UN DIARIO PER NON DIMENTICARE E “STIMOLARE”
L’ATTACCAMENTO ALLA VITA PROPRIA ED ALTRUI
di
Ernesto Bodini
Finché la trapiantologia umana
rappresenterà a tutti gli effetti la terapia “dominante” salva-vita di molti
pazienti, sarà sempre utile parlare e diffondere la cultura della donazione ma,
a mio modesto avviso, non con la consueta “insistenza” attraverso le più
svariate iniziative cosiddette “promozionali”, poiché l’insistenza potrebbe
essere intesa come una sorta di forzatura… Quindi ben venga il diffondere
esempi di donazione ma, come ripeto, con ragionato criterio e non in modo
spasmodico ed assiduo. Per contro, o parimenti, sono sempre esempi da citare le
esperienze delle singole persone, soprattutto di quelle che hanno voluto
mettere in luce il proprio vissuto di paziente e il proprio percorso sino alla
meta, ossia il trapianto. Fra queste, ricordo che anni fa una giovane donna,
Cristina Bono, fu trapiantata di cuore (a causa di una cardiomiopatia
dilatativa) all’ospedale Molinette di Torino dopo tre anni di “iter clinico”;
un esempio di generosa e spontanea esposizione di paziente ma soprattutto di Persona che voleva (e vuole) vivere,
avere una famiglia ed esercitare la professione di traduttrice di testi
scientifici. Di questa giovane donna, oggi poco più che quarantenne,
felicemente sposata, a me restano due ricordi: la sua pubblicazione
autobiografica “Con il cuore in sospeso
– Diario di un trapianto” (Ed. Bollati Boringhieri, 2000, pagg. 110), e la
mia intervista che intitolai “Un libro per non dimenticare”.
Relativamente al suo diario, il fatto che non si scrivano molti libri di
narrativa con testimonianze di prima mano sui trapianti d’organo, può
rappresentare un dato evidente di come questa pratica terapeutica sia
diventata, per molte patologie, una sorta di “routine”. Infatti, tranne qualche
particolare caso, un intervento di trapianto oggi non fa più notizia, sia dal
punto di vista giornalistico che da quello della trasmissibilità… ad effetto in
senso mediatico. Del resto anche il pioniere dei trapianti di cuore, Christian
Barnard (1922-2001), che ebbi l’occasione di intervistare nel novembre 1997 a
Novara ad un convegno a lui dedicato, sotto l’egida dell’Aido, non fa più
notizia o comunque molto meno…
Affrontare un trapianto significa vivere
“un’esperienza privata”, molto spesso intima, quasi unica e dai risvolti tanto
emozionali quanto apprensivi, peraltro non sempre facili da descrivere. A
questo proposito mi sono rimaste impresse alcune affermazioni fatemi nel corso
dell’intervista alla dottoressa Crisitina Bono, che ricordo con stima ed
ammirazione. Alla domanda: perché ha deciso di scrivere un libro sulla sua
storia che, per certi versi, è comune a quella di tanti altri trapiantati?, mi
rispose: «È un’idea-desiderio che mi è
venuta spontaneamente durante il periodo dell’attesa del trapianto, soprattutto
in un particolare momento in cui ho rischiato un crollo psichico… Quasi
istintivamente ho aperto una pagina bianca del mio computer ed ho cominciato a
scrivere; poi, la notizia del generoso gesto di uno sconosciuto che mi avrebbe
fatto dono del suo cuore. Ho quindi ripreso la stesura del libro (dedicato a
mio padre) durante la convalescenza, e portarlo a termine è diventato poi un
atto “egoistico”: avevo bisogno di continuare a vivere non solo attraverso lo
scritto, ma anche per non dimenticare…». E alla domanda qual è la sua
filosofia della vita?, mi risposte: «Ribadisco
quanto ho scritto nel mio diario: vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo… Se
avrò la fortuna di vivere una vita lunga cerco di raggiungere i piaceri e le
soddisfazioni che mi può offrire; se avrò una vita breve, a maggior ragione mi
auguro di aver vissuto senza aver mai perso il desiderio di lottare per raggiungere
il traguardo della sopravvivenza». Ora, anche a distanza di anni, ben ci venga
tra le mani questo libro, una testimonianza per certi versi “militante”, del
dramma di una persona (e tante come lei) che delicatamente non chiude le porte
al privato, affinché si possa condividere a livello emozionale la sua storia
come sconfitta della morte. «Un diario,
quello della dottoressa Bono – come ha scritto il collega giornalista
scientifico Nicola Ferraro, nella sua breve recensione – dimesso, ruvidità e tenerezze, fragilità e sicurezze granitiche,
disperazione che si stempera con lieve ironia in una nuova consapevolezza del
significato più profondo della vita, sanno rendere visibile, in modo anche
poetico, la massa sterminata di dolore che ci galleggia intorno invisibile,
impalpabile ma che in qualche maniera ci riguarda e con cui dobbiamo fare i
conti».
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