LA MONTAGNA COINVOLGENTE ATTRAZIONE
PER ESPERTI E SEMPLICI APPASSIONATI
Importante ed utile la conoscenza anche dei rischi
soprattutto per i soggetti
maggiormente a rischio, avvalendosi dei consigli
del proprio medico di famiglia
di Ernesto Bodini
La montagna può voler dire molte cose: un rilievo di 1.500 metri come una
imponente vetta di 8.000 metri. In montagna può andare chiunque: l’alpinista,
il provetto arrampicatore, lo scalatore di professione, la persona anziana, il
bambino, e anche chi è affetto da patologie croniche. Ma proprio tutti possono
andare in montagna, ed eventualmente con quali limiti? Da sempre, si sa, che
respirare aria di montagna (lontani dallo smog delle città e da ogni altra
fonte analoga e lesiva al nostro organismo) è salutare, ma per rispondere al meglio
a queste domande la competenza è della “Medicina della Montagna”, una
disciplina (iperspecialistica) in grado di intervenire anche nei riguardi di
chi si avventura per scalate più o meno impegnative. E però evidente che anche
in questo specifico settore sono necessarie competenze ed esperienza tali da
garantire cure ed assistenza adeguate. Infatti, sono sempre più numerosi gli
appassionati della montagna che per vacanza o lavoro si recano a media e alte
quote. Solitamente prima di inerpicarsi o di scalare quelle che possiamo
definire “i tetti del mondo”, molti si rivolgono (o dovrebbero) al medico di
medicina generale (MMG) per avere consigli su igiene, prevenzione e cura delle
principali patologie legate, ad esempio, all’ipossia (carenza di ossigeno nell’organismo)
e ad altri fattori climatici della montagna (freddo, irradiazione solare,
etc.).
«L’esposizione all’ipossia acuta – spiega in un articolo (su Torino
Medica, 11/2011) il dott. Enrico Donegani, dell’Union Internationale des
Association d’Alpinisme e Club ARC ALPIN (CAI e UIAA e AA) – produce
numerosi effetti sull’organismo di un individuo normale, espressione di un
complesso processo di immediato adattamento e di un successivo più lungo
processo di acclimatazione che consente la sopravvivenza duratura in condizioni
estreme. Esistono comunque notevoli variabilità individuali nella risposta
dell’organismo all’alta quota». Infatti, l’ipossia non è la sola variabile
ambientale dell’alta quota, in quanto bisogna considerare anche il freddo (la
temperatura si riduce di circa 0.65C° per ogni 100 metri di quota), la bassa
umidità, il vento e l’aumento delle radiazioni solari; considerando inoltre che
in montagna si fanno sforzi talvolta fuori della normale attività fisica cui il
proprio organismo è abituato. «I primi effetti patologici legati all’alta
quota – sottolinea il clinico, che è anche cardiochirurgo – si
presentano al di sopra dei 3.000 metri, dove la saturazione di O2 (formula
chimica dell’ossigeno molecolare, ndr) diventa inferiore al 90% e
dove possono manifestarsi aspetti patologici comunemente definiti “mal di
montagna”, alcuni dei quali anche gravi, meglio definiti con il termine di
“ipobaropatie”. Il rischio che compaiano questi problemi aumenta con il
progredire della quota, ma alcuni individui particolarmente suscettibili
possono accusarli anche a quote relativamente basse: 2.500 metri». Va anche
detto che esiste una forma acuta di mal di montagna ed una cronica: quella
acuta è di maggior interesse in quanto colpisce i frequentatori occasionali
della montagna (alpinisti, scalatori, sciatori, etc,), mentre la forma cronica
interessa i residenti in alta quota oppure quelli che, per motivi di studio o
lavoro, stazionano per lunghi periodi in altitudine. «Data l’incidenza
relativamente alta di queste malattie d’alta quota – suggerisce il dott.
Donegani – anche alle quote comunemente accessibili sulle nostre montagne e
la frequente impossibilità di assistenza medica, i medici e gli appassionati di
montagna devono capire i rischi, riconoscerne i sintomi ed essere informati sui
principi basilari del trattamento e della prevenzione di queste malattie». È
in dubbio che la montagna non è solo passione, sport e cultura; a volte può
essere semplice curiosità nell’approcciare un ambiente ricco di fascino per la
sua naturale maestosità che, per certi versi, può ricondurci all’esistenza del
Creato. Un fascino per taluni magari indescrivibile, per altri di totale
coinvolgimento tanto da esserne rapiti ed elevati a catarsi. Ma avvicinarsi
alla montagna, per quanto raro, talvolta è azzardato specie se non si hanno le
necessarie conoscenze e, ancor più raramente, se per mera cupidigia come ci
ricorda il famoso film “La montagna” del 1956 diretto da Edward Dmytryk,
tratto dal romanzo “La neve a lutto” di Henry Troyat, a sua volta
ispirato al disastro aereo del “Malabar Princess” del 1950.
La trama del film, interpretato da Spencer Tracy (Zaccaria Teller) e da
Robert Wagner (Cristoforo Teller) narra la drammaticità nel corso di una sorta
di escursione in cui Zaccaria, ex guida alpina, che ha smesso il mestiere anni
prima, da quando un turista è morto durante un’ascensione insieme a lui, vive
con il giovane fratello (“Cris”), che non sa rassegnarsi alla loro povera esistenza.
Cade un aereo sulle montagne, e la spedizione di soccorso rientra dopo aver
perduto il capo cordata. Cris ha l’idea di tentare l’ascesa dal lato sud per
raggiungere il relitto e saccheggiare oro, denaro e gioielli; Zaccaria rifiuta
di accompagnarlo, poi, preoccupato dell’incolumità del fratello deciso a
partire comunque, si lascia convincere. Il giorno dopo i due iniziano la
salita, con Zaccaria come primo di cordata; la salita si rivela difficile, vi
sono alcuni incidenti, ma alla fine i due fratelli raggiungono la cresta della
sommità, ed infine il relitto. Mentre fruga alla ricerca di valori Cris trova
una ragazza indiana che è sopravvissuta all’impatto; Zaccaria decide di tentare
di portarla a valle, contro il parere di Cris, che teme che la loro spedizione
di saccheggio venga scoperta. I fratelli bivaccano nel relitto dell’aereo,
mentre infuria la tormenta; il giorno dopo Zaccaria prepara una slitta
improvvisata per la ragazza, ma Cris lo allontana e tenta di strangolare la
sopravvissuta: ne segue una lotta tra i due fratelli, in cui il più anziano ha
la meglio. Sfruttando il fatto che la tormenta ha migliorato la tenuta della
neve, Zaccaria inizia la discesa lungo il ghiacciaio del versante nord,
con la ragazza sulla slitta; Cris, recuperate borse di valori e macchine
fotografiche, lo segue, senza però riuscire a raggiungerlo. Giunti alla
crepaccia terminale del ghiacciaio, Zaccaria e la ragazza riescono a passare su
un ponte di neve instabile, che crolla subito dopo il loro passaggio; Cris, giunto
poco dopo, tenta di passare su un altro ponte di neve, che però non ne regge il
peso, facendolo cadere nel fondo del crepaccio. Zaccaria riesce ad arrivare al
villaggio con la ragazza in braccio. Viene interrogato sull’accaduto dai
compaesani e dai rappresentanti delle forze dell’ordine, a cui dà una versione
esattamente opposta a quello che è realmente successo: ovvero, che l’idea di
salire al saccheggio era stata sua, mentre Cris aveva cercato di dissuaderlo;
che Cris aveva voluto salvare la ragazza, mentre lui si opponeva; e che Cris,
soprattutto, era “un galantuomo”. Nessuno però sembra credergli.
Il dramma di questo racconto, peraltro contornato da una splendida
scenografia, induce a considerare che l’approccio alla montagna è talvolta
inevitabile tanto da essere fuori del tempo: il tempo della montagna non ha
lancette che scorrono perché essa è sempre lì che aspetta, immobile e
dominante, pronta ad accogliere l’appassionato, lo sportivo, il vacanziero e…
l’inesperto per essere ammirata, e soprattutto rispettata per cogliere l’eco
delle voci di chi la vuole conquistare nel rigoroso rispetto della prudenza e
del buon senso. La Medicina farà il resto.
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