RICORDANDO L'OPERA DI ALBERT SCHWEITZER

NEL CINQUANTENARIO DELLA MORTE DEL DOTTOR ALBERT SCHWEITZER

di Ernesto Bodini



Lo scorso anno ricorreva il cinquantenario della morte di Albert Schweitzer (1875-1965), avvenuta il 4 settembre 1965 nel suo villaggio di Lambaréné (mentre nel 2013 ricorreva il centenario della creazione dell’ospedale). Ma perchè pensare e voler ricordare questo anniversario? Le ragioni non sono poche, ma basterebbe convincerci che Schweitzer rimane nella memoria collettiva soprattutto come “le grand docteur”, l’uomo dell’azione epica, che ha fondato quella che lui definiva «la mia improvvisazione», ovvero il suo ospedale nella foresta equatoriale che ha diretto per più di mezzo secolo. Cercando di prevenire i posteri, affermava: «Quando traccerete il mio ritratto, non voglio comparire come un medico che ha curato dei malati: è la mia filosofia del rispetto della vita che io considero il mio principale contributo all’umanità».

UN VILLAGGIO-OSPEDALE A “DIMENSIONE UMANA” DA OLTRE UN SECOLO

L’ospedale “Albert Schweitzer” di Lambaréné sorge sulla riva sinistra del fiume Ogooué, a circa 200 chilometri dall’oceano Atlantico. La regione è coperta da una foresta equatoriale quasi impenetrabile, il clima è dei peggiori a causa del particolare tasso di umidità. Il villaggio-ospedale all’inizio aveva grandi baracche di legno, col tetto in lamiera per reggere alle continue piogge equatoriali. Le famiglie prendevano alloggio gratuito e ricominciavano a vivere secondo le proprie usanze, in attesa che il parente infermo guarisse. Innumerevoli i tabù, i riti, le abitudini degli abitanti che non vivevano e non vivono in grandi comunità come le nostre, i cui costumi si sono uniformati, bensì in piccoli gruppi tribali, ognuno dei quali era strettamente vincolato a particolari consuetudini e usi. Sarebbe stato impensabile pretendere di cambiare questa mentalità e questo atteggiamento primordiali: per il primitivo è più importante rispettare il proprio tabù che cercare una guarigione corporale, in quanto ha più valore il legame con il suo ambiente spirituale che la speranza o la fiducia di scampare alla morte. E Schweitzer lo aveva ben capito, come si evince soprattutto nel suo libro “Histories de la forêt vierge” dalla profonda analisi psicologica delle popolazioni africane. Schweitzer pensava di poter rendere il suo ospedale più moderno ma solamente procedendo per gradi. «Noi – spiegava ai suoi interlocutori che gli facevano visita – non siamo qui soltanto per curare ernie o filariosi: abbiamo anche il dovere di aiutare questa gente a imparare a camminare da sola. Ed è insensato pretendere che l’uomo della foresta apprenda ciò che della nostra civiltà tecnologica e spirituale possa essergli utile, tutto d’un colpo, partendo da zero. Bisogna condurlo per gradi. Il mio ospedale, per lui vuole essere non soltato il surrogato più efficiente dello stregone, ma una scuola di vita. Così io gli insegno ad amare il prossimo anche se è una razza diversa; gli insegno a lavorare, gli faccio vedere che quando il fiume si abbassa nella stagione secca si può disboscare la riva e piantare qualcosa di diverso dalla manioca; gli dimostro che unendo le forze si ottiene un risultato più rapido e più utile per tutti: deve sentire che le risorse stanno in lui, dentro di lui, che lui può operare in questo suo ambiente, purché la voglia. Il mio villaggio-ospedale dovrà progredire, da un punto di vista tecnico, insieme con il progresso generale di tutti i villaggi che gli stanno intorno per centinaia di miglia: dovrà sempre essere un poco più avanti, per fare da guida, ma senza perdere il contatto».


Pioniere nel trattamento delle malattie gravi e “urgenti” della popolazione africana,  fu il primo ad introdurre nell’Africa equatoriale dagli Stati Uniti il Promine ed il Diasone, due prodotti per la cura della lebbra. Durante la sua permanenza in Gabon si dedicò prevalentemente all’attività medica e chirurgica, che fu incrementata con l’arrivo del dottor Marc Lautemburg. «Il dottor Schweitzer, nel campo della scienza medica – precisa Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo triestino, che per oltre trent’anni si è dedicato ad attività organizzative nell’ambito dell’assistenza samitaria nei Paesi in via di sviluppo dall’Africa all’Estremo Oriente – non fu un genio e non ha mai inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua genialità riportate varie volte dai media, male informati ed alla ricerca di notizie sensazionali e quanto meno infondate. Quella che invece ci stupisce di Schweitzer, e ciò vale per tutte le sfere della sua attività, non è tanto la sua capacità geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta indubbiamente da una straordinaria forza di volontà e favorita, pure, come egli stesso affermava, da una buona dose di fortuna». Gli interventi principali riguardavano ernie giganti, elefantiasi (malattia provocata dall’ostruzione dei vasi linfatici da parte di microfilarie, nda), fibromi uterini, gozzi, piaghe e ferite causate soprttutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi disperati. Si operava in anestesia generale o locale, e i pazienti ben presto si resero conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe potuti guarire. Nel 1939 gli interventi furono 700. Contro le patologie come la filariosi, malaria, malattia del sonno, lebbra, ulcera fagedemica, affezioni intestinali, dissenteria, Tbc polmonare o ossea, avtaminosi, etc., venivano usate sostanze biochimiche sperimentate e prodotte con rigore medico dall’industria farmaceutica d’oltre oceano.


Gli ammalati arrivavano da villaggi che distavano centinaia di chilometri dall’ospedale, o lungo il fiume in canoa o percorrendo le piste che attraversavano la foresta vergine. «Dopo un viaggio di 400-500 chilometri – osservava Schweitzer – arrivavano in condizioni pietose (spesso disperate), affamati, denutriti; e per varie settimane, prima di operarli, dovevamo nutrirli e rimetterli in sesto». In mancanza di denaro ai pazienti veniva chiesto un contributo in natura e lavoro. Senza scendere ulteriormente in dettagli, si può immaginare quali erano le difficoltà di organizzazione e funzionamento di un ospedale nel cuore dell’Africa agli inizi del secolo scorso, creato dal nulla in un habitat ed un clima ostile, senza collaboratori tecnici competenti. Anche se Schweitzer non scoprì nulla in ambito medico, sotto certi aspetti è da considerarsi un pioniere nel trattamento di alcune patologie tropicali: fu il primo, ad esempio, che oltre ad introdurre nell’Africa equatoriale dagli USA, il Promine ed il Diasone, due prodotti per il trattamento della lebbra, fu il primo pure a sostituire l’Atoxyl e l’Arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali pericolosi e inadatti a distruggere i microrganismi che avevano già invaso le cellule del sistema nervoso centrale, nda), con il Germanyl, il Moranyl ed il Tryparsamide, molecole che, grazie alla scoperta della statunitense dottoressa Pearce, avevano rivoluzionato il trattamento della malattia del sonno. Il farmaco venne sperimentato in parallelo da Schweitzer a Lambaréné presso l’Istituto Pasteur di Parigi, ed era incredibile vedere quei pazienti riprendersi lentamente. Purtroppo sull’impiego del Trypasarmide gravava il dubbio che provocasse lesioni del nervo ottico con conseguente cecità permanente. Durante un rientro in Europa, Schweitzer frequentò la Clinica Odontostomatologica di Strasburgo per perfezionare le sue conoscenze stomatologiche. Dopo vari viaggi all’interno dell’Europa per tenere concerti, si fermò ad Amburgo per aggiornarsi sui progressi della terapia del sonno (tripanosomiasi africana), e frequentare un corso di chirurgia che gli consentì di affrontare e risolvere la quasi totalità delle patologie chirurgiche.

Non sono mancate le critiche a lui e al suo ospedale, ma è bene rammentare che l’obiettività elementare è frutto delle cose nella situazione stessa e nel loro momento storico. Ed è ciò che Schweitzer applicò in pratica nel suo tanto discusso villaggio sanitario ove accolse gli ammalati e le loro famiglie, assieme agli animali, e acconsentì ai vari gruppi etnici di vivere secondo i loro costumi adattandosi egli stesso alla cultura dei popoli locali e rispondendo alle esigenze degli ammalati, rispettoso com’era, sino all’eccesso, della libertà individuale degli africani. Tollerò le loro abitudini tribali, la poligamia, le loro interminabili discussioni…  Risultati di una improvvisazione che hanno avuto come scopo combattere le sofferenze e guarire i suoi ammalati. «Tutto questo – affermava – è insito nello spirito del cristianesimo, e come tale si manifesta più o meno in tutte le religioni delle varie civiltà». Le “grand docteur”, come veniva chiamato, visse in povertà nel suo ospedale, in economia, ove il superfluo era bandito, e fu così che le illusioni e le ambizioni nate dall’indipendenza politica negli anni ’60, determinarono quell’atteggiamento di disprezzo, di avversione che indusse a giudicare la struttura superata, o peggio ancora, vergognosa. Forse tardi, ma ancora in tempo, Schweitzer comprese che l’amore per il prossimo (il vero fine dell’esistenza, la poetica “escatologica” alla quale portava il mistero della Fede, ben al di là delle questioni filosofiche e teologiche) non poteva avvenire se non sacrificando la propria vita, nel corso della quale ne trasse l’amara constatazione di vivere in un periodo di decadenza spirituale, dove la rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento, ma anche la forza di combattere per far recuperare dignità all’essere umano. Nel 1952 gli fu riconosciuto il premio nobel per la Pace (33.480 dollari) che utilizzò per ampliare e completare “le village lumière” (villaggio della luce), per la cura fisica e spirituale dei suoi lebbrosi.


Ma come funziona oggi l’ospedale? «Attualmente – spiega il dottor Lachlan Forrow, presidente of The Albert Schweitzer Fellowship – l’ospedale è strutturato su sette reparti: radiologia, medicina, chirurgia, psichiatra e odontoiatria. Vi lavorano otto medici (sette africani) e un centinaio di infermieri (la maggior parte dei quali africani). Nel 2012, tra ricoveri e visite, ha offerto assistenza a 30 mila persone. Oggi, come in passato, è il punto di riferimento di un ampio bacino di popolazione, non solo gabonese. I finanziamenti arrivano dallo Stato gabonese (45%), da donatori svizzeri (21%), tedeschi (7%) e la parte restante (27%) da donatori nel resto del mondo».  E che cosa resta del messaggio nell’attuale ospedale? «L’azione del dottor Schweitzer – ha dichiarato Forrow in una intervista raccolta da Enrico Casale per la rivista Popoli del 2013 – era incentrata sul principio del “rispetto per la vita”. Questo stesso principio è stato fatto nostro e ispira la “Carta dei valori dell’ospedale”. Noi lavoriamo inoltre per promuovere la crescita professionale e umana della popolazione africana. Non è un caso che la nostra Fondazione abbia sede in Gabon e che per statuto otto membri (su 15) del Consiglio Direttivo siano africani. Africani, infine, sono la maggior parte dei nostri dipendenti». L’ospedale di Lambarènè è oggi uno dei più importanti ed avanzati di tutta l’Africa, ma il lascito che Schweitzer ha donato all’intera umanità va ben oltre: il suo esempio, la sua costanza. La certezza con la quale ha agito, la conferma che l’amore donato altruisticamente, germoglia e fiorisce estendendosi a tutte le forme viventi, non ha prezzo, ed una volta trasmessa, perdura nel tempo. Da qui il suo insegnamento: «L’uomo non troverà pace interiore finché non imparerà ad estendere la propria compassione a tutti gli esseri viventi».


Commenti