NEL CINQUANTENARIO DELLA MORTE
DEL DOTTOR ALBERT SCHWEITZER
di Ernesto Bodini

UN VILLAGGIO-OSPEDALE A “DIMENSIONE UMANA” DA OLTRE UN SECOLO

Pioniere nel trattamento delle malattie gravi
e “urgenti” della popolazione africana,
fu il primo ad introdurre nell’Africa equatoriale dagli Stati Uniti il Promine ed il Diasone, due prodotti per la cura della lebbra. Durante la sua
permanenza in Gabon si dedicò prevalentemente all’attività medica e chirurgica,
che fu incrementata con l’arrivo del dottor Marc Lautemburg. «Il dottor Schweitzer, nel campo della
scienza medica – precisa Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo
triestino, che per oltre trent’anni si è dedicato ad attività organizzative
nell’ambito dell’assistenza samitaria nei Paesi in via di sviluppo dall’Africa
all’Estremo Oriente – non fu un genio e
non ha mai inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua
genialità riportate varie volte dai media, male informati ed alla ricerca di
notizie sensazionali e quanto meno infondate. Quella che invece ci stupisce di
Schweitzer, e ciò vale per tutte le sfere della sua attività, non è tanto la
sua capacità geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta
indubbiamente da una straordinaria forza di volontà e favorita, pure, come egli
stesso affermava, da una buona dose di fortuna». Gli interventi principali
riguardavano ernie giganti, elefantiasi (malattia provocata dall’ostruzione dei
vasi linfatici da parte di microfilarie, nda), fibromi uterini, gozzi, piaghe e
ferite causate soprttutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi
disperati. Si operava in anestesia generale o locale, e i pazienti ben presto si
resero conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe potuti guarire.
Nel 1939 gli interventi furono 700. Contro le patologie come la filariosi,
malaria, malattia del sonno, lebbra, ulcera fagedemica, affezioni intestinali,
dissenteria, Tbc polmonare o ossea, avtaminosi, etc., venivano usate sostanze
biochimiche sperimentate e prodotte con rigore medico dall’industria
farmaceutica d’oltre oceano.
Gli ammalati arrivavano da villaggi che
distavano centinaia di chilometri dall’ospedale, o lungo il fiume in canoa o
percorrendo le piste che attraversavano la foresta vergine. «Dopo un viaggio di 400-500 chilometri –
osservava Schweitzer – arrivavano in
condizioni pietose (spesso disperate), affamati, denutriti; e per varie
settimane, prima di operarli, dovevamo nutrirli e rimetterli in sesto». In
mancanza di denaro ai pazienti veniva chiesto un contributo in natura e lavoro.
Senza scendere ulteriormente in dettagli, si può immaginare quali erano le
difficoltà di organizzazione e funzionamento di un ospedale nel cuore
dell’Africa agli inizi del secolo scorso, creato dal nulla in un habitat ed un
clima ostile, senza collaboratori tecnici competenti. Anche se Schweitzer non scoprì nulla in
ambito medico, sotto certi aspetti è da considerarsi un pioniere nel
trattamento di alcune patologie tropicali: fu il primo, ad esempio, che oltre
ad introdurre nell’Africa equatoriale dagli USA, il Promine ed il Diasone,
due prodotti per il trattamento della lebbra, fu il primo pure a sostituire l’Atoxyl e l’Arseno benzolo (farmaci
dagli effetti collaterali pericolosi e inadatti a distruggere i microrganismi
che avevano già invaso le cellule del sistema nervoso centrale, nda), con il Germanyl, il Moranyl ed il Tryparsamide,
molecole che, grazie alla scoperta della statunitense dottoressa Pearce, avevano
rivoluzionato il trattamento della malattia del sonno. Il farmaco venne
sperimentato in parallelo da Schweitzer a Lambaréné presso l’Istituto Pasteur
di Parigi, ed era incredibile vedere quei pazienti riprendersi lentamente.
Purtroppo sull’impiego del Trypasarmide
gravava il dubbio che provocasse lesioni del nervo ottico con conseguente
cecità permanente. Durante un rientro in Europa, Schweitzer frequentò la
Clinica Odontostomatologica di Strasburgo per perfezionare le sue conoscenze
stomatologiche. Dopo vari viaggi all’interno dell’Europa per tenere concerti,
si fermò ad Amburgo per aggiornarsi sui progressi della terapia del sonno
(tripanosomiasi africana), e frequentare un corso di chirurgia che gli consentì
di affrontare e risolvere la quasi totalità delle patologie chirurgiche.

Ma come funziona oggi l’ospedale? «Attualmente – spiega il dottor Lachlan
Forrow, presidente of The Albert Schweitzer Fellowship – l’ospedale è strutturato su sette reparti: radiologia, medicina,
chirurgia, psichiatra e odontoiatria. Vi lavorano otto medici (sette africani)
e un centinaio di infermieri (la maggior parte dei quali africani). Nel 2012,
tra ricoveri e visite, ha offerto assistenza a 30 mila persone. Oggi, come in
passato, è il punto di riferimento di un ampio bacino di popolazione, non solo
gabonese. I finanziamenti arrivano dallo Stato gabonese (45%), da donatori
svizzeri (21%), tedeschi (7%) e la parte restante (27%) da donatori nel resto
del mondo». E che cosa resta del messaggio
nell’attuale ospedale? «L’azione del
dottor Schweitzer – ha dichiarato Forrow in una intervista raccolta da
Enrico Casale per la rivista Popoli del 2013 – era incentrata sul principio del “rispetto per la vita”. Questo stesso
principio è stato fatto nostro e ispira la “Carta dei valori dell’ospedale”.
Noi lavoriamo inoltre per promuovere la crescita professionale e umana della
popolazione africana. Non è un caso che la nostra Fondazione abbia sede in
Gabon e che per statuto otto membri (su 15) del Consiglio Direttivo siano
africani. Africani, infine, sono la maggior parte dei nostri dipendenti».
L’ospedale di Lambarènè è oggi uno dei più importanti ed avanzati di tutta
l’Africa, ma il lascito che Schweitzer ha donato all’intera umanità va ben
oltre: il suo esempio, la sua costanza. La certezza con la quale ha agito, la
conferma che l’amore donato altruisticamente, germoglia e fiorisce estendendosi
a tutte le forme viventi, non ha prezzo, ed una volta trasmessa, perdura nel
tempo. Da qui il suo insegnamento: «L’uomo
non troverà pace interiore finché non imparerà ad estendere la propria
compassione a tutti gli esseri viventi».
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