BURNOUT UN MALESSERE PSICOSOCIALE
È una patologia che interessa operatori in diverse
discipline professionali, il cui denominatore comune è una sofferenza
psicofisica che merita la massima considerazione in qualunque contesto
lavorativo e di relazioni sociali.
di Ernesto
Bodini
È indubbio che curare
gli altri “fa male”, tanto da incorrere in vari disturbi come la depressione,
l’abuso di psicofarmaci, l’apatia per il proprio lavoro o anche l’abbandono
dello stesso. Ed è altrettanto noto che gli operatori più colpiti dalla Sindrome
di burnout (dall’italiano “bruciato”) sono soprattutto gli operatori
sanitari, in particolare chi lavora in Oncologia medica, nelle Rianimazioni, in
Chirurgia d’urgenza (P.S.), nei reparti e/o ambulatori di Psichiatria. Tale
sindrome consiste in un esaurimento delle emozioni e in una riduzione delle
capacità professionali che si esprimono in una serie di sintomi: somatizzazioni,
apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, propensione agli incidenti, etc.,
il cui approfondimento è certamente di competenza degli esperti in materia.
Personalmente, quale divulgatore medico-scientifico, vivendo a volte in diretta
l’esperienza con i sanitari, ho potuto constatare alcuni casi (sia pur non
conclamati), oltre ad aver pubblicato qualche anno fa un’inchiesta sul problema
di quando il medico si ammala, ovvero quando “passa dall’altra parte”;
esperienze dai tratti significativi sia dal punto di vista delle patologie che
dei risvolti psicologici che hanno coinvolto i vari “protagonisti” colpiti da
patologie importanti, che probabilmente in alcuni casi si sono intensificate a
causa di stress... se non addirittura per pregressi episodi di burnout. Il termine
burnout è apparso la prima volta nel mondo dello sport verso il 1930, per
indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori
risultati dalle sue performances e/o mantenere quelli acquisiti. E proprio in
questo ambito tale disturbo è “attivato” dallo svolgimento di un’attività
sportiva tale da impegnare l’atleta nel corpo, nella mente e nello spirito, e
che superata una certa soglia, determina lo stato di esaurimento psicofisico ed
emozionale. Ma è solo dagli anni ’70 che questa sindrome trova riscontro
(soprattutto negli Stati Uniti), in riferimento alla sua manifestazione e
quindi in aiuto a soggetti impegnati in diverse professioni molto stressanti e
a costante rapporto con il pubblico, alle sue richieste e alle sue valutazioni
che in molti casi diventa un giudizio: medici, infermieri, poliziotti, vigili
del fuoco, assistenti sociali, insegnanti, psicologi, psicoterapeuti,
assistenti domiciliari, educatori di comunità per disabili, ma anche i
caregiver che assistono un malato cronico spesso grave. Le conseguenze del burnout
coinvolgono profondamente l’operatore o il professionista, la sua Famiglia e,
inevitabilmente, stati d’animo di conflitto
ricadono anche sugli assistiti.
Uno dei più autorevoli
esperti in materia è Christina Maslach (1946), professore emerito di Psicologia presso
l’Università della California a Berkeley. Nel 1967 ha ricevuto la sua bachelor degree
(“cum laude”) nelle relazioni sociali all’Harvard-Radcliffe College nel 1967, e
nel 1971 le è stato riconosciuto il Dottorato di Ricerca in Psicologia presso
la Stanford University (California). Da allora ad oggi ha svolto una intensa attività
di ricerca in differenti aree all’interno della psicologia sociale e sanitaria.
Ma è ancor meglio conosciuta tra i ricercatori pionieristici sul burnout da
lavoro, dando diffusione dei suoi lavori attraverso numerosi articoli, e
pubblicazioni editoriali su questa sindrome, ad esempio, il costo della cura,
sviluppi nella teoria e nella ricerca su questa sindrome, la verità sul
Burnout, e la costruzione di nuove strategie di rapporto lavorativo e sociale.
Ha inoltre dato alle stampe “Bando Burnout:
sei strategie per migliorare il vostro rapporto
con il lavoro”. La professoressa Maslach è inoltre fondatrice e
co-direttrice (con Michel Leiter) dell’e-Journal Burnout Research del 2014. Ha
ricoperto diversi prestigiosi incarichi, ed ottenuto numerosi riconoscimenti in
ambito accademico, uno per tutti: nel 2013 il riconoscimento alla carriera
nell’ambito del lavoro-stress, valorizzando una vita di contributi eccezionali
per una migliore comprensione delle cause, effetti e prevenzione di stress sul
lavoro.
La Maslach (nella foto) nello specifico definisce il
burnout come «la sindrome da esaurimento
emotivo, spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può
presentarsi in soggetti che per professione si occupano della gente...,
reazione alla tensione emotiva cronica del contatto continuo con esseri umani,
in particolare quando essi hanno problemi o motivi di sofferenza». Da tempo
il suo orientamento professionale si sta concentrando sullo sviluppo di un
modello del processo di burnout, che articola i rapporti fondamentali tra personale,
sociale e variabili contestuali, il cui approccio è volto a valutare
l’interazione tra persona e situazioni variabili sul posto di lavoro. Il suo impegno riguarda in particolare la lotta positiva al burnout,
migliorando l’impegno sul lavoro, la serenità dei rapporti in ambiente
lavorativo e di relazione, per giungere a pianificare degli interventi
preventivi alla sindrome, cercando di evitare lo scoppio del fenomeno. La dottoressa
Maslach ha ideato un test da sottoporre all’operatore sin dal 1981. L’MBI
(Maslach Burnout Inventory), sviluppato con la collega Susan Jackson, è un
questionario di 22 item (elementi),
ognuno con 6 gradi di risposta su scala Likert, atto a valutare il livello di
burnout di un individuo. Vari studi hanno dimostrato che il burnout è un
problema di ambiente sociale e lavorativo in cui un professionista opera.
Quando
l’ambiente di lavoro non riconosce l’aspetto umano del lavoro
– precisano Silvana Sabato e Rosangela Caruso, rispettivamente psicologa e
psichiatra dell’Università di Ferrara – il
rischio di burnout aumenta. La difficoltà di misurarsi con le proprie emozioni
e di conseguenza il non riconoscere il problema con conseguente sentimento di
rassegnazione rispetto alla vita sono manifestazioni ben evidenti. Inoltre il
burnout non è un problema che riguarda solo chi ne è affetto, ma è una
“malattia contagiosa” che si propaga in maniera altalenante dall’utenza
all’équipe, da un membro dell’équipe all’altro e dall’équipe agli utenti e può
riguardare quindi l’intera organizzazione».
Ma stiamo assistendo
anche all’incremento delle cosiddette “sindromi da avversità di carriera” che
comprendono oltre al burnout, le sindromi depressive, le dipendenze da sostanze
e da alcool, il deperimento organico, il comportamento
distruttivo/disfunzionale, l’abbandono del lavoro, etc. Tali disturbi stanno
diventando sempre più frequenti soprattutto nelle professioni a rischio. Tali
sindromi riflettono un conflitto dai
notevoli costi umani: rappresentano il divario tra quanto l’operatore è in
grado di dare e le richieste legate al suo ruolo professionale e culturale sul
luogo di lavoro. «Il burnout – spiega
la dott.ssa Paola Mora, in un corsivo su Panorama della Sanità del settembre
2010 – merita un’attenzione particolare a
causa del suo incremento epidemico all’interno della professione medica, e questo
perché è la sindrome da avversità di carriera che più frequentemente si
manifesta e può essere associata con le altre. È una sindrome che risulta da un
prolungato stress cronico, solitamente associato con alte aspettative e con un
lavoro che pretende un elevato coinvolgimento emotivo...». L’argomento si
presta certamente ad ulteriori e specifici approfondimenti, sia di tipo clinico
che psico-sociale, ma credo che per sollevare un dibattito questa sintesi sia
una buona base di partenza e, prolungarmi oltre, non rientrerebbe nelle
mie competenze di divulgatore.
Le immagini sono
tratte da internet.
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