L’UMANITÀ E IL SUO AGIRE
Prevenzione, punizione e rieducazione non sono mai
sinonimi a discapito della obiettività con il risultato di una popolazione
carceraria sempre in crescita, che comprende anche detenuti innocenti: oltre 24 mila nell’ultimo
ventennio
di Ernesto Bodini
Pur
non volendo peccare di retorica va sottolineato che il genere umano sin dalla
sua comparsa è sempre stato contraddistinto dal suo agire in bene e in male
verso i propri simili; ed ogni epoca ha richiesto la necessità di creare le
cosiddette patrie galere. Ma con quali risultati? Non è il caso di “sconfinare”
e per una riflessione sarebbe sufficiente soffermarci sulla realtà italiana.
Infatti, da una recente analisi, le carceri nel nostro Paese non godono di
buona salute, nonostante il tanto invocato (e non rispettato) art. 27 della
Costituzione che testualmente enuncia: «Le pene (...) devono tendere alla rieducazione del condannato», così sancendo il
principio del finalismo rieducativo della pena, la cui giustificazione etica e
logica, evidentemente, non può non fare riferimento alle specifiche esigenze della
rieducazione e risocializzazione del condannato. Ma di fatto pare che non sia
così perché, secondo i dati del Dossier “Dentro
o fuori” (pubblicato da Openpolis), l’Italia è sesta in Europa per
sovraffollamento, con un tasso del 109% in alcuni istituti; e su un totale di
54.000 detenuti, gli stranieri sono quasi il 34%, mentre 18.500 sono reclusi in
attesa di giudizio definitivo, di cui la metà in attesa di primo giudizio. Ed
ancora. Dal 2000 ad oggi i detenuti con più di 70 anni di età sono aumentati di
oltre l’80%; per non parlare del problema della recidiva che, secondo una ricerca
commissionata dal Ministero di Giustizia, nel 2007 il tasso dei recidivi era
pari al 68%, contro solo il 19% di chi aveva scontato la pena ai servizi
sociali; meno del 30% dei detenuti lavora in carcere e, a riguardo, va
precisato che i lavori di pubblica utilità sono usati solo per le violazioni
del Codice della Strada, e non come reale alternativa al carcere per altri
reati. Infine, in carcere si continua a morire: dal 2000 ad oggi annualmente i
suicidi sono stati da un minimo di 43 a un massimno di 72; un dato reso ancor
più inquietante se si considera che 23 detenuti si sono tolti la vita nei soli
primi sei mesi del 2016. Ma il dramma delle carceri italiane va ben oltre considerando
(con maggior interesse sociologico ed umano) che dal 2000 ad oggi sono 24.000 i
detenuti innocenti per errori giudiziari. Una sorta di ecatombe che grida
giustizia sino ai settimi cieli, anche perché oltre al danno psico-fisico
patito questi cittadini hanno estrema difficoltà nel dimostrare la propria
innocenza (specie se non in grado di assumersi un avvocato personale), per non
parlare poi del non sempre equo risarcimento (stabilito per legge) e i
gravissimi postumi della lesa loro dignità umana. Una realtà, questa, che ci
riporta a paragonare questi detenuti alla schiavitù in versione... moderna in
quanto il cosiddetto “acquirente” non è il “padre-padrone”, bensì lo Stato!
Per richiamare l’attenzione su questo fenomeno
che dovrebbe essere ben lontano dai nostri tempi, ci ha “pensat0” la Rai TRE
che ogni sabato alle ore 21,15 (dal 7 gennaio scorso e per dieci puntate) manda
in onda il programma “Sono innocente”,
condotto dal giornalista Alberto Matano (vedi
foto) e con la regia di Alessandro
Tresa. Circa due ore per raccontare gli errori giudiziari e le traversie delle
persone che sono state coinvolte (dall’arresto alla detenzione) dal quel Sistema Giudiziario che presenta non
poche lacune in fatto di obiettività e rispetto umano. Un fenomeno che rappresenta
ancora un tabù e quindi ben venga la conoscenza di questi “casi” che non
possono che toccare l’animo, magari con il proposito di risvegliare quelle
coscienze che sono da sempre sopite per indifferenza ed... egoismo: «... tanto non può capitare a me perchè non ho
commesso nulla di illegale». Un auto-conforto che si contraddice quando
l’evento tocca proprio la persona onesta. Le vicende affrontate da Rai 3 sono
particolarmente significative perchè riguardano generalmente persone comuni: «Vivere l’esperienza del carcere – è
l’introduzione al programma di Matano – ti
cambia la vita ancora di più quando non sei colpevole... Il dramma e il
riscatto di uomini e donne accusati
ingiustamente, storie di persone che da una vita normale e tranquilla si
trovano catapultate in un vero e proprio incubo, ossia la realtà cruda,
difficile del carcere... ». Nomi e cognomi, poi l’inversione di marcia: «...
ci siamo sbagliati, siete liberi». E
questo perché frutto di valutazioni, giudizi e sentenze talvolta avventate da
parte di giudici, giurie in collaborazione con medici psichiatri, psicologi,
criminologi; figure, queste, che si accingono a “modificare” il destino di più
persone. Se è vero che un errore giudiziario rappresenta l’angoscia del
magistrato, soprattutto quando investe la libertà della persona, è bene che tale
rappresentante della Giustizia si immedesimi il più possibile nella sofferenza
di colui o coloro che giudicheranno essere colpevoli... (ma che in realtà non
lo sono), magari per delazione di qualche pentito. La somma delle inefficienze
della nostra legislazione (ieri come oggi), che per non smentirsi non risparmia
neppure la “categoria” dei pentiti, non certo è priva di fratture e debolezze
al suo interno, tanto che a Lucca corre un vecchio detto: “Se i pentimenti fossero camicie, uno avrebbe un bel guardaroba”. A
rafforzare l’esigenza di ben valutare la considerazione dei pentiti, il
principe del Foro milanese, il penalista Agostino Viviani (1911-2009), in
occasione di una conferenza tenuta a Torino, ebbe a precisare: «Tra questi individui non c’é quasi mai
chiarezza per stabilire la sincerità del pentimento; una condizione questa, che
non di rado trascende in veri e propri atti d’accusa e di delazione per
salvarsi o trarre qualunque tipo di vantaggio...». I giudici dovrebbero
permettere una lunga disamina su come devono essere utilizzate le dichiarazioni
dei collaboratori di giustizia (“pentiti”); in pratica non basta che dicano
cose coerenti e che si confermino tra di loro, ci vuole anche un riscontro,
qualche cosa che somigli a una prova. Ma purtroppo, in quei 24 mila errori
giudiziari commessi in quest’ultimo ventennio, come dimostra anche la
trasmissione di Rai3, la voce del pentito si è resa inaffidabile. E ciò induce
ai seguenti quesiti.
Pur nel rispetto del Codici, come attuare con
maggior certezza le modalità per giudicare una persona “sospettata” di aver
commesso un reato? E quali garanzie riservare alla stessa? A mio avviso credo
che non siano sufficienti le procedure di indagine e le eventuali
testimonianze, e la saggezza vuole che anche nel minimo dubbio la persona indagata e/o sospettata debba
godere della incolumità, in caso contrario si incrementerebbe l’elenco delle
persone detenute innocenti. In tal senso il richiamo è al principio della
libertà e dell’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla Legge, un progresso
sociale tanto invocato da Voltaire (Francois Marie-Arouet: 1694-1778) e
Montesquieu (Charles-Luis de Secondat: 1689-1755); come pure il Movimento
riformatore di Beccaria (Cesare Bonesana, marchese di Beccaria: 1738-1794), la
cui opera “Dei delitti e delle pene”
influenzò sin dal XVIII secolo le riforme delle legislazioni penali di numerosi
Stati italiani ed europei, fondandosi sui concetti di dignità umana e certezza
del diritto, ove si precisa che la figura del (reale) criminale è quella di un
individuo dotato di assoluto libero arbitrio, capace di autodeterminarsi, non
condizionato da influenze socio-ambientali, né da proprie motivazioni
psicologiche. Oggi, questa valutazione è sicuramente mutata nel tempo e le
migliaia di persone perseguite e detenute innocenti ne sono una prova. Senza
andare oltre, e in “difesa” della dignità di queste ultime, come biografo e
divulgatore credo sia saggio considerare quanto sosteneva il filosofo alsaziano
Albert Schweitzer (1875-1965): «Non si ha
il diritto di indagare nell’intimo degli altri. Il voler analizzare i
sentimenti del prossimo è indelicato. Non c’èsolo un pudore del corpo, esiste
anche quello dell’animo che bisogna rispettare. Anche l’animo ha i suoi veli,
dei quali non ci si deve liberare». E gli ospiti come quelli della
trasmissione di Matano hanno ben ragione di gridare: «Sono innocente!».
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