loro, venivo a conoscenza delle più svariate infermità, che per la maggioranza
rasentavano particolari gravità; non di meno si presentava l’occasione di
venire a conoscenza dei loro problemi di carattere psicologico e dei loro
conflitti interiori. Il pomeriggio trascorreva nell’impegno organizzativo di
uno spettacolo musicale. Tale preparazione mi occupava anche alla sera dopo
cena, e fu con mio vivo stupore che mi accorsi della presenza di Graziano, il
quale era desideroso di fare qualcosa che fosse utile alla organizzazione, ad
esempio controllare e regolare la sintonia ed i toni degli amplificatori. Più
era assidua la sua presenza accanto a me e più crescevano i dubbi sul tipo di
handicap di quel ragazzo tanto bravo e mite. La mia curiosità fu appagata,
quando una sera dopo la solita prova musicale, mi accorsi che Graziano sedeva
in un angolo della platea con il capo reclinato su petto. Avvicinandomi, udivo
sempre più chiaro un gemito: «Cos’hai da piangere?» gli domandai. Dopo
aver ripetuto la domanda, Graziano mi guardò con occhi profondi e con voce
tremante mi rispose: «Stavo pensando alla mamma che è morta l’anno scorso».
Rimasi addolorato e cercai di rincuorarlo, invitandolo dolcemente a distrarsi;
almeno finché fosse restato in mia compagnia per tutto il periodo che mi sarei
trattenuto a Parma. Nel silenzio udivo il respiro affannoso di Graziano. Egli
sembrò accogliere con gratitudine le mie parole e dopo qualche minuto,
lentamente, alzò il capo e stringendomi un braccio con forza, mi guardò
commosso. La sua espressione, stravolta dal dolore, mi diede conferma che
quegli occhi leggermente a mandorla e la pettinatura a caschetto erano le
caratteristiche tipiche della sindrome di Down.
I preparativi
continuarono e giunse il giorno dello spettacolo. Con il pulmino dell’istituto,
accompagnati dal direttore, ci recammo in una località fuori Parma. Con me,
oltre a Graziano, erano altri tre ragazzi dell’istituto ed il complesso da me
formato in precedenza, complesso che avrebbe allietato il programma. La
manifestazione avvenne presso la sede di un circolo aziendale, in occasione
della sua inaugurazione. La calorosa accoglienza degli invitati contribuì a
rassicurarci sulla riuscita della nostra esibizione, anche perché altre
formazioni musicali avevano aderito all’invito e si sarebbero esibite dopo di
noi. La sala era gremita. La gente ascoltava con attenzione la musica del
complesso che in quel momento si stava esibendo. Gli addetti al suono si
aggiravano fra amplificatori e cavi elettrici che si intrecciavano sul palco
tra i piedi dei suonatori, i quali di tanto in tanto scalciavano per
allontanarli. Il chitarrista del primo complesso, non riuscendo a spostare un
cavo, si chinò afferrandolo con la mano e, immediatamente, un urlo lacerò la
sala. La musica cessò. Gianni, così si chiamava, si agitava sul palco. Dalla
sua bocca spalancata uscivano dei lamenti, mentre il viso diventava sempre più
pallido per la sofferenza ed il terrore. Impietrito, io guardavo Gianni che
roteava il braccio per liberarsi dal cavo al quale era attaccato e che
l’avrebbe portato a morte certa. Alcune sedie in prima fila si rovesciarono a
causa dello scompiglio che si era creato e qualcuno gridò: «Fate qualcosa!».
Cercai Graziano con lo sguardo, perché temevo che anche lui potesse essere in
pericolo. Lo vidi affrettarsi verso l’interruttore del contatore. Per un attimo
lo osservò, guardò nuovamente Gianni, e poi con decisione premette il pulsante
interrompendo il circuito elettrico. Il cavo si staccò, cadendo, mentre un silenzio
colmo di sollievo scese attorno. Superato lo spavento, tutti osservammo Gianni
che massaggiandosi il braccio, con voce roca mormorava: «Grazie gente,
grazie». «È stato Graziano, quel ragazzo laggiù» dissi emozionato,
indicando un angolo del palco. Le occhiate di tutti gli astanti si volsero in
quella direzione. Graziano era ancora fermo vicino al quadro dei comandi
elettrici e con aria fiera sorrideva. Da quel momento il bisbigliare fu una
cosa unica che si prolungò. I commenti si fecero sempre più intensi, la gente
esprimeva stupore per la prontezza di spirito dimostrata in quel frangente da
un ragazzo affetto da una così grave disabilità. Anch’io in cuor mio mi
risentii della insensibilità della gente che si era meravigliata in quando un
handicappato psico-fisico era intervenuto con prontezza a risolvere un caso che
un congruo numero di persone “normali” non aveva saputo affrontare.
Da parte mia ho avuto
modo di essere presente ad esperienze che mi hanno dimostrato l’insensibilità
del prossimo, con la sostanziale differenza però di essere riuscito a superare
questi ostacoli, grazie all’educazione familiare che mi ha incoraggiato ed
insegnato a combattere per i miei diritti e per quelli dei miei simili. Le
persone con deficit psico-fisico, oltre alle caratteristiche della patologia,
sovente hanno carenze sul piano fisico e andrebbero particolarmente seguite sul
piano affettivo e della massima considerazione. Purtroppo questo si verifica di
rado in quanto le famiglie, specie se di origini modeste e di pochi mezzi,
talvolta tendono a ad “emarginarli” ed a disinteressarsene. La società nei loro
riguardi si mostra quasi sempre ostile, quasi a non voler tollerare gli
handicappati (soprattutto se affetti da deficit mentale), sia per motivi di
egoismo e per mancanza di interiorità, sia perché considera gli stessi un peso
eccessivo per il necessario e palese bisogno di assistenza. Come ha potuto
dimostrare il caso di Graziano. Inoltre, gli organi competenti non fanno molto
di più in quanto sono spesso in gioco ragioni politico-economiche e… di
immagine. E molto tempo che non vedo Graziano (oggi quasi cinquant’enne), ma
conservo il ricordo di questa esperienza come “maestra” di vita, ma soprattutto
della sua persona, sensibile e mite, capace di trasmettere (sia pur istintivamente)
esempi di bontà e manifestazione di affetto che spesso sono propri di chi la
Natura ha reso meno fortunati…
Foto in alto l'ingresso dell'Istituto di Parma
Commenti
Posta un commento